Con la fine della guerra e la riapertura delle frontiere, le
relazioni tra la Svizzera e l’Italia, che non si erano mai interrotte,
ripresero in diversi campi, compreso quello dell’immigrazione. Si è visto
nell’articolo precedente che la Svizzera aveva un enorme fabbisogno di
manodopera estera, ma la politica immigratoria del Consiglio federale doveva
ormai tener conto non solo delle esigenze dell’economia, ma anche della legge
alquanto restrittiva sull’ingresso e il soggiorno degli stranieri del 1931 e
del clima antistranieri che si era diffuso a macchia d’olio in tutta la
Svizzera. L’immigrazione sarebbe stata autorizzata, ma in maniera selettiva e
restrittiva. La paura dell’«inforestierimento» a cui si era aggiunta quella del
comunismo rappresentavano segnali di avvertimento non trascurabili.
Compromesso sull’immigrazione
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Stagionali in attesa della visita medica. |
Finita la guerra le frontiere si erano riaperte, ma
l’obbligo di controllarne il passaggio, soprattutto per i migranti, restava. L’idea
che chiunque nel dopoguerra potesse entrare liberamente in Svizzera e trovare
lavoro perché molte aziende erano alla ricerca di lavoratori è fantasiosa. I
permessi di lavoro non erano disponibili senza i permessi di soggiorno
rilasciati dalle autorità sotto il rigido controllo della Polizia degli
stranieri.
E’ vero che c’era urgente bisogno di manodopera (si
calcolava un fabbisogno di almeno 100.000 addetti) e che le organizzazioni
professionali facevano pressione sul Consiglio federale perché autorizzasse il
reclutamento di lavoratori stranieri, ma inizialmente l’atteggiamento del
governo era alquanto titubante. Secondo alcuni analisti le prospettive
congiunturali non erano rassicuranti e la Svizzera, tra qualche anno, avrebbe
potuto trovarsi nella condizione di dover rimandare al Paese d’origine migliaia
di immigrati.
Il Consiglio federale doveva prendere una decisione tutt’altro
che facile. Infatti, da una parte era consapevole dei bisogni dell’economia,
dall’altra doveva tener conto delle esigenze della politica. Sapeva, inoltre,
che senza il ricorso alla manodopera estera, lo sviluppo sarebbe stato
fortemente rallentato. Senza il ricorso alla manodopera estera alcune opere
infrastrutturali sarebbero state irrealizzabili. Basti pensare che nel 1946,
solo nel Vallese erano in fase di progettazione ben 16 impianti idroelettrici,
due dei quali di grandi dimensioni, le dighe della Grande Dixence e di Mauvoisin.
I lavori sarebbero iniziati quanto prima.
Il Consiglio federale optò per un compromesso: dare seguito
alle richieste dei datori di lavoro, ma fissando alcuni criteri per il
reclutamento della manodopera estera, che doveva avere comunque prevalentemente
un carattere stagionale. Si sarebbe trattato soprattutto di lavoratori e
lavoratrici adulti, autorizzati a soggiornare in Svizzera temporaneamente e
senza famiglia. In tal modo i movimenti xenofobi non avrebbero avuto motivo di
temere l’inforestierimento, perché gli stagionali non incidevano sul numero
complessivo dei residenti, e la popolazione indigena non avrebbe avuto ragione
di preoccuparsi per la tenuta delle strutture sociali, non dovendosi confrontare
con nuove esigenze legate alla presenza di «estranei» (Fremden).
Condizioni per il reclutamento
Il 23 ottobre 1945 il Consiglio federale autorizzò i
contatti con i tradizionali fornitori di manodopera estera, ossia gli Stati
confinanti Germania, Austria, Francia e Italia. Pose tuttavia agli incaricati
delle trattative alcune condizioni. La prima era di tener conto delle eventuali
difficoltà che si sarebbero potute avere tra qualche anno se si fosse voluto
ridurre la manodopera estera in caso di recessione. La seconda mirava ad assicurarsi
che quanti fossero venuti in Svizzera non dovessero poi incontrare difficoltà
al loro rientro nel proprio Paese. Una terza condizione mirava ad ottenere dai
Paesi contraenti il consenso e la possibilità di scegliere la manodopera.
Sulla base di queste condizioni furono presi immediatamente
contatti con i Paesi confinanti, ma né la Germania né l’Austria fornirono
alcuna garanzia in quanto le potenze occupanti non autorizzavano alla
manodopera locale di andare a lavorare all’estero. A sua volta, la Francia non
era per nulla disposta a lasciar emigrare facilmente i francesi, essendo essa
stessa alla ricerca di manodopera estera.
Fu dopo questi
rifiuti che, verso la fine del 1945, la Svizzera si rivolse all’Italia attraverso la Legazione di Berna. I
contatti furono fruttuosi. Non appena il governo italiano diede il proprio
assenso all’inizio di febbraio 1946, la Svizzera presentò già il 14 febbraio
1946 alla Legazione italiana una prima richiesta di manodopera da impiegare
nell’agricoltura, nel ramo alberghiero e della ristorazione, negli ospedali e
istituti, nell’industria tessile e nei servizi domestici. Per il 1946 erano già
pronte per gli italiani decine di migliaia di autorizzazioni e sarebbero
aumentate per l’anno seguente. Nella richiesta, che specificava il fabbisogno
per ciascun ramo, si esprimeva anche il desiderio che si procedesse celermente
(ossia nel giro di 3-4 settimane) al reclutamento.
Da quel momento la Svizzera e le sue aziende potevano
contare sull’Italia per potervi attingere la manodopera di cui avevano bisogno
e l’Italia stava per diventare, come riconoscerà vent’anni più tardi il
consigliere agli Stati ticinese Ferruccio Bolla, «il principale
serbatoio della nostra manodopera, un serbatoio che, a causa del sottosviluppo
del Mezzogiorno, ci è stato aperto generosamente». Com’è noto, a quel serbatoio la Svizzera attingerà
abbondantemente almeno fino agli anni Settanta.
Condizioni per il rilascio dei permessi
L’ingresso in Svizzera non veniva tuttavia liberalizzato, ma
sottoposto a precise condizioni. Nella seduta del 20 dicembre 1945 del
Consiglio nazionale, rispondendo a diversi interventi parlamentari, il
consigliere federale Walther Stampfli informava i deputati che i Cantoni
avevano ricevuto precise indicazioni sulle condizioni per il rilascio dei
permessi d’ingresso agli stranieri. In primo luogo veniva precisato che il
ricorso alla manodopera straniera doveva essere il rimedio estremo alla mancanza
di manodopera indigena. Inoltre il datore di lavoro richiedente doveva precisare
le condizioni di lavoro e salariali, che in ogni caso non potevano essere
diverse da quelle usuali nel settore o convenute nei contratti collettivi di
lavoro. Ancora, oltre all’accertamento dei documenti d’identità personali si
doveva accertare che lo stato di salute degli immigrati fosse ineccepibile. Si
richiedeva anche di accertare che gli immigrati non appartenessero a partiti
politici indesiderati. Infine, doveva essere ben chiaro a tutti i datori di
lavoro che l’assunzione di lavoratori stranieri non doveva creare problemi di
lavoro e salariali ai lavoratori indigeni.
Oggi tali condizioni
possono apparire illiberali ed esagerate, ma si possono ben comprendere nel
contesto del dopoguerra svizzero e tenendo presenti le paure, la grettezza
e le visioni ristrette di molte persone ed istituzioni. Basti pensare al
contratto di lavoro stagionale, concepito non solo in funzione del superamento
della paura dell’inforestierimento, ma anche degli enormi vantaggi che
comportava sui costi dell’infrastruttura perché agli stagionali era proibito il
ricongiungimento familiare e quindi l’esigenza di nuove abitazioni, scuole,
ospedali, ecc.
Primi arrivi dall’Italia
Toccò a trecento donne della provincia di Sondrio
raggiungere per prime la Svizzera (agosto 1945) e molte altre le seguirono
negli anni successivi fino a superare di gran lunga il numero degli immigrati
italiani maschi. Esse venivano occupate soprattutto nell’industria tessile,
alimentare, dell’abbigliamento, ecc. Molte furono chiamate a svolgere servizi
domestici fino alla guerra svolti prevalentemente da donne tedesche e
austriache.
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Rivendicazioni di stagionali, primi anni ’70. |
La collaborazione con l’Italia in materia d’immigrazione,
inizialmente molto lenta, divenne più intensa ed efficace dal 1946, quando ben 48.808
lavoratori italiani poterono trovare lavoro in Svizzera. Nel 1947 e 1948 il
loro numero fu più del doppio, rispettivamente 105.112 e 102.241. Era
soprattutto l’attività edilizia e del genio civile che assorbiva il maggior
numero di immigrati. La Svizzera del dopoguerra soffriva di una forte penuria
di abitazioni, ma anche le industrie
intendevano rinnovare le loro
strutture produttive e commerciali e crearne delle nuove. Inoltre, per far
funzionare a regime le industrie occorreva un rapido potenziamento degli
impianti idroelettrici e garantire l’approvvigionamento energetico. Anche i
servizi reclamavano a loro volta un aumento di personale.
La facilità con cui si riusciva ad ottenere i permessi di
lavoro in Svizzera e le autorizzazioni all’espatrio in Italia era dovuta
soprattutto alle ottime relazioni diplomatiche tra i due Paesi, tanto da non
richiedere inizialmente un accordo ufficiale di immigrazione (che verrà
stipulato solo nel 1948). Il capo della Legazione italiana (diventerà
Ambasciata solo nel 1953) a Berna era allora il ministro plenipotenziario Egidio
Reale, molto noto e stimato negli ambienti federali.
L’intensificarsi del flusso immigratorio non era privo di
rischi di contrasti tra l’Italia e la Svizzera. Due in particolare verranno
trattati in seguito: la cosiddetta «emigrazione clandestina» di cui si
lamenterà soprattutto l’Italia e l’attività politica tra gli immigrati di cui
si lamenterà soprattutto la Svizzera. (Segue).
Giovanni Longu
Berna, 6 marzo 2019