29 gennaio 2020

Immigrazione italiana 1970-1990: 2. La svolta dopo Schwarzenbach



La svolta nell’immigrazione italiana in Svizzera degli anni Settanta, per quanto possa apparire strano, fu dovuta anche a Schwarzenbach. Basti pensare che la volontà di cercare una qualche forma efficace di unità nella miriade di associazioni italiane costituitesi soprattutto negli anni Sessanta riuscì a concretizzarsi solo alla vigilia della famosa votazione del 7 giugno 1970. Fino ad allora ogni associazione cercava di ritagliarsi un proprio spazio per giustificare la propria esistenza e il contributo che riceveva dal proprio sostenitore di riferimento in Italia, oppure perché intendeva esercitare le attività unicamente in base alla propria vocazione e missione, come le Missioni cattoliche. Sul finire degli anni Sessanta, tuttavia, si avvertì da più parti la pericolosità dei movimenti xenofobi e il bisogno di opporvisi unendo le forze almeno tra le maggiori associazioni italiane.

Urgenza di unire le forze
Non fu facile arrivare nel 1970 alla costituzione del Comitato Nazionale d’Intesa (CNI). Per capirne le difficoltà occorre anzitutto ricordare quanto sia stato determinante l’influsso dei partiti politici italiani sull’organizzazione degli immigrati in Svizzera (cfr. https://disappuntidigiovannilongu.blogspot.com/2019_02_10_archive.html).
I primi a capire l’importanza dell’associazionismo tra gli emigrati italiani in Svizzera erano stati i fuorusciti antifascisti che fondarono le prime Colonie Libere Italiane (CLI) e, nel 1943, la Federazione delle Colonie Libere Italiane (FCLI). Finita la guerra, è stato soprattutto il Partito comunista italiano (PCI) a reclutare in Svizzera soci e simpatizzanti tra gli immigrati. Il suo attivismo fu subito imitato dalla Democrazia cristiana (DC) e da altri partiti che finirono per provocare un’autentica proliferazione di associazioni. Nel 1970 si parlava della presenza in Svizzera di oltre 3000 associazioni italiane, sorte in gran parte nel decennio precedente.
Dopo Schwarzenbach la politica immigratoria svizzera iniziava a cambiare
Insieme, PCI e FCLI (di orientamento decisamente filocomunista) non costituivano una forza sufficiente per rappresentare «gli immigrati italiani», benché fossero sotto il profilo organizzativo le associazioni più efficienti e le più diffuse. Inoltre, le loro rivendicazioni «politiche» erano scarsamente efficaci perché pregiudicate sia dal marcato anticomunismo svizzero e sia dalla diffidenza delle autorità diplomatiche e consolari italiane, che non ammettevano di essere scavalcate da espressioni dell’opposizione governativa italiana.
Un altro elemento di debolezza dell’associazionismo italiano era dato proprio dalla sua frammentazione in parte legata alla sua origine, perché non solo il PCI e la FCLI avevano una matrice politica e partitica, ma anche molte altre associazioni. Tutti i partiti italiani e talvolta singole «correnti», infatti, ritenevano utile costituire all’estero a fini elettorali associazioni «vicine», legandole a sé soprattutto con sovvenzioni, frequenti visite di personalità politiche o amministratori locali, inaugurando sedi, sostenendo manifestazioni e facendo tante promesse.
Quando, dopo l’accordo italo-svizzero sull’immigrazione del 1964, il governo italiano era diventato più attento alle problematiche emigratorie e il governo svizzero, su pressione dei movimenti xenofobi e delle parti sociali, si apprestava a rivedere radicalmente la sua politica immigratoria, le principali associazioni di immigrati italiani ritennero urgente e indispensabile che l’associazionismo potesse far sentire in forma unitaria la voce degli immigrati italiani su tutti i maggiori problemi che li riguardavano.
Il percorso fu relativamente rapido perché le forze trainanti, la FCLI e le ACLI (Associazioni Cristiane Lavoratori Italiani), erano già molto attive per conto loro, Durante il 1969 sensibilizzarono la collettività italiana immigrata promuovendo incontri, dibattiti, convegni, prese di posizione. Insieme, agli inizi del 1970, proposero la convocazione di un Convegno unitario di tutte le (principali) associazioni italiane per mettere a punto una strategia d’intervento comune e dar vita a un autorevole organismo centrale di riferimento in cui l’associazionismo potesse riconoscersi e con cui potesse intervenire sia verso le autorità italiane e sia verso le autorità svizzere. Per questo era indispensabile che almeno le principali associazioni e federazioni si dessero un coordinamento nazionale e possibilmente un organismo centrale rappresentativo e autorevole.

Importanza e limiti del CNI
Il «Primo convegno nazionale delle associazioni degli emigrati italiani in Svizzera» si tenne a Lucerna il 25 e 26 aprile 1970. Vi parteciparono oltre 400 delegati in rappresentanza delle principali associazioni di immigrati in Svizzera, che considerarono il Convegno come un evento decisivo per l’immigrazione italiana in Svizzera. Il suo principale risultato fu la creazione del Comitato nazionale d’intesa (CNI).
Disertarono il Convegno o non vennero invitate non solo tutte le associazioni di destra (neofasciste), ma anche alcune rappresentanze dell’associazionismo moderato di centro non appartenente all’area politica delle Colonie libere italiane, introducendo così in questo grande sforzo aggregativo un elemento di debolezza. Le ripercussioni si noteranno soprattutto sulla composizione del CNI (in cui dominerà l’area socialista-comunista) e in seguito sulla scarsa efficacia della sua azione verso le autorità sia svizzere che italiane.
Rivendicazioni di immigrati negli anni '70.
Nell’intenzione degli organizzatori, l’incontro non doveva essere una specie di «muro del pianto» degli emigrati, come accadeva solitamente in incontri minori del genere, ma un punto di partenza «per superare la condizione di vittime ed essere protagonisti del nostro destino». Di fatto, anche in questo incontro prevalsero soprattutto le denunce: contro la concezione che vedeva «l’emigrante come merce» e la massa dei lavoratori «come strumento di manovra, volano regolatore delle congiunture, gente priva di ogni diritto civile perché così era più facile cacciarla via o farla arrivare secondo gli interessi dell’economia», «contro l’integrazione selettiva ed autoritaria che mira a spaccare i lavoratori stranieri fra primi della classe, a discrezione svizzera, e paria» ecc.
Si trattava di contestazioni e rivendicazioni destinate a non incontrare il favore degli svizzeri, ma nemmeno delle autorità italiane perché ritenute in parte infondate e in parte irrealizzabili. La composizione del CNI lasciava inoltre insoluto il conflitto non solo ideologico ma anche pratico che opponeva spesso le CLI e le Missioni cattoliche.
Il CNI avrà invece maggiore successo all’interno dell’associazionismo perché ispirò organizzazioni analoghe a livello di circoscrizioni consolari (Comitati cantonali d’intesa) e di agglomerazioni urbane (ad es. Comitato cittadino d’intesa di Berna e regione, ecc.), che riuscivano a rappresentare a livello locale tutte le associazioni operanti sul territorio per quanto eterogenee (partiti, sindacati, associazioni di genitori, centri di formazione, associazioni sportive, ecc.).
Il CNI sarà il principale interlocutore delle autorità diplomatiche in Svizzera, come i Comitati d’intesa cantonali e cittadini lo saranno per le rappresentanze consolari. Nei confronti delle autorità svizzere non ebbero invece praticamente alcuna influenza, come risulterà fin dal decreto del 21 aprile 1971 riguardante la politica di contenimento dell’immigrazione. Contribuiranno comunque ad avviare tra gli immigrati italiani il lungo percorso dell’integrazione.

Verso una nuova politica immigratoria svizzera
L’iniziativa antistranieri di Schwarzenbach ha provocato una presa di coscienza forte nel campo dell’immigrazione italiana, ma non è stata da meno anche nella politica immigratoria federale. Di fatto dal 1970 essa ha cambiato decisamente orientamento, abbandonando la pratica della continua «rotazione» della manodopera straniera e indirizzando l’azione di governo verso l’integrazione dei lavoratori impiegati stabilmente e delle loro famiglie.
All’origine di questo cambiamento, che verrà realizzato gradualmente, non c’è evidentemente solo la pressione esercitata in quel periodo dai movimenti xenofobi, ma tutta una serie di considerazioni di natura politica, economica, sociale e umanitaria che il Consiglio federale è andato facendo nella seconda metà degli anni Sessanta e dovrà continuare a fare seguendo gli impulsi provenienti dagli esperti, dalle parti sociali, dalle rappresentanze diplomatiche e consolari italiane e di altri Paesi, dalle chiese e anche dal mondo degli immigrati, sempre più presenti nel dibattito pubblico.
Un segnale delle buone intenzioni del governo è stata, nel luglio 1970, l’istituzione della Commissione federale consultiva per il problema degli stranieri (CFS) per consigliare il Consiglio federale su questioni legate alla presenza di cittadini stranieri in Svizzera nell’ambito sociale, economico, culturale, politico, giuridico, ecc. Una commissione consultiva di esperti e rappresentanti dell’amministrazione, delle parti sociali e delle associazioni degli stranieri, che avrebbe dovuto fornire lumi e suggerimenti praticabili anche in materia di integrazione. (Segue)
Giovanni Longu
Berna, 29.01.2020

27 gennaio 2020

27 gennaio: Giorno della Memoria


Sono sempre di meno coloro che hanno un ricordo vivo di ciò che avveniva poco più di 75 anni fa nei campi di concentramento e di sterminio nazisti, i famigerati Lager; molti sono invece coloro che hanno visitato i resti di quei luoghi e hanno sentito dalla viva voce dei sopravvissuti racconti toccanti delle atrocità che vi si consumavano; tutti abbiamo la possibilità di documentarci in vari modi sull’Olocausto.

L'ingresso del campo di sterminio di Auschwitz,  con la
famigerata scritta: Arbeit macht frei, il lavoro rende liberi.
E’ importante conoscere le nefandezze (dal latino nefandus, indicibile) che sono state compiute nei Lager da uomini empi, malvagi, a danno di innocenti. Solo conoscendole e provandone orrore è possibile sperare che non si verifichino più nella storia dell’umanità.
Io ho avuto l’opportunità di visitare, parecchi anni fa, il campo di concentramento di Dachau, vicino a Monaco di Baviera, e il campo di sterminio di Auschwitz, vicino a Cracovia in Polonia (dal 1979 Patrimonio dell'Umanità protetto dall'UNESCO). Li ho visitati entrambi in compagnia di un grande      studioso delle atrocità naziste, il gesuita  polacco Stanisław Musiał (1938-2004).
A Dachau mi disse che quel ch’era rimasto o ricostruito rassomigliava più a un «hotel» (ambiente asettico, pulito, silenzioso) che al Lager vero (sporco, puzzolente, in cui risuonavano i lamenti e le grida delle vittime di ogni sorta di angheria fino alla morte). I tedeschi ormai schiacciati dagli eserciti alleati, erano riusciti a distruggere gran parte delle prove materiali delle loro atrocità prima che giungessero i soldati anglo-americani e nella sistemazione successiva si doveva tener conto soprattutto dei visitatori.
Di Auschwitz, dove erano morti parenti e amici di famiglia, provava talmente orrore, che non volle accompagnarci (ero con mia moglie) nella visita, non se la sentiva. Anche da quel campo i tedeschi ormai prossimi alla disfatta riuscirono a distruggere gran parte delle installazioni che erano servite per eliminare oltre un milione di esseri umani.
Stanisław Musiał
Di Dachau, di Auschwitz e di altri Lager l’amico Stanislaw conosceva anche molti particolari poco noti. Me ne raccontò solo alcuni, perché ne parlava malvolentieri. Testimoni dei villaggi vicini alla «metropoli dello sterminio» (Auschwitz-Birkenau) gli avevano raccontato che il fumo dei forni crematori oscurava talvolta il cielo e la puzza della carne bruciata si sentiva a chilometri di distanza. Per eliminare le ceneri delle migliaia di cadaveri bruciati ogni giorno, i tedeschi avevano costruito un lago artificiale e coloro che riuscivano ad avvicinarvisi potevano osservare il livello dell’acqua che si alzava costantemente.
Stanislaw era convinto, contrariamente a quel che spesso si è detto e scritto, che molti sapevano fin dagli inizi dei crimini perpetrati nei Lager e riteneva che i responsabili degli orrori nazisti non fossero solo gli autori materiali, ma anche molte altre persone che sapevano, persino tra il clero tedesco e polacco, e non ebbero il coraggio di condannare apertamente l’antisemitismo e le malvagità del regime nazista, ma preferirono tacere.
Ricordare le atrocità dei Lager e tutte le atrocità che sono state compiute e ancora si compiono nel mondo vuol dire oggi parlare chiaro, condannare senza se e senza ma ogni forma di odio razziale, rispettare sempre l’uomo come fine e mai usarlo come mezzo, rifiutare la «cultura dello scarto». Vuol dire anche mettere in pratica l’articolo 1 della Dichiarazione universale dei diritti umani: «Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza».
Giovanni Longu, Berna 27 gennaio 2020