Per poter seguire il percorso dell’immigrazione italiana in
Svizzera nel ventennio 1970-90, è indispensabile osservare da vicino la
situazione iniziale, indicando alcune cifre significative, ma anche alcune
caratteristiche socio-professionali degli immigrati italiani. E’ altresì
importante sottolineare che dal 1970 sia la politica immigratoria svizzera e
sia la politica emigratoria italiana tendono a modificarsi radicalmente. Di
questi mutamenti, come si vedrà, gli immigrati sono raramente protagonisti, ma sul
lungo periodo – perché si tratterà di un processo lento – saranno anch’essi e
soprattutto i loro figli e nipoti a beneficiarne. Sarà tuttavia la Svizzera la
principale beneficiaria del ricchissimo contributo immigratorio.
Cifre e distinzioni fondamentali
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Nel 1972 il presidente della Confederazione Nello Celio (al centro) valutò molto positivamente l'immigrazione in Svizzera (foto Cisap) |
La legge sugli stranieri del 1931 aveva introdotto per il
soggiorno degli stranieri una serie di permessi, concepita da una parte per
impedire ad individui
«indesiderabili» (per qualsiasi ragione) di entrare e rimanere in Svizzera e
dall’altra per permettere alle autorità federali di esercitare un influsso
regolatore sul mercato del lavoro e di lottare contro il pericolo di
«inforestierimento», ostacolando in vari modi l’ottenimento del permesso di
domicilio, di durata illimitata (cfr. https://disappuntidigiovannilongu.blogspot.com/2017/04/italiani-in-svizzera-11-la-legge-sugli.html).
Nel 1970 gli italiani presenti buona parte dell’anno in
Svizzera erano complessivamente 711.153, dei quali 339.339 erano domiciliati,
244.516 residenti annuali, 101.555 stagionali e 25.743 frontalieri. Qualora
l’iniziativa Schwarzenbach fosse stata accolta, ben difficilmente avrebbe
potuto riguardare i domiciliati, perché protetti dal Trattato italo-svizzero
del 1868. I più minacciati sarebbero stati i residenti annuali e gli stagionali
vicini alla trasformazione del loro permesso di soggiorno da stagionale ad
annuale. Del resto, i domiciliati, equiparati agli svizzeri nel campo dei
diritti sociali (con l’esclusione quindi dei diritti politici) venivano
considerati «integrati» e quindi non costituivano una minaccia
d’inforestierimento.
Provenienza e «meridionalizzazione»
Un altro aspetto importante da tener presente nel periodo considerato
è la provenienza degli italiani, perché essa ha avuto un diverso impatto sulla
popolazione svizzera. I domiciliati, ritenuti generalmente «integrati», erano
facilmente accettati, perché si erano in certa misura assimilati. Quasi tutti
erano arrivati nel secondo dopoguerra dal Nord Italia.
Dall’inizio degli anni Sessanta, invece, la maggior parte
degli immigrati italiani proveniva dal Sud Italia e agli occhi di molti datori
di lavoro e dell’opinione pubblica erano «diversi» dai settentrionali. Per
esempio, avevano un più basso livello d’istruzione (molti erano addirittura analfabeti), conoscenze
linguistiche scarse, preparazione professionale specifica inesistente o
non adeguata ai parametri svizzeri, minore propensione all’integrazione.
La progressiva
«meridionalizzazione» dell’immigrazione italiana con quelle caratteristiche
creava non pochi problemi nella vita quotidiana degli svizzeri, allarmava i
sindacati (il tasso di sindacalizzazione dei meridionali era bassissimo, i
conflitti sul lavoro tendevano a crescere), preoccupava anche i governi
federale, cantonali e comunali perché sembrava rendere più difficili i contatti
e l’integrazione.
D’altra parte, la
paura dell’isolamento e della marginalizzazione spingeva i meridionali a
costituirsi in associazioni, famiglie, gruppi autonomi. Negli anni Sessanta e
Settanta si ebbe il boom dell’associazionismo italiano. Persino le Colonie
libere italiane, risalenti addirittura a prima della guerra, reclutavano ormai
gran parte dei loro membri tra i meridionali (nel 1971 la CLI di Zurigo, una
delle più numerose, era costituita per oltre il 70% da soci provenienti
dall’Italia meridionale e dalle isole). Non sempre tra settentrionali e
meridionali regnava l’armonia e la solidarietà. In generale le due componenti
preferivano ignorarsi reciprocamente.
Disagio tra la popolazione svizzera
Con la sconfitta
di Schwarzenbach, il disagio di molti svizzeri di fronte a una popolazione di
stranieri in forte crescita si attenuò appena, ma non scomparve. L’arrivo incessante
di stranieri (di italiani in particolare) preoccupava perché sembrava
inarrestabile. Nel 1970 erano già oltre un milione, su una popolazione totale
di poco superiore ai sei milioni di abitanti. Anche se allora non c’erano
disoccupati, nessuno credeva che l’alta congiuntura sarebbe continuata
all’infinito, che il benessere raggiunto fosse garantito per sempre, che
un’eventuale crisi avrebbe colpito solo gli stranieri e risparmiato gli
svizzeri.
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Permessi di soggiorno svizzeri |
Gli xenofobi
cavalcheranno a lungo queste preoccupazioni e ritenteranno più volte di
introdurre nella Costituzione articoli che obbligassero la Confederazione a
interrompere con drastiche misure il circolo vizioso, a costo, magari, di
ridimensionare certe aziende e di accontentarsi di un livello di benessere
inferiore.
A interpellare la coscienza di molti svizzeri c’era però
anche la domanda umanissima che serpeggiava qua e là nei discorsi pubblici: ma
come si fa a rinviare al proprio Paese decine di migliaia di persone che prima
sono state fatte venire, hanno lavorato versando sudore e talvolta anche
sangue, hanno contribuito al benessere della Svizzera e a un certo punto si
dice loro «non ci servite più»?
Si sa che in una popolazione fondamentalmente sana il buon
senso finisce sempre per imporsi e molti, dopo il 1970, si convinsero che anche
questo Paese avrebbe saputo conciliare tradizione e progresso, politica ed
economia, umanità e prosperità. In fondo sarebbe bastato poco: superare i
pregiudizi, cominciare a dialogare con l’altro, il diverso, lo straniero.
Uniti, rinunciando magari a qualcosa da entrambe le parti, si sarebbe potuto
andare avanti meglio di prima, in un mondo che esigeva aperture e non chiusure.
Le resistenze a considerare l’immigrazione un fattore di crescita della
Svizzera saranno tuttavia ancora tante.
Disagio degli italiani
Nonostante la bocciatura dell’iniziativa Schwarzenbach, nel
1970 il disagio degli immigrati italiani era palpabile. Mai si sarebbero
aspettati una così alta percentuale di svizzeri (il 46% dei votanti) favorevole
a una riduzione drastica del numero di stranieri, come se, invece di
considerarli contributori netti del benessere della Svizzera, li ritenessero un
peso per l’economia e per la socialità.
Il disagio degli emigrati contribuì ad accrescere il disagio
che provava sempre più anche il governo italiano, non solo per i frequenti
attacchi delle sinistre (cfr. articolo precedente), ma anche perché si rendeva
conto che la soluzione ai problemi sociali che spingevano all’emigrazione
andava cercata in Italia, soprattutto creando occupazione.
Ad un convegno organizzato a Milano nel 1971, Giovanni
Falchi, della Direzione generale dell'emigrazione e degli affari sociali
del Ministero degli esteri, disse: «Il fine ultimo della politica in questo
campo deve essere quello di annullare la necessità di emigrare, assicurando ad
ogni lavoratore la libertà di scegliere. Nell'attesa, però, occorre agire
perché le sofferenze e le frustrazioni, inevitabilmente connesse con l'emigrazione,
vengano alleviate».
Effettivamente, da allora, nei limiti del possibile, tutti i
governi italiani si attivarono per migliorare le condizioni di vita e di lavoro
degli emigrati italiani e facilitare l’inserimento scolastico e professionale
soprattutto della seconda generazione. Di fatto, dal 1970 il saldo migratorio
italiano (arrivi dall’Italia meno partenze dalla Svizzera) è risultato quasi
sempre negativo e le condizioni generali degli italiani sono migliorate
costantemente.
L’influsso europeo
In questo contesto non va tuttavia dimenticato l’influsso
che ha avuto sia nella politica immigratoria svizzera e sia nella politica
emigratoria italiana l’Unione europea, allora Comunità economica europea (CEE)
o Mercato comune europeo (MEC). La CEE seguiva attentamente la questione migratoria
svizzera, perché la Svizzera era molto interessata ad un’associazione alla CEE,
per usufruire delle grandi opportunità che rappresentava il MEC.
La Svizzera, però, sapeva bene che l’intesa non sarebbe
stata possibile se non si fosse migliorata, sul piano generale, la questione
dei lavoratori stranieri e soprattutto di quelli italiani. Sebbene, durante le
trattative per l’associazione, non abbia accettato integralmente le quattro
libertà fondamentali applicate nel MEC (libera circolazione di merci, servizi,
persone e capitali), è innegabile che in tutte le trattative tra l’Italia e la
Svizzera la situazione all’interno del MEC sia stata tenuta sempre presente. (Segue)
Giovanni Longu
Berna, 19.02.2020
Berna, 19.02.2020