Chi ha vissuto anche
solo una parte degli anni Settanta ricorderà sicuramente il grande fermento che
animava l’immigrazione italiana in Svizzera. Poiché dagli anni della crisi
della metà del decennio i nuovi arrivi dall'Italia erano inferiori alle partenze,
i protagonisti principali del cambiamento erano gli immigrati della prima
generazione che avevano deciso di restare, pur con grandi timori ma con molte
speranze (cfr. articolo precedente). Si trattava infatti di superare non poche
difficoltà e di riorientare l’esperienza migratoria verso l’integrazione per sé
e soprattutto per la seconda generazione. Quel periodo della storia
dell’immigrazione italiana in Svizzera merita di essere rievocato con dati e
fatti che ne attestino l’importanza decisiva per il resto del suo sviluppo per
molti versi interessante e avvincente.
I protagonisti del cambiamento
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L’ambiente
del primi anni Settanta fu ben evidenziato dal famoso film di Nino Manfredi
«Pane e cioccolata» (1974) |
La svolta avviata
dall'immigrazione italiana in Svizzera negli anni Settanta e proseguita nel
decennio successivo ha avuto molti protagonisti, di cui si è trattato negli
articoli precedenti (ambienti politici, autorità svizzere e italiane,
sindacati, Chiese, associazioni, ecc.), ma soprattutto loro, gli immigrati
(prima generazione), grandi lavoratori e fiduciosi in un futuro migliore.
Una prima
considerazione riguarda la loro scelta coraggiosa di restare in Svizzera,
specialmente nella prima metà degli anni Settanta: di fronte alla tentazione di
porre fine definitivamente all'esperienza migratoria, spesso con un po’ di
disgusto, e rientrare al proprio paese come fecero diverse migliaia di
italiani, essi decisero di rimanere, nonostante il clima sociale poco
favorevole nei loro confronti e le enormi difficoltà che sapevano di dover
affrontare. Si è trattato di una scelta molto coraggiosa, ma motivata da una
grande speranza.
Bisogna anche
aggiungere che in quegli anni le autorità italiane e le grandi associazioni di
immigrati, molto attive e presenti nei decenni precedenti, non offrivano loro il
sostegno sperato per impreparazione, impotenza e persino qualche pregiudizio
nei confronti del sistema politico, economico, sindacale, sociale, scolastico…
svizzero. Quanto era facile la critica del «sistema svizzero», tanto era
difficile formulare proposte che non fossero ideologiche, irrealizzabili e
spesso percepite dagli svizzeri come «pericolose».
Gli immigrati che
avevano deciso di restare dovevano contare soprattutto sulle proprie forze, ma
dovevano anche cercare di essere proattivi e cercare ad ogni costo il dialogo e
la comprensione reciproca. Le forze trainanti restavano comunque la speranza di
un rasserenamento del clima generale e di una ripresa economica, la coesione e
il bene della famiglia, la capacità di adattamento dei loro figli al sistema
scolastico e professionale svizzero, la disponibilità all’integrazione.
Un atteggiamento
proattivo e positivo
Ben sapendo che i
problemi non si risolvono scaricando le responsabilità sugli altri, quegli
immigrati finirono per convincersi che anch’essi dovevano contribuire
maggiormente a trovare soluzioni adeguate ai loro problemi, impegnandosi per
esempio a migliorare la propria cultura (e molti conseguirono in quegli anni il
diploma di terza media, di cui era privo il 70/80%), imparare la lingua del
posto, per raggiungere almeno un livello sufficiente di comunicazione con gli
svizzeri, migliorare le proprie competenze professionali.
A quest’ultimo
riguardo merita di essere ricordato che nel ventennio in esame non c’era
probabilmente in Svizzera alcun italiano immigrato che non sapesse che esisteva
in molti centri un’ampia offerta di corsi professionali in grado di assicurare
una certa tranquillità occupazionale a chi li avesse frequentati assiduamente
fino alla fine. A conoscenza dei cambiamenti in atto soprattutto nel settore
industriale (dov’era occupata la maggior parte dei lavoratori italiani) molti
ne approfittarono e non ebbero mai a pentirsi degli sforzi fatti. Questa loro
tranquillità consentiva loro, fra l’altro, di ispirare fiducia all’intera
famiglia e soprattutto ai figli, per i quali non potevano augurare altro che un
futuro sicuro e migliore di quello che avevano dovuto affrontare loro quando
decisero, pieni di speranza, di emigrare in Svizzera.
Le difficoltà da
superare
Per rendersi conto
delle difficoltà incontrate dalla prima generazione rimasta in questo Paese
dopo gli scossoni degli anni Settanta bisognerebbe anche ricordarne che la
xenofobia non era scomparsa. Sebbene gli ambienti xenofobi perdessero consensi
nell'opinione pubblica ad ogni votazione, per gli immigrati italiani il clima
sociale rimaneva teso e richiedeva grandi sforzi di adattamento e un
atteggiamento proattivo per tentare di rompere l’isolamento e cercare il
contatto con gli svizzeri sul posto di lavoro e nella vita quotidiana. Alla maggior
parte dei lavoratori italiani non bastava risultare ineccepibili sul lavoro, ma
aspiravano, giustamente, a una migliore convivenza con più dialogo, conoscenza
reciproca, solidarietà.
Una delle maggiori preoccupazioni
vissute dalle famiglie degli immigrati italiani negli anni Settanta e Ottanta
era l’incertezza del futuro. Anche se man mano che passavano gli anni il
sentimento della precarietà diminuiva, l’incertezza non scompariva mai. Essa
era legata non tanto al tipo di permesso di soggiorno che si possedeva, quanto
piuttosto all'evoluzione dell’economia e del lavoro. Si sapeva che si andava
verso attività più esigenti e che in molte aziende s’introducevano nuove
tecnologie produttive per cui erano in corso processi di trasformazione e razionalizzazione,
che richiedevano meno personale non qualificato.
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Allievi
meccanici del CISAP (1970) |
Questa situazione preoccupava
molti lavoratori italiani venuti in Svizzera negli anni Sessanta, ma senza
un’adeguata qualifica professionale, come del resto gran parte degli immigrati
di quel decennio. Il rischio di perdere il lavoro e di cadere nella
disoccupazione era angosciante, anche perché negli anni Settanta non c’era
ancora l’obbligo assicurativo contro la disoccupazione. Molti immigrati,
tuttavia, approfittando dei numerosi corsi professionali che venivano offerti in
molte città svizzere, riuscirono sia pure a costo di grandi sacrifici a
garantirsi per sé e per l’intera famiglia un futuro più tranquillo.
Un’altra esigenza che
nasceva dal basso in seno alla collettività italiana era la valorizzazione
delle donne, che probabilmente portavano il peso più grande dell’isolamento,
dell’impreparazione scolastica e professionale, del doppio lavoro, della
responsabilità nell'educazione dei figli. Numerose iniziative sorsero per loro
e tra loro negli anni Settanta e Ottanta, ma raramente riuscivano nel breve
periodo a migliorare sensibilmente la situazione. Fu tuttavia in quegli anni
che venne avviato il processo di costante avvicinamento delle donne italiane ai
connazionali maschi soprattutto nel campo dell’istruzione, della formazione
professionale, del lavoro qualificato, della gestione familiare, del tempo
libero, ecc.
La seconda
generazione
La seconda
generazione, cioè i figli nati in Svizzera o venuti dall'Italia in età
prescolastica, hanno costituito certamente la più grande preoccupazione dei
loro genitori, la prima generazione. Chi non ha dovuto affrontare da vicino problemi
di questo tipo difficilmente può capire le ansie e le inquietudini dei genitori
riguardo al futuro scolastico, professionale e sociale dei loro figli in un
Paese oggettivamente difficile come questo. Allora «andare a scuola» non era
semplice com’è ora. Per i figli degli immigrati le difficoltà erano maggiori
perché cominciavano prima.
Trattandosi di un tema
vitale per la storia che viene raccontata in questi articoli, si rimanda al
prossimo un’analisi più approfondita dei problemi che ha posto la seconda
generazione non solo alle famiglie, ma anche alle istituzioni. Qui basta osservare l’entità
della seconda generazione nel suo complesso (ossia, alla fine del 1970, ben
151.625 piccoli italiani in età da 0 a 15 anni e 114.171 bambini della stessa
età alla fine del 1980, nonostante il saldo migratorio negativo degli italiani
in quel periodo) per rendersi conto che gli immigrati degli anni Settanta e
Ottanta hanno dovuto affrontare, senza alcuna preparazione specifica, un
compito enorme, quello di garantire che i loro figli non seguissero nella
maniera più assoluta le loro esperienze di emigrati e che, se mai avessero
deciso di restare per sempre in Svizzera, potessero avere una vita meno
sacrificata e più dignitosa al pari dei coetanei svizzeri.
In conclusione
Osservando
necessariamente in rapida sintesi questo lungo percorso di molti immigrati italiani
si resta certo come annichiliti di fronte alle sofferenze fisiche e morali che
hanno dovuto subire nel periodo in esame (pur sapendo che i risultati migliori li
coglieranno nel periodo successivo), ma si resta anche positivamente sorpresi
con quanta forza d’animo hanno affrontato le difficoltà, le paure, il senso di
abbandono da parte delle istituzioni e al tempo stesso hanno saputo avvicinarsi
con rispetto ma senza soggezione al mondo non sempre ospitale e amico degli
svizzeri, hanno fatto sforzi non indifferenti per migliorare i contatti e le
proprie capacità professionali, si sono comportati molto normalmente nella vita
quotidiana facendosi apprezzare, pur con tante eccezioni, per il loro carattere
positivo, l’attaccamento alla famiglia, l’allegria, la cucina, la musica, il
modo di vestire, lo stile di vita, ecc.
E’ possibile
dimenticare quegli anni, quelle donne e quegli uomini coraggiosi, che
sfruttando le circostanze e con l’aiuto di altri protagonisti hanno avviato un
processo che porterà alla trasformazione di quel mondo per molti versi
criticato e odiato in un mondo non solo di pacifica convivenza ma anche di
intensa condivisione e collaborazione?
Giovanni Longu
Berna 3.11.2021