Lo stereotipo
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Nel primo dopoguerra emigrarono più donne che uomini. |
Del resto, per molto
tempo, dagli stessi immigrati il ruolo della donna era considerato secondario,
del tipo tradizionale «tutta casa e famiglia», per cui risultava normale che
incombesse sulle donne gran parte dei lavori domestici, dell’educazione dei
figli e dei contatti essenziali con la società, e che non avessero bisogno di
istruirsi, perfezionarsi, pensare alla carriera, disporre di un minimo di tempo
libero da dedicare a sé stesse.
Di fatto, in pubblico,
ai vertici delle associazioni, nei rapporti con le istituzioni, nella
formazione delle delegazioni e soprattutto nella «lotta» per rivendicare
maggiori diritti, solo uomini comparivano in primo piano, anche se le donne
erano sempre richieste nella logistica (diramare inviti, stampare documenti, preparare
sale, ecc.).
Raramente le donne
riuscivano ad affermarsi nelle associazioni, negli organismi di rappresentanza
e nei partiti politici. Anche nelle liste per qualche elezione significativa la
loro presenza spesso costituiva più che una seria candidatura per l’elezione una
specie di foglia di fico per coprire il maschilismo che stava a monte.
Questo era in estrema
sintesi lo stereotipo della donna immigrata, diffuso soprattutto tra gli
italiani.
La donna in famiglia
Eppure era evidente
quanto fosse complesso, impegnativo, delicato e faticoso il ruolo della donna
immigrata in famiglia, anche nel caso che non avesse avuto un lavoro fuori
casa. Sarebbe bastato tentare di calcolare in valore monetario i lavori
domestici (supponendo che venissero svolti da persone retribuite a ore) e la
cura ed eventuale assistenza dei famigliari (marito o compagno compreso) per
rendersi conto che l’apporto delle donne al bilancio familiare anche solo con
questi lavori e queste cure non era indifferente. Purtroppo, però, il
lavoro domestico delle donne (che supera spesso di oltre il 50% quello degli
uomini) è ancora considerato «lavoro produttivo non pagato»!
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Una delle donne che ha seguito con particolare sensibilità l'evoluzione dell'immigrazione femminile del dopoguerra è stata la scrittrice Luisa Moraschinelli (1930-2020) |
La donna italiana
immigrata ha sempre lavorato, normalmente più degli stessi uomini, perché oltre
ai lavori casalinghi lavorava in fabbrica o nei servizi (vendita, alberghi, ristorazione,
ospedali, pulizia, ecc.) contribuendo non solo al bilancio familiare ma
anche allo sviluppo dell’economia del Paese.
Purtroppo, però, alle donne venivano riservati quasi sempre lavori di routine, poco qualificati e poco gratificanti, costringendole di fatto a subirne loro malgrado le conseguenze, ossia una remunerazione sistematicamente inferiore a quella dell’uomo, scarsi incentivi al perfezionamento e la probabilità di perdere il posto di lavoro per prime in caso di crisi. Solo negli anni Ottanta, come si vedrà nel prossimo articolo, la situazione ha cominciato a migliorare. (Segue)
Giovanni Longu
Berna 4 agosto 2021