I risultati dell’indagine PISA 2018 non lasciano
dubbi sulle insufficienti prestazioni degli allievi italiani rispetto alla
media dei Paesi dell’OCSE. Alcuni commenti al precedente articolo su questo
tema del 2.1.2020 hanno messo in relazione la perdita di competenza linguistica
dei giovani quindicenni italiani con l’insufficiente preparazione di molti
insegnanti, altri col disimpegno del governo nel settore della formazione,
altri ancora con l’impoverimento della lingua italiana usata nei media, con la
progressiva perdita di autorevolezza dei genitori nei confronti dei figli, con
la carenza di prospettive occupazionali per i giovani soprattutto al sud, ecc.
Non è facile attribuire responsabilità precise quando si tratta di problemi
complessi, ma individuarne alcune è certamente utile alla ricerca dei rimedi.
In questo senso ho accennato in quell’articolo al sistema formativo svizzero.
Alcuni dati di partenza
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I risultati dell’indagine OCSE-PISA rappresentano
un buon indicatore del malessere della scuola italiana, intesa nel suo
complesso, ma non è sufficiente per trarre conclusioni generalizzanti. Il
sistema scolastico italiano è molto complesso e vario, come dimostra anche la
diversità dei risultati PISA tra il nord e il sud dell’Italia. Non tenerne
conto sarebbe tuttavia un grave errore perché i test sono stati condotti su
campioni rappresentativi e comparabili a livello internazionale.
Anche la critica riguardante la presunta
impreparazione di molti insegnanti va presa seriamente in considerazione, anche
se non basta certamente a spiegare il basso livello linguistico degli
adolescenti italiani perché ci sono moltissimi insegnanti preparati e
aggiornati. Deve però far riflettere il fatto che il corpo insegnante italiano
è il più anziano dell’Unione europea e che in Italia solo da pochi anni (dal
2015) esiste per i docenti di ruolo degli istituti pubblici l’obbligo legale di
formazione e aggiornamento professionale.
Persino la scarsezza degli investimenti pubblici,
da soli, non bastano a spiegare la fragilità del sistema formativo italiano, ma
è certamente un indicatore significativo della scarsa attenzione dei poteri
pubblici ai problemi della scuola. Da troppi anni l’Italia destina
all’istruzione e alla ricerca risorse insufficienti, tanto da indurre il
ministro competente Lorenzo Fioramonti a lasciare il governo. La sua principale motivazione è stata: «ho accettato il mio incarico con l’unico fine
di invertire in modo radicale la tendenza che da decenni mette la scuola, la
formazione superiore e la ricerca italiana in condizioni di forte sofferenza».
Anche la tendenza
a un generale impoverimento della lingua italiana, facilmente riscontrabile nei
media e specialmente nei social, rappresenta per i giovani studenti un forte
rischio di perdita di competenza comunicativa e interpretativa, ma anch’essa
non spiega interamente la povertà della lingua italiana adoperata dai giovani.
Una buona scuola potrebbe infatti contrastare questa tendenza. Tutti, studenti,
insegnanti, genitori, parti sociali, regioni e soprattutto governo e
parlamento, dovrebbero sentire la responsabilità di cercare i rimedi giusti e
di dare finalmente agli italiani la «buona scuola» che meritano.
Anzitutto valorizzare la scuola
La scuola è stata sempre considerata, nella nostra
epoca, più un dovere che un piacere. Il primo rimedio alla disaffezione di
tanti bambini e giovani allo studio dovrebbe essere una maggiore valorizzazione
della scuola. Se prima, fino a pochi secoli fa, il poter studiare era un
privilegio di pochi, oggi questa possibilità ce l’hanno tutti e tutti
dovrebbero sentirsi dei privilegiati. Invece non è così perché gli allievi e
forse anche molti insegnanti (anch’essi da valorizzare maggiormente perché
componente essenziale di una buona scuola) non sanno apprezzare il valore della
scuola e dello studio.
Una certa retorica ha forse insistito troppo sulla
bellezza della lingua italiana, sulla grande eredità dantesca e manzoniana,
sulla possibilità di accedere al favoloso mondo dell’arte e del sapere, sulla scuola
«tempio del sapere», dimenticando che la lingua, la scuola, il sapere per
essere apprezzati devono essere «utili». Solo se utilizzati (bene) hanno
valore. Molti giovani non sanno apprezzare e valorizzare la scuola e la
conoscenza perché non ne vedono l’utilità, perché al termine del percorso
formativo si trovano «disoccupati», senza uno sbocco professionale adeguato.
Formazione e
occupazione
Il concetto di «utilità» in questo contesto non va
banalizzato né ridotto a «bene mercantile», perché rappresenta anzi un elemento
chiave nella ricerca di soluzioni incisive ai mali della scuola, soprattutto
quando lo Stato è chiamato a immettere nella formazione e nella ricerca più
risorse.
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La formazione è la via maestra per l'acquisizione delle competenze sul lavoro. |
Leggendo le motivazioni delle dimissioni dell’ex
ministro Fioramonti che aveva chiesto al governo «più coraggio» e non l’ha
avuto, mi è venuto in mente don Abbondio di manzoniana memoria quando affermava
per consolarsi che «il coraggio,
uno, se non ce l’ha, mica se lo può dare». Poi mi sono chiesto, ma questo
governo, i miliardi per la formazione e la ricerca li ha cercati davvero? Mi
rimane il dubbio, ma trovo ancor più preoccupante quanto ho letto (in Internet)
in un documento della Commissione europea: «Secondo le previsioni del
governo, la quota del PIL [prodotto interno lordo] destinata
all'istruzione dovrebbe diminuire nei prossimi 15 anni. Il ministero
dell'Economia e delle finanze (MEF) stima che la quota di PIL spesa per
l'istruzione scenderà dal 3,5 % nel 2019 al 3,1 % nel 2035, riflettendo il calo
demografico (MEF, 2019)».
Si può capire che l’Italia, un Paese che non cresce
economicamente da molti anni, non abbia sufficienti risorse per tutto; ma trovo
sconcertante che il governo e la maggioranza del parlamento non si rendano
conto che la situazione non potrà che peggiorare se non si invertirà «in
modo radicale la tendenza» di cui parlava Fioramonti. Le risorse si possono
trovare, dunque bisogna trovarle. L’Italia, che già investe da anni meno degli
altri Paesi europei competitori, deve recuperare posizioni nei confronti della
Germania, della Francia, della Svizzera, del Regno Unito, che investono quote
di PIL superiori, se non vorrà continuare a restare in fondo alla scala.
Infatti non ci potrà essere più crescita senza una maggiore occupazione (con
adeguati incentivi) e una migliore formazione orientata all’occupazione, ossia
«utile».
Qualcuno potrebbe obiettare che l’Italia vanta
numerosi centri di eccellenza in campo universitario e della ricerca, per cui
la situazione non è poi così disastrosa come certuni ipercritici la dipingono.
E’ vero, non bisogna fare del catastrofismo, ma le critiche sono orientate a
far migliorare la situazione perché tutti i Paesi menzionati sopra investono
più dell’Italia nella formazione e nella ricerca e presentano indicatori
occupazionali più positivi, con tassi di disoccupazione oscillanti fra il 2,3%
della Svizzera e il 6,8% della Francia (Italia 10,2%) e una disoccupazione
giovanile notevolmente inferiore a quella italiana.
L’esempio svizzero
Sono convinto che il sistema formativo italiano
invertirà radicalmente la tendenza negativa denunciata da Fioramonti non solo
quando troverà gli investimenti necessari, ma anche quando sarà maggiormente
orientato in senso economico. Non si tratta di rinunciare alle tradizionali
finalità umanistico-culturali della scuola ma di aggiungere all’insegnamento la
qualità di essere «utile» e, immediatamente o nell’arco di breve tempo,
«utilizzabile». Non è un buona scuola quella che crea disoccupati o emigrati
per l’assenza nella regione di sbocchi professionali corrispondenti alla
formazione acquisita.
In questo senso, nel
precedente articolo, ritenevo che il sistema svizzero potrebbe essere studiato
e preso in considerazione. Se in Svizzera la disoccupazione giovanile è bassa e
di breve durata non lo si deve solo allo sviluppo dell’economia, ma anche al
tipo di formazione ricevuta e al coinvolgimento di tutte le parti interessate.
Anche in questo Paese sono considerati elementi fondamentali lo sviluppo della
personalità, le competenze sociali, la cultura generale, ecc., ma non
rappresentano l’obiettivo della formazione. Questo è dato fondamentalmente
dalla professione che si vuole esercitare, quella di medico, avvocato,
insegnante, o meccanico, programmatore, impiantista, giusto per fare qualche
esempio. La scelta non avviene solo in base alle aspirazioni personali, ma
anche tenendo conto delle reali possibilità d’impiego al termine della
formazione.
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Formazione e professione, un binomio inscindibile. |
Qui non c’è
competizione tra liceali e apprendisti, perché entrambe le categorie sanno che
alla fine del percorso potranno esercitare la professione scelta, quella, in
generale, che offre maggiori opportunità nella regione in cui avviene la
formazione. Per questa ragione ci sono Cantoni fortemente industrializzati in
cui prevalgono gli apprendisti di professioni richieste dall’industria, Cantoni
prevalentemente agricoli in cui gli apprendistati sono orientati soprattutto
alle attività del settore primario e alla trasformazione dei prodotti agricoli
e Cantoni urbani in cui prevalgono gli studenti perché è più facile trovare un
impiego nelle banche, nelle assicurazioni, nell’insegnamento, nella ricerca.
Ribadisco anche che il
sistema formativo svizzero, pur essendo finalizzato ad assicurare gli sbocchi
professionali di cui hanno bisogno la società e l’economia svizzera, cerca
anche di valorizzare al massimo le capacità individuali. Nella filiera della
formazione professionale è possibile acquisire profili professionali
specifici e riconosciuti dopo una formazione di due, tre o quattro anni,
ottenere la maturità professionale e accedere alle scuole universitarie
professionali. Nella filiera della formazione umanistico-scientifica, il
percorso è più lineare ma generalmente più lungo. In Svizzera due terzi dei
giovani segue la filiera della formazione professionale, un terzo la filiera
che culmina con un titolo universitario.
Infine, non credo che
il sistema formativo svizzero sia esportabile, ma so che molti Paesi lo tengono
in considerazione. So anche che in Svizzera funziona discretamente bene sia
nella filiera professionale che in quella accademica. Non potrebbe funzionare,
con i dovuti adeguamenti, anche in Italia?
Giovanni LonguBerna, 15.01.2020