Quando si osservano i dati statistici sull’emigrazione
italiana del dopoguerra anche solo verso la Svizzera (1946: 48.808 espatri,
1947: 105.112, 1948: 102.241), ci si rende facilmente conto che si tratta di
cifre che esigono una spiegazione. Questa va cercata non tanto nella tradizione
emigratoria italiana, avviatasi all’indomani dell’unità d’Italia e attenuatasi
per ragioni di politica interna e internazionale nel periodo tra le due guerre
mondiali, quanto nella difficile situazione economica, sociale e politica in
cui si trovò l’Italia alla fine della seconda guerra mondiale.
Situazione economica
e sociale
Alla fine del conflitto, l’Italia
si venne a trovare non solo nella condizione di un Paese sconfitto in attesa di
sanzioni, ma anche semidistrutta dalla guerra, arretrata, povera, con
un’elevata inflazione, una capacità produttiva dell’industria notevolmente
ridotta e oltre due milioni di disoccupati.
Per risollevarsi, l’Italia doveva affrontare
contemporaneamente tre gravi problemi: la riconversione industriale, condizione
essenziale per avviare la ricostruzione del Paese, la diffusa disoccupazione
sia al nord (1.142.707 di disoccupati al
31.12.1946) a causa della dismissione di numerose industrie, che al sud a causa dell’irrisolta questione
del sottosviluppo meridionale, e i crescenti bisogni derivanti dall’esplosione
demografica registrata tra i due censimenti del 1936 e del 1951 (+12,1% di
crescita).
Tutti problemi di non facile
soluzione, a cominciare dalla ripresa industriale fortemente condizionata dalla
scarsa disponibilità di combustibili (carbone, petrolio e derivati) e materie
prime. Questa carenza rappresentava non solo un freno alla ripresa della
produzione e delle altre attività economiche, ma anche un limite alle
esportazioni, che avrebbero potuto fornire la valuta necessaria alle
importazioni.
Priorità dei governi
del dopoguerra
I problemi economici non
erano gli unici a preoccupare i primi governi del dopoguerra perché anche il
disagio sociale rischiava di aggravarsi, ampliando pericolosamente il divario
tra ricchi e poveri, tra persone istruite e analfabeti, occupati e disoccupati.
Un’altra fonte di preoccupazione era l’amministrazione dello Stato perché frastornata
dal cambio di regime e carente di organici competenti in seguito all’epurazione
dei funzionari pubblici compromessi col fascismo.
Intanto, nel 1947, la
situazione economica invece di migliorare sembrava peggiorare, come indicavano
l’aumento dei prezzi di molti beni e servizi (inflazione), il calo degli
investimenti, l’incremento del numero dei fallimenti, la contrazione dell’occupazione
industriale, l’aumento della disoccupazione come pure l’impennata
dell’emigrazione, che si ripropone in quegli anni drammaticamente.
Dalla ricostruzione
al boom economico
Dopo la frenata del 1947,
l’economia italiana riprese vigore e nel 1948 la ricostruzione poteva dirsi
ultimata. L’Italia sembrava pronta a lanciarsi in uno sviluppo molto
promettente, anche grazie agli aiuti (per oltre un miliardo di dollari) del
«Piano Marshall», avviato dagli Stati Uniti per la ricostruzione dell’Europa,
ma soprattutto alla politica economica liberista introdotta dal ministro delle
finanze, del tesoro e del bilancio Luigi Einaudi, col sostegno del capo
del governo Alcide De Gasperi (quarto governo De Gasperi, ormai senza
più i comunisti al governo). Questa politica era favorita dal basso costo del
lavoro, allora dovuto principalmente alla forte disoccupazione e quindi alla
disponibilità di manodopera a buon mercato.
Problemi irrisolti e
disoccupazione
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Alcide De Gasperi, protagonista della politica italiana del dopoguerra e grande sostenitore dell'emigrazione. |
Lo sviluppo industriale,
infatti, era concentrato essenzialmente al nord e, sebbene avesse indotto la
creazione di decine di migliaia di posti di lavoro che provocarono un’intensa
migrazione interna dal sud a nord, non solo non riuscì a eliminare la
disoccupazione (nemmeno quella del nord), ma contribuì ad accrescerla. Il
richiamo del lavoro nell’industria provocava infatti un continuo esodo dal
settore agricolo, ma senza che l’industria, anche per effetto del rinnovo degli
impianti e dei processi produttivi, potesse assorbirlo per intero. Oltretutto
anche le donne, desiderose di un posto di lavoro fuori dalle pareti domestiche,
contribuivano ad aumentare la forza lavoro disponibile.
Per evitare che la situazione
continuasse ad aggravarsi, alcuni parlamentari chiesero e ottennero dalla Camera dei
deputati una «Commissione
parlamentare d'inchiesta sulla disoccupazione» (nota anche come Commissione
Tremelloni, dal nome del suo presidente). Su incarico della Commissione, nel
settembre del 1952 l’Istituto Centrale di Statistica ISTAT fu incaricato di
svolgere una «Rilevazione nazionale delle forze di lavoro» in base a un
campione rappresentativo di 1.493.000 disoccupati.
L’emigrazione come
«valvola di sicurezza»
La ripresa dell’economia e persino il successivo boom
economico non garantirono all’Italia la piena occupazione e il benessere
auspicati dai primi governi del dopoguerra. Difficoltà economiche strutturali,
la persistente disoccupazione, i conflitti sociali, il crescente divario tra
nord e sud, una classe politica divisa e litigiosa crearono le condizioni che
spinsero milioni di italiani a emigrare. Fin dal 1946 la piccola Svizzera fu
una delle principali destinazioni.
La ripresa dell’emigrazione,
bloccata a causa della guerra, sembrò inevitabile soprattutto al sud per
alleggerire il peso della disoccupazione. Tra il 1945 e il 1957 più di 3
milioni di italiani lasciarono il Paese per cercare lavoro all’estero. Non va
inoltre dimenticato che ai disoccupati italiani si erano aggiunte alcune
centinaia di migliaia di connazionali provenienti dalle ex colonie o da parti
di territorio italiano cedute ad altri Stati in seguito alla guerra
(soprattutto alla Iugoslavia). Dal dopoguerra fino alla fine degli anni
Sessanta i flussi migratori saranno ininterrotti, soprattutto verso l’Europa.
Nel 1949, un rapporto della
Direzione Generale dell’Emigrazione del 31 marzo 1949 valutava in circa 4
milioni le persone che entravano in linea di conto per l’emigrazione, ossia 2
milioni di disoccupati e altrettanti tra sottoccupati nell’agricoltura,
nell’industria e nelle professioni intellettuali e i familiari di tutti questi
emigranti potenziali. Per sbloccare la situazione il mezzo più efficace era
ritenuto quello di una «adeguata emigrazione», considerata anche una «valvola
di sicurezza» non solo sotto l’aspetto economico, ma anche sociale.
Già a questo punto appare
chiaro che la ripresa dell’emigrazione non può essere imputata solo alla
difficile situazione economica e sociale, ma anche alle scelte di politica
economica e sociale dei primi governi del dopoguerra.
Ritengo pertanto opportuno
ripercorrere sommariamente le principali tappe del confronto politico che
assicurò il predominio del partito di maggioranza relativa, la Democrazia Cristiana,
e la sua centralità in tutti i governi del dopoguerra. La loro politica
economica, sociale e internazionale è stata per molti versi determinante non
solo per la ripresa dell’emigrazione, ma anche per lo «statuto» dei migranti
italiani nei Paesi di destinazione e dunque anche degli italiani emigrati in
Svizzera. (Segue)
Giovanni Longu
Berna, 6.2.2019
Berna, 6.2.2019