06 marzo 2019

Immigrazione italiana 1950-1970: 6. La prima ondata del dopoguerra


Con la fine della guerra e la riapertura delle frontiere, le relazioni tra la Svizzera e l’Italia, che non si erano mai interrotte, ripresero in diversi campi, compreso quello dell’immigrazione. Si è visto nell’articolo precedente che la Svizzera aveva un enorme fabbisogno di manodopera estera, ma la politica immigratoria del Consiglio federale doveva ormai tener conto non solo delle esigenze dell’economia, ma anche della legge alquanto restrittiva sull’ingresso e il soggiorno degli stranieri del 1931 e del clima antistranieri che si era diffuso a macchia d’olio in tutta la Svizzera. L’immigrazione sarebbe stata autorizzata, ma in maniera selettiva e restrittiva. La paura dell’«inforestierimento» a cui si era aggiunta quella del comunismo rappresentavano segnali di avvertimento non trascurabili.

Compromesso sull’immigrazione
Stagionali in attesa della visita medica.
Finita la guerra le frontiere si erano riaperte, ma l’obbligo di controllarne il passaggio, soprattutto per i migranti, restava. L’idea che chiunque nel dopoguerra potesse entrare liberamente in Svizzera e trovare lavoro perché molte aziende erano alla ricerca di lavoratori è fantasiosa. I permessi di lavoro non erano disponibili senza i permessi di soggiorno rilasciati dalle autorità sotto il rigido controllo della Polizia degli stranieri.
E’ vero che c’era urgente bisogno di manodopera (si calcolava un fabbisogno di almeno 100.000 addetti) e che le organizzazioni professionali facevano pressione sul Consiglio federale perché autorizzasse il reclutamento di lavoratori stranieri, ma inizialmente l’atteggiamento del governo era alquanto titubante. Secondo alcuni analisti le prospettive congiunturali non erano rassicuranti e la Svizzera, tra qualche anno, avrebbe potuto trovarsi nella condizione di dover rimandare al Paese d’origine migliaia di immigrati.
Il Consiglio federale doveva prendere una decisione tutt’altro che facile. Infatti, da una parte era consapevole dei bisogni dell’economia, dall’altra doveva tener conto delle esigenze della politica. Sapeva, inoltre, che senza il ricorso alla manodopera estera, lo sviluppo sarebbe stato fortemente rallentato. Senza il ricorso alla manodopera estera alcune opere infrastrutturali sarebbero state irrealizzabili. Basti pensare che nel 1946, solo nel Vallese erano in fase di progettazione ben 16 impianti idroelettrici, due dei quali di grandi dimensioni, le dighe della Grande Dixence e di Mauvoisin. I lavori sarebbero iniziati quanto prima.
Il Consiglio federale optò per un compromesso: dare seguito alle richieste dei datori di lavoro, ma fissando alcuni criteri per il reclutamento della manodopera estera, che doveva avere comunque prevalentemente un carattere stagionale. Si sarebbe trattato soprattutto di lavoratori e lavoratrici adulti, autorizzati a soggiornare in Svizzera temporaneamente e senza famiglia. In tal modo i movimenti xenofobi non avrebbero avuto motivo di temere l’inforestierimento, perché gli stagionali non incidevano sul numero complessivo dei residenti, e la popolazione indigena non avrebbe avuto ragione di preoccuparsi per la tenuta delle strutture sociali, non dovendosi confrontare con nuove esigenze legate alla presenza di «estranei» (Fremden).

Condizioni per il reclutamento
Il 23 ottobre 1945 il Consiglio federale autorizzò i contatti con i tradizionali fornitori di manodopera estera, ossia gli Stati confinanti Germania, Austria, Francia e Italia. Pose tuttavia agli incaricati delle trattative alcune condizioni. La prima era di tener conto delle eventuali difficoltà che si sarebbero potute avere tra qualche anno se si fosse voluto ridurre la manodopera estera in caso di recessione. La seconda mirava ad assicurarsi che quanti fossero venuti in Svizzera non dovessero poi incontrare difficoltà al loro rientro nel proprio Paese. Una terza condizione mirava ad ottenere dai Paesi contraenti il consenso e la possibilità di scegliere la manodopera.
Sulla base di queste condizioni furono presi immediatamente contatti con i Paesi confinanti, ma né la Germania né l’Austria fornirono alcuna garanzia in quanto le potenze occupanti non autorizzavano alla manodopera locale di andare a lavorare all’estero. A sua volta, la Francia non era per nulla disposta a lasciar emigrare facilmente i francesi, essendo essa stessa alla ricerca di manodopera estera.
Fu dopo questi rifiuti che, verso la fine del 1945, la Svizzera si rivolse all’Italia attraverso la Legazione di Berna. I contatti furono fruttuosi. Non appena il governo italiano diede il proprio assenso all’inizio di febbraio 1946, la Svizzera presentò già il 14 febbraio 1946 alla Legazione italiana una prima richiesta di manodopera da impiegare nell’agricoltura, nel ramo alberghiero e della ristorazione, negli ospedali e istituti, nell’industria tessile e nei servizi domestici. Per il 1946 erano già pronte per gli italiani decine di migliaia di autorizzazioni e sarebbero aumentate per l’anno seguente. Nella richiesta, che specificava il fabbisogno per ciascun ramo, si esprimeva anche il desiderio che si procedesse celermente (ossia nel giro di 3-4 settimane) al reclutamento.
Da quel momento la Svizzera e le sue aziende potevano contare sull’Italia per potervi attingere la manodopera di cui avevano bisogno e l’Italia stava per diventare, come riconoscerà vent’anni più tardi il consigliere agli Stati ticinese Ferruccio Bolla, «il principale serbatoio della nostra manodopera, un serbatoio che, a causa del sottosviluppo del Mezzogiorno, ci è stato aperto generosamente». Com’è noto, a quel serbatoio la Svizzera attingerà abbondantemente almeno fino agli anni Settanta.

Condizioni per il rilascio dei permessi
L’ingresso in Svizzera non veniva tuttavia liberalizzato, ma sottoposto a precise condizioni. Nella seduta del 20 dicembre 1945 del Consiglio nazionale, rispondendo a diversi interventi parlamentari, il consigliere federale Walther Stampfli informava i deputati che i Cantoni avevano ricevuto precise indicazioni sulle condizioni per il rilascio dei permessi d’ingresso agli stranieri. In primo luogo veniva precisato che il ricorso alla manodopera straniera doveva essere il rimedio estremo alla mancanza di manodopera indigena. Inoltre il datore di lavoro richiedente doveva precisare le condizioni di lavoro e salariali, che in ogni caso non potevano essere diverse da quelle usuali nel settore o convenute nei contratti collettivi di lavoro. Ancora, oltre all’accertamento dei documenti d’identità personali si doveva accertare che lo stato di salute degli immigrati fosse ineccepibile. Si richiedeva anche di accertare che gli immigrati non appartenessero a partiti politici indesiderati. Infine, doveva essere ben chiaro a tutti i datori di lavoro che l’assunzione di lavoratori stranieri non doveva creare problemi di lavoro e salariali ai lavoratori indigeni.
Oggi tali condizioni possono apparire illiberali ed esagerate, ma si possono ben comprendere nel contesto del dopoguerra svizzero e tenendo presenti le paure, la grettezza e le visioni ristrette di molte persone ed istituzioni. Basti pensare al contratto di lavoro stagionale, concepito non solo in funzione del superamento della paura dell’inforestierimento, ma anche degli enormi vantaggi che comportava sui costi dell’infrastruttura perché agli stagionali era proibito il ricongiungimento familiare e quindi l’esigenza di nuove abitazioni, scuole, ospedali, ecc.

Primi arrivi dall’Italia
Toccò a trecento donne della provincia di Sondrio raggiungere per prime la Svizzera (agosto 1945) e molte altre le seguirono negli anni successivi fino a superare di gran lunga il numero degli immigrati italiani maschi. Esse venivano occupate soprattutto nell’industria tessile, alimentare, dell’abbigliamento, ecc. Molte furono chiamate a svolgere servizi domestici fino alla guerra svolti prevalentemente da donne tedesche e austriache.
Rivendicazioni di stagionali, primi anni ’70.
La collaborazione con l’Italia in materia d’immigrazione, inizialmente molto lenta, divenne più intensa ed efficace dal 1946, quando ben 48.808 lavoratori italiani poterono trovare lavoro in Svizzera. Nel 1947 e 1948 il loro numero fu più del doppio, rispettivamente 105.112 e 102.241. Era soprattutto l’attività edilizia e del genio civile che assorbiva il maggior numero di immigrati. La Svizzera del dopoguerra soffriva di una forte penuria di abitazioni, ma anche le industrie intendevano rinnovare le loro strutture produttive e commerciali e crearne delle nuove. Inoltre, per far funzionare a regime le industrie occorreva un rapido potenziamento degli impianti idroelettrici e garantire l’approvvigionamento energetico. Anche i servizi reclamavano a loro volta un aumento di personale.
La facilità con cui si riusciva ad ottenere i permessi di lavoro in Svizzera e le autorizzazioni all’espatrio in Italia era dovuta soprattutto alle ottime relazioni diplomatiche tra i due Paesi, tanto da non richiedere inizialmente un accordo ufficiale di immigrazione (che verrà stipulato solo nel 1948). Il capo della Legazione italiana (diventerà Ambasciata solo nel 1953) a Berna era allora il ministro plenipotenziario Egidio Reale, molto noto e stimato negli ambienti federali.
L’intensificarsi del flusso immigratorio non era privo di rischi di contrasti tra l’Italia e la Svizzera. Due in particolare verranno trattati in seguito: la cosiddetta «emigrazione clandestina» di cui si lamenterà soprattutto l’Italia e l’attività politica tra gli immigrati di cui si lamenterà soprattutto la Svizzera. (Segue).

Giovanni Longu
Berna, 6 marzo 2019

Nessun commento:

Posta un commento