06 febbraio 2019

Immigrazione italiana 1950-1970: 2. L’Italia del dopoguerra


Quando si osservano i dati statistici sull’emigrazione italiana del dopoguerra anche solo verso la Svizzera (1946: 48.808 espatri, 1947: 105.112, 1948: 102.241), ci si rende facilmente conto che si tratta di cifre che esigono una spiegazione. Questa va cercata non tanto nella tradizione emigratoria italiana, avviatasi all’indomani dell’unità d’Italia e attenuatasi per ragioni di politica interna e internazionale nel periodo tra le due guerre mondiali, quanto nella difficile situazione economica, sociale e politica in cui si trovò l’Italia alla fine della seconda guerra mondiale. 

Situazione economica e sociale
Manuel Campus, La stazione di Milano (pittura olio, realizzata nel 1991 al Cisap
di Berna, oggi alla Casa d'Italia). La stazione di Milano è stata nel dopoguerra
uno dei principali crocevia di migranti italiani diretti in Europa.
Alla fine del conflitto, l’Italia si venne a trovare non solo nella condizione di un Paese sconfitto in attesa di sanzioni, ma anche semidistrutta dalla guerra, arretrata, povera, con un’elevata inflazione, una capacità produttiva dell’industria notevolmente ridotta e oltre due milioni di disoccupati.
Per risollevarsi, l’Italia doveva affrontare contemporaneamente tre gravi problemi: la riconversione industriale, condizione essenziale per avviare la ricostruzione del Paese, la diffusa disoccupazione sia al nord (1.142.707 di disoccupati al 31.12.1946) a causa della dismissione di numerose industrie, che al sud a causa dell’irrisolta questione del sottosviluppo meridionale, e i crescenti bisogni derivanti dall’esplosione demografica registrata tra i due censimenti del 1936 e del 1951 (+12,1% di crescita).
Tutti problemi di non facile soluzione, a cominciare dalla ripresa industriale fortemente condizionata dalla scarsa disponibilità di combustibili (carbone, petrolio e derivati) e materie prime. Questa carenza rappresentava non solo un freno alla ripresa della produzione e delle altre attività economiche, ma anche un limite alle esportazioni, che avrebbero potuto fornire la valuta necessaria alle importazioni.

Priorità dei governi del dopoguerra
I problemi economici non erano gli unici a preoccupare i primi governi del dopoguerra perché anche il disagio sociale rischiava di aggravarsi, ampliando pericolosamente il divario tra ricchi e poveri, tra persone istruite e analfabeti, occupati e disoccupati. Un’altra fonte di preoccupazione era l’amministrazione dello Stato perché frastornata dal cambio di regime e carente di organici competenti in seguito all’epurazione dei funzionari pubblici compromessi col fascismo.
I primi governi del dopoguerra, tutti a guida democristiana, considerarono tuttavia prioritari la ricostruzione, la ripresa industriale, il risanamento finanziario e il rilancio economico. Probabilmente ritenevano che una volta raggiunti questi risultati sarebbe stato più facile affrontare e risolvere anche gli altri problemi, compresi quelli della disoccupazione e dell’emigrazione. Occorre anche ricordare che quelle scelte godevano del sostegno degli americani, soprattutto dopo la visita dell’allora Presidente del Consiglio dei ministri Alcide De Gasperi negli Stati Uniti (gennaio 1947).
Intanto, nel 1947, la situazione economica invece di migliorare sembrava peggiorare, come indicavano l’aumento dei prezzi di molti beni e servizi (inflazione), il calo degli investimenti, l’incremento del numero dei fallimenti, la contrazione dell’occupazione industriale, l’aumento della disoccupazione come pure l’impennata dell’emigrazione, che si ripropone in quegli anni drammaticamente. 

Dalla ricostruzione al boom economico
Dopo la frenata del 1947, l’economia italiana riprese vigore e nel 1948 la ricostruzione poteva dirsi ultimata. L’Italia sembrava pronta a lanciarsi in uno sviluppo molto promettente, anche grazie agli aiuti (per oltre un miliardo di dollari) del «Piano Marshall», avviato dagli Stati Uniti per la ricostruzione dell’Europa, ma soprattutto alla politica economica liberista introdotta dal ministro delle finanze, del tesoro e del bilancio Luigi Einaudi, col sostegno del capo del governo Alcide De Gasperi (quarto governo De Gasperi, ormai senza più i comunisti al governo). Questa politica era favorita dal basso costo del lavoro, allora dovuto principalmente alla forte disoccupazione e quindi alla disponibilità di manodopera a buon mercato.
Lo sviluppo industriale del dopoguerra comportò una profonda trasformazione strutturale delle attività economiche. Fu un’operazione tutt’altro che facile o indolore. Non va infatti dimenticato che l’Italia del dopoguerra era ancora prevalentemente agricola e l’agricoltura costituiva la principale fonte di sostentamento della popolazione. La forte capacità produttiva a basso costo e il costante miglioramento degli scambi commerciali agli inizi degli anni 1950 segnarono tuttavia un notevole miglioramento dell’economia generale e l’avvio del boom economico italiano che durerà per oltre un decennio. 

Problemi irrisolti e disoccupazione
Alcide De Gasperi, protagonista della politica italiana
del dopoguerra e grande sostenitore dell'emigrazione.
Nonostante l’incremento delle attività produttive e quindi dell’occupazione nell’industria e nei servizi, nel 1950 la disoccupazione e la sottoccupazione erano ancora molto elevate e il disagio sociale in aumento. Se gli obiettivi economici dei primi governi democristiani del dopoguerra erano stati raggiunti, non altrettanto si poteva dire degli obiettivi della piena occupazione e della riduzione del divario tra nord e sud.
Lo sviluppo industriale, infatti, era concentrato essenzialmente al nord e, sebbene avesse indotto la creazione di decine di migliaia di posti di lavoro che provocarono un’intensa migrazione interna dal sud a nord, non solo non riuscì a eliminare la disoccupazione (nemmeno quella del nord), ma contribuì ad accrescerla. Il richiamo del lavoro nell’industria provocava infatti un continuo esodo dal settore agricolo, ma senza che l’industria, anche per effetto del rinnovo degli impianti e dei processi produttivi, potesse assorbirlo per intero. Oltretutto anche le donne, desiderose di un posto di lavoro fuori dalle pareti domestiche, contribuivano ad aumentare la forza lavoro disponibile.
Per evitare che la situazione continuasse ad aggravarsi, alcuni parlamentari chiesero e ottennero dalla Camera dei deputati una «Commissione parlamentare d'inchiesta sulla disoccupazione» (nota anche come Commissione Tremelloni, dal nome del suo presidente). Su incarico della Commissione, nel settembre del 1952 l’Istituto Centrale di Statistica ISTAT fu incaricato di svolgere una «Rilevazione nazionale delle forze di lavoro» in base a un campione rappresentativo di 1.493.000 disoccupati.

L’emigrazione come «valvola di sicurezza»
La ripresa dell’economia e persino il successivo boom economico non garantirono all’Italia la piena occupazione e il benessere auspicati dai primi governi del dopoguerra. Difficoltà economiche strutturali, la persistente disoccupazione, i conflitti sociali, il crescente divario tra nord e sud, una classe politica divisa e litigiosa crearono le condizioni che spinsero milioni di italiani a emigrare. Fin dal 1946 la piccola Svizzera fu una delle principali destinazioni.
La ripresa dell’emigrazione, bloccata a causa della guerra, sembrò inevitabile soprattutto al sud per alleggerire il peso della disoccupazione. Tra il 1945 e il 1957 più di 3 milioni di italiani lasciarono il Paese per cercare lavoro all’estero. Non va inoltre dimenticato che ai disoccupati italiani si erano aggiunte alcune centinaia di migliaia di connazionali provenienti dalle ex colonie o da parti di territorio italiano cedute ad altri Stati in seguito alla guerra (soprattutto alla Iugoslavia). Dal dopoguerra fino alla fine degli anni Sessanta i flussi migratori saranno ininterrotti, soprattutto verso l’Europa.
Nel 1949, un rapporto della Direzione Generale dell’Emigrazione del 31 marzo 1949 valutava in circa 4 milioni le persone che entravano in linea di conto per l’emigrazione, ossia 2 milioni di disoccupati e altrettanti tra sottoccupati nell’agricoltura, nell’industria e nelle professioni intellettuali e i familiari di tutti questi emigranti potenziali. Per sbloccare la situazione il mezzo più efficace era ritenuto quello di una «adeguata emigrazione», considerata anche una «valvola di sicurezza» non solo sotto l’aspetto economico, ma anche sociale.
Già a questo punto appare chiaro che la ripresa dell’emigrazione non può essere imputata solo alla difficile situazione economica e sociale, ma anche alle scelte di politica economica e sociale dei primi governi del dopoguerra.
Ritengo pertanto opportuno ripercorrere sommariamente le principali tappe del confronto politico che assicurò il predominio del partito di maggioranza relativa, la Democrazia Cristiana, e la sua centralità in tutti i governi del dopoguerra. La loro politica economica, sociale e internazionale è stata per molti versi determinante non solo per la ripresa dell’emigrazione, ma anche per lo «statuto» dei migranti italiani nei Paesi di destinazione e dunque anche degli italiani emigrati in Svizzera. (Segue)
Giovanni Longu
Berna, 6.2.2019