07 dicembre 2022

Immigrazione italiana 1946-2000: 24. Considerazioni finali: 2. La Svizzera principale beneficiaria

La Svizzera è sicuramente il principale beneficiario dell’immigrazione italiana del secondo dopoguerra. Infatti, è soprattutto grazie a questa (che rappresentava la grande maggioranza di tutti gli immigrati stranieri) che ha risolto numerosi problemi di natura non solo economica, ma anche demografica, formativa, sociale. Con l’arrivo in massa di milioni di lavoratori italiani e loro famigliari (anche se molti rientravano definitivamente dopo qualche stagione o anno) ha incrementato nella seconda metà del secolo scorso tutte le attività produttive e la diffusione in ogni angolo del Paese della prosperità, ha garantito l’approvvigionamento energetico, ha intensificato il sistema dei trasporti e delle comunicazioni, ha sviluppato il patrimonio urbanistico ed edilizio, ha migliorato l’equilibrio demografico superando il problema della bassa natalità autoctona, ha rafforzato la coesione nazionale valorizzando l’italianità e ha creato le basi per un ulteriore sviluppo economico, sociale, culturale della Svizzera.

Immigrazione necessaria e concordata

Nel dopoguerra l’economia svizzera aveva un grande bisogno di manodopera supplementare che non riusciva a soddisfare né sul mercato del lavoro interno né in quello dei Paesi da cui questa proveniva tradizionalmente prima della guerra (Germania, Austria e Francia). Solo l’Italia si dichiarò disponibile a fornirla e la Svizzera ne fece subito richiesta, dapprima senza tante formalità, poi, dal 1948, in base a un accordo formale chiesto dall'Italia, che restò in vigore fino al 1964, quando venne sostituito con un altro.

La lunga durata di questi accordi lasciano facilmente intendere che la convenienza a tenerli in vigore corrispondeva agli interessi sia della Svizzera che dell’Italia, ma anche degli stessi immigrati che continuavano ad alimentare i flussi. Pertanto, accusare la Svizzera di sfruttamento disumano della manodopera straniera o ridurre la migrazione a uno scontro tra imperialismo capitalistico e proletariato da sfruttare (come capita di leggere in qualche pagina dedicata al tema) è paradossale e indice di scarsa conoscenza non solo degli accordi bilaterali tra la Svizzera e l’Italia, ma anche degli organi di vigilanza (commissioni miste). Significa soprattutto far torto all'intelligenza e alla dignità dei principali protagonisti, gli immigrati.

Al riguardo giova ricordare che quando, prima ancora che finisse la guerra, l’Ufficio federale dell’industria, delle arti e mestieri e del lavoro chiese al Consiglio federale (governo) l’autorizzazione per reclutare in Italia, tramite la Legazione (allora non ancora ambasciata), lavoratori per l’economia svizzera, a tempo determinato o indeterminato, una delle condizioni vincolanti fu che gli stranieri venissero assunti alle stesse condizioni salariali e lavorative degli svizzeri. A queste condizioni fu possibile avviare i flussi immigratori dall'Italia (mai interrotti fino ad oggi, pur variando d’intensità), dapprima con accordi verbali, poi con accordi formali e organismi di controllo.

Fu tenendo conto di queste premesse che il 22 giugno 1948 si giunse alla firma, a Roma, di un vero e proprio accordo di emigrazione/immigrazione tra i due Paesi. Nel rileggerlo, oggi, insieme ai resoconti del relativo negoziato, si intuisce facilmente che la Svizzera si trovava allora in una posizione di forza rispetto all'Italia, perché era in grado non solo di assumere la manodopera estera di cui abbisognava, ma anche di fissarne le condizioni. Una, indicata esplicitamente dal Consiglio federale ai negoziatori, stabiliva che i governi interessati garantissero la disponibilità a riaccogliere i propri connazionali qualora non fossero stati più necessari alla Svizzera. Doveva cioè essere chiaro che gli emigranti erano funzionali in numero e qualità alle esigenze dell’economia e fintanto che l’economia ne avesse bisogno.

Collaborazione, non «resa»

I negoziatori italiani, non si sa con quanta convinzione, firmando l’accordo ne accettarono le condizioni, ma per l’Italia non si trattava di una sorta di atto di resa (come sembra invece ritenere un noto «storico delle migrazioni») ma di una nuova forma di collaborazione che avrebbe potuto intensificarsi anche in altri campi oltre la migrazione. In effetti il governo italiano, allora a guida democristiana, contava di migliorare subito gli scambi commerciali con la Confederazione, di riuscire a «trovare alla nostra sovrappopolazione quegli sbocchi che avrebbero permesso […] di poter ristabilire un certo equilibrio» (come auspicavano anche i partiti dell’opposizione) e persino di poter «riequilibrare la bilancia dei pagamenti con le rimesse degli emigrati». Oltretutto il partner dell’accordo sembrava solido e affidabile.

La diga Grande Dixence, una delle più grandi del mondo.
In breve, al governo italiano quell'accordo sembrava l’espressione di una comune volontà di due Stati amici di collaborare alla soluzione dei rispettivi problemi, non solo economici, ma anche sociali e politici. Se l’Italia sperava di riuscire ad alleggerire con l’emigrazione «il fardello della disoccupazione, generatore di tensioni sociali» e allo stesso tempo «di esorcizzare lo spettro dell’ascensione al potere del partito comunista», allora all'opposizione, anche la Svizzera vedeva in quell'accordo una forma di collaborazione che garantiva alla sua economia di poter contare a lungo sulla qualità dei lavoratori italiani (già sperimentata nella realizzazione della fitta rete ferroviaria a cavallo tra Ottocento e Novecento) e di poter reperire sul mercato del lavoro italiano la manodopera di cui avrebbe potuto aver bisogno.

Inoltre, la Svizzera, che risultava la maggiore beneficiaria dell’accordo, sentiva anche una sorta di obbligo morale di aiutare l'Italia «per non correre il rischio che il comunismo prenda piede sulla nostra lunga frontiera meridionale». Di fatto la stampa italiana dell’epoca appariva a maggioranza molto soddisfatta delle buone relazioni che l’Italia era riuscita a stabilire con la Svizzera. Del resto il potere di attrazione che l’economia svizzera esercitava sui lavoratori italiani era sotto gli occhi di tutti. Il flusso di emigrati era continuo, perché non tutti fuggivano dalla disoccupazione, ma tutti erano attratti dalla prospettiva di un’occupazione stabile e ben retribuita, anche a costo di alimentare forme di emigrazione/immigrazione irregolari.

A questo punto, accusare la Svizzera di sfruttamento disumano della manodopera straniera o ridurre la migrazione a uno scontro tra imperialismo capitalistico e proletariato da sfruttare, è paradossale e indice di non conoscenza degli accordi bilaterali formali e informali tra la Svizzera e l’Italia. Questo non vuol dire che l’applicazione degli accordi non pose anche problemi seri, ma si trattava sempre di casi risolvibili dalle istanze previste dagli accordi. Altri problemi, di natura politica o di diritti umani, non rientravano nella competenza dei negoziatori, per cui andrebbero visti in un’ottica diversa.

Risultati soddisfacenti

In base agli accordi sull'emigrazione/immigrazione i risultati positivi furono quasi immediati, come attestano le statistiche ma anche le numerose testimonianze della stampa dell’epoca e i documenti ufficiali. In pochi anni vennero creati in Svizzera 300.000 nuovi posti di lavoro in gran parte occupati da immigrati italiani. Gli italiani residenti stabilmente soprattutto nelle grandi agglomerazioni urbane passarono da poco più di 95.000 (1946) a 140.000 (1950) con una tendenza all'aumento. La stampa italiana dell’epoca attestava una generale soddisfazione delle condizioni di vita degli italiani, tanto è vero che molti decidevano persino di restare e non esitavano a prendere moglie o marito di nazionalità svizzera. In effetti i matrimoni misti passarono da poco più di 1000 (1946) a oltre 2000 (1950) l’anno.

Col tempo, però, soprattutto con l’immigrazione di massa degli anni Sessanta, i problemi di una difficile convivenza si fecero sentire sempre di più e il governo svizzero, anche a causa del federalismo, difficilmente riusciva a trovare soluzioni soddisfacenti. Due concezioni finirono per polarizzarsi proprio negli anni Sessanta e Settanta, una che auspicava una soluzione drastica imponendo limiti cogenti all'immigrazione, sostenuta dai movimenti anti stranieri e l’altra che invocava anch'essa un maggior controllo dell’immigrazione ma al contempo una maggiore stabilizzazione e integrazione della manodopera residente e disposta ad integrarsi. Negli articoli precedenti si è visto chiaramente che la seconda opzione ha finito per imporsi e oggi la situazione appare alquanto tranquilla e positiva.

Bilancio positivo

Volendo tirare una specie di bilancio, credo che sia sotto molti aspetti positivo, anche se la storia dell’immigrazione italiana in Svizzera ha avuto pure momenti dolorosi. In ogni caso dovrebbe apparire evidente che il contributo degli italiani allo sviluppo della Svizzera nella seconda metà del secolo scorso è stato determinante. Negarlo significherebbe dar prova di totale ignoranza di come le grandi opere infrastrutturali e sovrastrutturali siano state realizzate in quel periodo. Nella costruzione di tutte le grandi dighe e centrali idroelettriche come pure delle strade e autostrade svizzere, nella realizzazione di grandi complessi industriali, commerciali e residenziali, nella sistemazione di ampie zone urbanistiche del secolo scorso gli italiani hanno versato la maggiore quantità di sudore e sangue. Giustamente il giornalista basilese Alfred Peter poteva scrivere nel 1962 in una serie di articoli che senza gli italiani non c’era benessere (Ohne Italiener kein Wohlstand).

Allo stesso tempo, e per conseguenza, si deve ammettere che il principale beneficiario degli accordi di emigrazione/immigrazione tra la Svizzera e l’Italia sia stata la prima, anche se, come si vedrà nel prossimo articolo, pure la seconda ha tratto enormi benefici.

Giovanni Longu
Berna, 7.12.2022