Nell'articolo
precedente si è accennato alle cosiddette «classi speciali», un capitolo della
storia dell’integrazione della seconda generazione che merita qualche considerazione
di approfondimento. Lo merita soprattutto per evitare che la questione delle
«classi speciali», spesso associata confusamente a quella dei «bambini
clandestini» o «nascosti», insieme a una non tanto malcelata critica
superficiale del sistema scolastico svizzero, rischi di far ritenere i figli
degli immigrati del secondo dopoguerra una generazione persa. Lo merita anche
per mettere in luce che proprio grazie all'integrazione scolastica e alla
successiva formazione professionale la seconda generazione è riuscita a
superare molti degli aspetti negativi che caratterizzavano l’immigrazione fino
agli anni Settanta e Ottanta.
Importanza dell’integrazione scolastica
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Negli anni ’70 molte associazioni criticavano il ricorso con troppa facilità alle «classi speciali» per gli allievi stranieri (Corriere della Sera, 13.04.1974) |
L’Italia aveva visto
giusto, mentre le istituzioni svizzere e italiane attive nel settore non furono
in grado di diffondere tra gli immigrati la consapevolezza che il destino dei
propri figli, soprattutto se fossero rimasti in Svizzera, sarebbe dipeso in
larga misura dal loro livello d’integrazione. Se la maggior parte degli
immigrati non era probabilmente in grado di conoscere e valutare i complicati
rapporti tra conoscenze linguistiche, successo scolastico, scelta professionale
(talvolta complicata e difficile per gli stessi svizzeri), apprendistato,
integrazione professionale, integrazione sociale, ecc. le istituzioni italiane
avrebbero dovuto capire e spiegare questi legami in modo da aiutare i genitori
immigrati a fare le scelte giuste in funzione del bene certo o probabile dei
loro figli.
Va inoltre ricordato
che a livello europeo, in tutti i Paesi d’emigrazione e d’immigrazione, negli
anni Sessanta si cominciava a considerare importante il problema della
scolarizzazione dei figli degli immigrati. Per questo fu facile tra l’Italia e
la Svizzera trovare un’intesa su questo tema (frequenza della scuola pubblica
svizzera e corsi di lingua e cultura italiane), prima ancora che il Consiglio
d’Europa (di cui facevano già parte sia l’Italia che la Svizzera) nel 1970
raccomandasse con una risoluzione l’integrazione dei bambini stranieri nelle
scuole locali.
Non va infine
dimenticato che dal 1970, dopo la bocciatura della più pericolosa iniziativa
antistranieri, la Confederazione è sempre più convinta che il rischio
d'inforestierimento tende a diminuire quanto maggiore è l’integrazione.
Pertanto per i figli degli immigrati essa doveva cominciare quanto prima
possibile attraverso la frequenza della scuola svizzera, limitando la frequenza
di altre scuole private solo a casi particolari.
Le «classi speciali»
Date queste premesse,
potrebbe sembrare che dagli anni Settanta, grazie all'intesa italo-svizzera, il
problema fosse se non risolto almeno ben incardinato. Invece non lo era
affatto. I problemi da superare erano talmente tanti che non bastarono per
parecchio tempo gli accordi e le buone intenzioni. Basti pensare che i bambini
da inserire nelle diverse classi della scuola svizzera avevano ben poco in
comune: oltre all'età, erano diversi la provenienza, le esperienze
prescolastiche vissute, le conoscenze linguistiche, l’ambiente sociale, le
condizioni familiari, i progetti di vita dei genitori per sé e per i loro
figli, ecc.
Solo una buona scolarizzazione garantiva di norma un buon apprendistato, ma esistevano anche buone forme di ricupero (allievi del CISAP, anni ’80) |
Risolvere tutte queste
e simili disparità divenne per le strutture scolastiche svizzere un compito non
indifferente, perché, se il mandato era chiaro, ossia inserire gli stranieri
nella scuola svizzera, non lo erano altrettanto i tempi, le condizioni, i modi,
gli aiuti di sostegno. Per anni si andò avanti per tentativi, finché divenne
evidente che non aveva senso inserire in un corso regolare allievi che non
avevano alcuna possibilità di seguire proficuamente il programma scolastico
normale.
Fu per queste ragioni e
nell'interesse dei bambini che vennero proposte e organizzate classi «speciali»
per stranieri. L’obiettivo non era quello di scolarizzarli separatamente dagli svizzeri
o da altri connazionali (generalmente figli di italiani domiciliati e integrati),
ma di prepararli per essere reinseriti nei corsi regolari appena fossero stati
in grado di seguire regolarmente le lezioni. Non sempre, tuttavia, lo scopo fu
compreso, forse perché non ben precisato.
Erano evitabili le «classi speciali»?
Soprattutto negli
anni Settanta queste «classi speciali» furono aspramente criticate in alcuni
ambienti associazionistici sia perché frequentate da un numero ritenuto abnorme
di bambini italiani e sia perché ritenute penalizzanti per il loro futuro. Già
l’assegnazione a queste classi appariva talvolta una sorta di condanna senza
appello di bambini del tutto «normali», salvo l’handicap linguistico. L’associazione
delle Colonie Libere ne chiedeva la soppressione considerandole
«classi-ghetto». Alcuni genitori ritenevano inoltre che l’aver frequentato una
classe speciale preconizzasse per i loro figli l’esito finale della scuola
obbligatoria al grado più basso e una preclusione di scelte professionali
(apprendistati) di alto livello.
Chi scrive ha
partecipato all'epoca a numerose discussioni anche pubbliche su questo tema e
può confermare sia la ragionevolezza delle reazioni negative di molti genitori
e sia la difficoltà per le istituzioni scolastiche svizzere di trovare
soluzioni migliori senza stravolgere l’obbligo generale, nell'interesse dei
bambini e della società: tutti devono frequentare la scuola pubblica, tutti
devono poter accedere al mondo delle conoscenze e tutti devono essere valutati
secondo le prestazioni fornite. Anche nella consapevolezza che quanto avvenuto
si sarebbe potuto svolgere in altri modi, è difficile ritenere che la «classi
speciali» per allievi stranieri fossero del tutto evitabili e ciononostante si
potessero ottenere gli stessi o addirittura migliori risultati.
Si poteva fare
meglio?
Certamente. Gli errori
nell'impostazione, nella gestione e nel controllo di queste misure concepite
«eccezionalmente» e per un tempo limitato sono infatti innegabili. E’ certamente
mancata un’adeguata informazione. Benché le «classi speciali» per stranieri non
fossero «scuole speciali» e avessero una durata limitata (di norma uno-due
anni) e una finalità precisa, quella d’integrare meglio i bambini nelle classi
normali, si è lasciato che molti genitori interessati interpretassero quella
soluzione temporanea come una sorta di verdetto definitivo. Raramente, nelle
discussioni pubbliche tra italiani, si spiegava in maniera chiara la natura e
lo scopo di queste classi, mai si esponevano in modo convincente i vantaggi
della loro frequenza.
Negli ambienti
italiani si preferiva sovente la critica, talvolta spietata, del sistema
scolastico svizzero ritenendolo troppo selettivo e discriminatorio, piuttosto
che cercare di spiegarlo, analizzando i fatti e cercando eventualmente
soluzioni alternative. Alcune associazioni con ampio seguito tra gli immigrati
erano talmente orientate alla politicizzazione del tema da trascurare la loro
responsabilità di sostenere e incoraggiare una maggiore partecipazione delle
istituzioni e delle stesse associazioni alla gestione e al controllo delle
classi speciali e in genere del sistema scolastico svizzero.
Con una maggiore
partecipazione delle istituzioni e delle associazioni, fra l’altro auspicata
dalle autorità scolastiche svizzere, è assai probabile che molte incomprensioni
e molti pregiudizi sarebbero svaniti e, ciò che è più importante, molti più
giovani italiani avrebbero incontrato nella scuola, nell'apprendistato e nella
vita professionale meno difficoltà e maggior successo, facilitando la loro
integrazione scolastica, professionale e sociale. (Fine)
Giovanni Longu
Berna, 1° dicembre 2021