08 agosto 2023

Marcinelle 2023: si può chiedere scusa?

Per la ventiduesima «Giornata del sacrificio del lavoro italiano nel mondo» e il 67° anniversario della tragedia di Marcinelle, in cui morirono 262 minatori, tra cui 136 italiani,  le più alte cariche dello Stato e numerosi politici sono intervenuti come ogni anno per ricordare e rendere omaggio a tutti i connazionali morti in circostanze drammatiche in emigrazione. Nei loro messaggi - ne ho letto molti - ho colto una sorta di rammarico per quanto accaduto in una miniera del Belgio l’8 agosto 1956 e il dispiacere per quanto toccato alle vittime e alle loro famiglie.

In un intervento ho colto anche l’invito a essere «orgogliosi per lo straordinario contributo degli emigrati italiani allo sviluppo del Paese in cui arrivarono», in altri l’invito al doveroso omaggio e alla riconoscenza per il loro sacrificio. Nella maggior parte degli interventi la retorica ha avuto la sua parte, mentre sono mancati in tutti il disagio e la contrarietà per la politica emigratoria italiana dei primi decenni del dopoguerra. Con provvedimenti più accorti e rispettosi dei migranti, una loro più accurata preparazione, linguistica e professionale, soprattutto per chi era destinato al lavoro rischioso nelle miniere, quella disgrazia probabilmente si sarebbe potuta evitare.

A chi ha scritto che nella catastrofe di Marcinelle «l’Italia ha pagato il prezzo più alto» bisognerebbe ricordare che in quei decenni l’Italia investiva poco sull'emigrazione e lucrava molto sul lavoro, i sacrifici e le rimesse di tanti italiani costretti a fuggire dalla miseria e dall'insicurezza. Non si può dimenticare che allora gli emigrati in Belgio erano considerati poco più di merce di scambio per avere il carbone necessario all'industria.

Nessuno ha ricordato esplicitamente il famoso (o famigerato?) Protocollo di Roma firmato da De Gasperi (col benestare di Togliatti e Nenni) e il ministro belga Van Hacker, in cui si formalizzava lo scambio tra carbone e manodopera. L’Italia s’impegnava a favorire l’emigrazione nelle miniere del Belgio di circa 50.000 lavoratori, duemila ogni settimana, e il Belgio a vendere mensilmente all'Italia almeno 2500 tonnellate di carbone per ogni mille operai inviati!

Allora si gridò allo scandalo perché, si diceva, cittadini italiani erano «venduti per un sacco di carbone». Quel sentimento era ampiamente condiviso tra la popolazione, soprattutto dopo i racconti delle condizioni di lavoro, di alloggio e di vita dei primi minatori. Ufficialmente, invece, l’Italia stava combattendo la «guerra del carbone» necessario per la ripresa economica e la competitività in Europa.

Nemmeno dopo la disgrazia del 1956 o quella di Mattmark del 30 agosto 1965 (con 88 vittime, di cui 56 italiani) nessun rappresentante della politica italiana ha mai chiesto scusa agli italiani costretti ad emigrare perché l’Italia matrigna non riusciva a garantire loro il lavoro e un futuro dignitoso. Rileggendo i discorsi programmatici dei vari governi del dopoguerra e le discussioni parlamentari sulla politica estera italiana è facile notare con quanta insistenza si prometteva il massimo impegno del governo per eliminare alla radice le cause dell’emigrazione.

Poiché nessun governo ci è riuscito è legittimo il dubbio sull'effettivo impegno dei governi che nel frattempo si sono succeduti a rimuovere le cause dell'emigrazione. In effetti, stando alla statistiche, ancora oggi, sia pure in condizioni diverse da quelle del dopoguerra, si continua ad emigrare a decine di migliaia e i costi per l’Italia sono ingenti.

Quanto si dovrà ancora attendere perché il governo (di destra o di sinistra poco importa) s’impegni veramente a rendere l’emigrazione (e l’immigrazione) una scelta libera e consapevole?

Giovanni Longu
Berna 8 agosto 2023