La storia
dell’immigrazione italiana in Svizzera è spesso presentata come una serie di
avventure e disavventure vissute dagli emigrati italiani, fuggiti da una
situazione di bisogno e desiderosi di garantire per sé e per le loro famiglie
sicurezza e benessere. Per oltre un secolo hanno dovuto lottare e aspettare di
essere accettati e stimati da una vasta opinione pubblica.
Una storia incompleta

I protagonisti
della storia, quelli di cui trattano gli accordi internazionali, molti libri e
ricerche, e di cui si occupano la politica, l’amministrazione, la stampa, i
dispacci delle cancellerie diplomatiche, sono loro, gli emigrati/immigrati, di
genere maschile, con al seguito o al fianco in ruoli secondari le donne
emigrate/immigrate. Una storia evidentemente distorta, incompleta, a metà, in
parte da riscrivere.
E’ vero, le donne
italiane immigrate in Svizzera non sono mai state protagoniste, nel senso
comunemente inteso di persone di primo piano, perché hanno svolto per quasi un
secolo attività considerate (allora) secondarie o comunque meno importanti
perché spesso erano mal pagate o non retribuite affatto come i lavori domestici
e la cura dei figli, degli anziani, dei malati. Gran parte dei lavori
«femminili» erano sottopagati anche nelle fabbriche, nei negozi, negli ospedali,
negli alberghi, nelle mense, nelle lavanderie, nelle case delle famiglie
facoltose.
Spesso le donne
erano costrette al doppio lavoro, in fabbrica o nei servizi e in famiglia. Non
ricordo di aver mai letto, in tutta la letteratura dedicata alla storia
dell’immigrazione italiana in Svizzera, di scioperi, cortei o proteste di donne
perché erano in qualche modo doppiamente sfruttate. Non ho nemmeno mai letto
ch’esse andassero fiere perché spesso, sul lavoro nelle filature, nelle fabbriche di cioccolata, nella
confezione dei ricami e delle scarpe erano considerate da molti datori di
lavoro più brave delle colleghe svizzere, perché dicevano che apprendessero più
in fretta e più facilmente delle indigene ed apportassero nelle loro
attribuzioni «un certo senso artistico e di maggiore precisione».
Nel racconto
tradizionale dell’immigrazione italiana in Svizzera le donne hanno ricevuto
quasi sempre una considerazione di secondo livello almeno fino agli ultimi
decenni del secolo scorso. Di queste donne si conosce molto poco di quel che
facevano nell’Ottocento e agli inizi del Novecento in campo sociale, politico e
culturale, del loro impegno nelle associazioni, dell’azione di sostegno fisico
e morale all’attività degli immigrati maschi, parenti o no, del contributo che
in molti modi hanno dato alla salute fisica dei lavoratori addetti agli scavi
stradali e ferroviari, all’elevazione morale di intere generazioni come custodi
dell’integrità della famiglia, alla crescita e allo sviluppo delle seconde e
terze generazioni nella scuola e nella società, a una pacifica convivenza, all’integrazione.
Si tratta certamente di una lacuna grave.
Donne coraggiose
Le donne italiane
immigrate dell’Ottocento e degli inizi del Novecento dovevano essere molto
modeste, ma anche molto coraggiose. Desidero ricordare solo un episodio
emblematico.
Dopo i tumulti anti
italiani di Zurigo (1896) la reazione immediata degli uomini fu quella di
fuggire, andar via da Zurigo. Molte donne italiane (comprese molte
naturalizzate) reagirono invece diversamente. Si organizzarono e scesero in
piazza per protestare, tenendo discorsi in tedesco e in italiano, contro il
trattamento ingiusto riservato agli italiani dal popolo, dalla stampa e dalla
polizia. Se era stato commesso un crimine, il primo sospettato era sempre un
italiano, anche se il vero autore era un ticinese o un tirolese o uno svizzero
qualunque. Se qualche italiano (come tanti tedeschi, austriaci e persino
svizzeri) non pagava regolarmente le imposte, tutti gli italiani erano
coinvolti nell’accusa. Bisognava smetterla con le facili accuse e i pregiudizi
nei confronti degli italiani.
In quell’occasione ci
fu anche chi invitò le mogli degli italiani a tenere lontani i loro mariti dai
disordini provocati dai «socialisti» e a non farsi strumentalizzare. Era
infatti accaduto che ad un corteo del primo maggio, a Zurigo, in prima fila avevano
messo operai italiani che portavano manifesti rivoluzionari di cui ignoravano
il contenuto perché scritti in tedesco, una lingua che non conoscevano. Venne
infine decisa la creazione di una associazione femminile incaricata di
rispondere, caso per caso, alle accuse ingiuste rivolte agli italiani.
Difficile dire quanto
quella reazione delle donne italiane di Zurigo abbia influito sulla convivenza
tra italiani e svizzeri. Sta di fatto che da allora non ci furono più
aggressioni e violenze come quelle del 1896 e non c’è dubbio che il contributo
delle donne italiane, convinte e coraggiose, sia stato importante, forse
determinante.
Giovanni Longu
Berna, 8 marzo 2017
Berna, 8 marzo 2017