La Svizzera, durante
la guerra fredda, sebbene in quanto Paese neutrale rifiutasse di schierarsi
apertamente col blocco occidentale di cui geograficamente e culturalmente
faceva parte, fu molto decisa nel combattere il comunismo che caratterizzava il
blocco sovietico. Riteneva, infatti, che solo dall’Unione Sovietica provenisse
il pericolo di un altro conflitto mondiale e la penetrazione ideologica
comunista fosse finalizzata a scatenare una rivoluzione in tutti i Paesi
democratici compresa la Svizzera. Le autorità politiche, ma anche gli ambienti
economici, erano concordi nel ritenere che il comunismo andasse combattuto con
misure preventive e repressive. Una di esse doveva consistere nel controllo
sistematico dell’attività politica degli immigrati, soprattutto italiani.
Divieto di
propaganda
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Il pericolo rosso! |
Italiani «pericolosi»
Finita la guerra, il
«pericolo comunista» apparve tutt’altro che eliminato. Non era solo rinato il
partito comunista svizzero nelle vesti del Partito del Lavoro (1944), ma con
l’arrivo in massa di lavoratori immigrati dall’Italia, dove il Partito
comunista italiano (PCI) era considerato molto influente, il rischio che tra
loro ci fossero molti comunisti sembrava reale e da prendere sul serio. Le
autorità federali ritenevano che alcuni fossero veri e propri attivisti inviati
appositamente per fare propaganda tra gli immigrati.
Fu anche per questa
ragione che il 24 febbraio 1948 il Consiglio federale emanò un decreto molto
severo riguardante i discorsi politici di stranieri. All’articolo 2 si diceva
chiaro e tondo che «gli stranieri che non sono in possesso di un permesso di
domicilio possono prendere la parola su argomenti politici nelle assemblee
pubbliche o private solamente se hanno ottenuto un’autorizzazione speciale». L’articolo
3 avvertiva: «L’autorizzazione sarà negata se vi sia da temere che venga posta
in pericolo la sicurezza interna o esterna del Paese o che sia turbato l’ordine
pubblico. Gli oratori stranieri devono astenersi da qualsiasi intromissione in
questioni che riguardano la politica interna della Svizzera».
In piena guerra
fredda, alcune associazioni di italiani sembravano ignorare tale divieto e non
solo introducevano dall’Italia ogni tipo di materiale di propaganda, ma
facevano intervenire come oratori alle loro riunioni anche esponenti politici,
talvolta di prim’ordine, del PCI. Le autorità svizzere divennero sempre più
sospettose e guardinghe.
Passione politica e rischio di disordini sociali
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Protesta di italiani che gli svizzeri non gradivano |
Durante
il fascismo, le collettività italiane emigrate erano considerate come «colonie»
da governare alla stregua degli italiani in Italia. Per questo, nelle
principali città, erano stati istituiti Fasci, scuole, associazioni, Case
d’Italia, ecc. anche se non tutti gli italiani vi aderirono. Alcuni gruppi di
immigrati e soprattutto i fuorusciti preferirono altre strutture e
organizzazioni, prive dei sussidi governativi, ma libere. Caduto il fascismo, ci fu un’importante
operazione di «liberazione» delle colonie fasciste, ad opera soprattutto delle
Colonie «libere» italiane (CLI) costituite nelle principali città svizzere a
partire dal 1943 da esuli antifascisti di grande levatura morale e
intellettuale oltre che politica come Fernando Schiavetti, Egidio
Reale, Giuseppe Chiostergi e altri.
La FCLIS sorvegliata speciale
Finita
la guerra, la FCLIS, rivendicò subito «la rappresentanza unitaria di tutti gli
italiani dimoranti in Svizzera e rimasti fedeli alle grandi tradizioni di
libertà e di umanità». Si trattava soprattutto di una rappresentanza morale
(ispirata ai principi della libertà, della solidarietà e della difesa dei
lavoratori) e politica (caratterizzata da un forte spirito antifascista e, da
quando il PCI guidò l’opposizione, anche antigovernativo), che sollevò però
forti dubbi e contrasti persino all’interno della FCLIS e mise in allarme tanto
le autorità svizzere quanto quelle italiane. Divenne una sorta di sorvegliata
speciale.
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La FCLIS sorvegliata speciale |
Le autorità svizzere
erano talmente convinte che le CLI potessero diventare uno strumento di
propaganda comunista guidato dal PCI, che già nel 1948 ordinarono un’indagine
sull’attività politica dei lavoratori italiani in Svizzera. Dal rapporto che ne
fu fatto non emersero particolari situazioni preoccupanti, anche se venne
accertata la presenza in Svizzera di attivisti comunisti e soprattutto
tentativi di infiltrazioni in diverse organizzazioni di emigrati. Sta di fatto
che, probabilmente per dare un segnale chiaro, furono decise alcune espulsioni
di italiani presunti aderenti al PCI.
Dall’indagine erano
emersi sospetti anche a carico delle Colonie libere italiane, divenute sempre
più critiche nei confronti sia dell’Italia (allora a guida democristiana) che
della Svizzera. Fra l’altro avevano fortemente criticato l’Accordo
italo-svizzero del 1948, soprattutto per non essere state coinvolte nelle
trattative, ma anche perché lo ritenevano povero di risultati.
Contrasti in seno
all’associazionismo italiano
A sua volta, la FCLIS
era criticata all’interno di numerose organizzazioni italiane perché sospettata
di voler in qualche modo sostituire nelle «colonie» degli immigrati l’ideologia
fascista con l’ideologia social-comunista e assumerne il controllo. Dalle
Missioni cattoliche italiane, oggetto di continui attacchi, le CLI erano considerate
inaffidabili perché «manovrate dal partito comunista italiano».
Per questa vera o
presunta dipendenza dal PCI, molti dirigenti della FCLI non ebbero una vita
facile, anzi furono spesso spiati e schedati dalla polizia federale, alcuni
vennero arrestati e forse maltrattati, altri vennero espulsi. Nell’agosto 1963 vennero
espulsi 18 attivisti comunisti, accusati di propaganda politica e di essere
pericolosi per la «pace sindacale» e alcuni deputati comunisti italiani vennero
espulsi insieme a loro o non fatti entrare in Svizzera. Nonostante le critiche
dell’opinione pubblica sia in Italia che in Svizzera, le autorità svizzere
erano oltremodo convinte che la propaganda comunista tra gli immigrati italiani
andasse stroncata.
Non diversa era
l’opinione prevalente tra i sindacati svizzeri (probabilmente a causa
soprattutto della frequente contrapposizione ai sindacati italiani). Persino i
patronati italiani, specialmente l’INCA (emanazione del sindacato «comunista» italiano
CGIL), erano sospettati di infiltrazioni comuniste e perciò tenuti sotto
controllo.
Bisogna anche dire che
per molti anni le CLI non godettero nemmeno del sostegno e della fiducia delle
autorità italiane, per cui gran parte delle rivendicazioni promosse da loro,
spesso in collaborazione con altre organizzazioni, rimase senza esito alcuno.
Conclusione critica
A questo punto, chi
pensasse che il comunismo italiano e l’anticomunismo svizzero abbiano prodotto
solo attacchi verbali, divisioni tra le associazioni italiane, sospetti, diffidenze,
schedature e qualche espulsione, dimentica probabilmente che le contrapposizioni
all’interno dell’associazionismo e nei confronti delle autorità e della società
svizzere hanno prodotto anche, a mio parere, conseguenze negative rilevanti
sull’evoluzione della collettività italiana in Svizzera.
In particolare, non
hanno prodotto comprensione, tolleranza, rispetto e vicinanza tra due comunità
che per decenni si sono sentite diverse ed estranee l’una all’altra. Il danno
arrecato al processo d’integrazione è stato incalcolabile perché invece di
essere accelerato, come avrebbe potuto almeno dall’inizio degli anni ’60, è
stato di molto ritardato, senza alcun contraccambio. Un po’ di autocritica ogni
tanto sarebbe utile. (Segue)
Giovanni Longu
Berna 7.6.2017
Berna 7.6.2017