02 novembre 2022

Immigrazione italiana 1991-2000: 20. L’eredità degli immigrati italiani: un modello d’integrazione

In questi articoli, il punto di vista temporale di chi scrive concerne sia il passato che il futuro. Si tratta infatti di un modello d’integrazione lasciato in eredità dalla prima generazione di immigrati in Svizzera alla seconda, con un potenziale di sviluppo che potrebbe pacificare e trasformare l’intera Europa. Spetta soprattutto ai giovani beneficiari implementarlo a livello europeo, dandone testimonianza e impulsi. Il compito non si presenta difficile perché il modello esiste, è ampiamente collaudato, è efficace, è vincente.

Un modello vincente

Il modello d’integrazione sviluppato in Svizzera può essere definito «vincente» perché è riuscito a conciliare in maniera generalmente armoniosa esigenze per molti versi contrastanti, quelle del Paese ospitante, che aveva bisogno di Gastarbeiter, e quelle dei diretti interessati, che volevano essere considerati persone e non solo come forza lavoro.

Senza la volontà comune di trovare un compromesso soddisfacente per entrambe le parti, le esigenze dell’economia e la destra nazionalistica avrebbero stravinto nella votazione del 1970 sull'iniziativa antistranieri di Schwarzenbach e la storia non solo dell’immigrazione italiana ma pure della Svizzera avrebbe avuto uno sviluppo alquanto diverso. Verosimilmente gli italiani non avrebbero resistito a lungo a quelle forme benché attenuate di sfruttamento, discriminazione, limitazione dei diritti civili oltre che politici, che subivano nei primi decenni del secondo dopoguerra e la Svizzera si sarebbe ulteriormente isolata in Europa e nel mondo.

Va anche sottolineato che per raggiungere il compromesso in questione ciascuna delle parti in causa ha dovuto fare delle rinunce, soprattutto di tipo culturale e comportamentale, ben soppesando tuttavia svantaggi e vantaggi. Che questi abbiano finito per prevalere lo dimostra il fatto che il numero complessivo degli italiani residenti in Svizzera (compresi quelli con la doppia nazionalità) è rimasto a lungo stabile, nonostante il saldo migratorio negativo dagli anni Settanta fino al 2006, ed è cresciuto negli ultimi decenni. La Svizzera ha continuato a sviluppare la sua economia in termini di innovazione, ricchezza prodotta e prosperità.

Integrazione e libera circolazione

Con molta semplificazione si può pensare che l’integrazione sia venuta con l’istruzione, l’apprendimento delle lingue e l’inserimento professionale ed è verissimo, ma il suo coronamento è venuto dalla libera circolazione di cui la seconda generazione e ancor più la terza beneficiano ampiamente. E’ stato un processo lungo e complesso, ma ne è valsa la pena.

Una delle condizioni iniziali poste dagli stranieri (e in particolare dagli italiani) era di essere accettati e riconosciuti non solo come bravi lavoratori (di cui si sentiva il bisogno), ma anche come residenti stabili (domiciliati) e come persone, con gli stessi diritti degli svizzeri, salvo quelli legati alla cittadinanza. Non è stato facile raggiungere l’obiettivo, anche se sarebbe bastato rifarsi alla storia delle relazioni italo-svizzere in materia immigratoria e in particolare al Trattato di domicilio e consolare del 1868.

Infatti quell'accordo, benché caduto presto in disuso sebbene sia tuttora valido (!), prevedeva all'articolo 1 che «gli Italiani saranno in ogni Cantone della Confederazione Svizzera ricevuti e trattati, riguardo alle persone e proprietà loro, sul medesimo piede e alla medesima maniera come lo sono o potranno esserlo in avvenire gli attinenti degli altri Cantoni» e che «i cittadini di ciascuno dei due Stati non meno che le loro famiglie, quando si uniformino alle leggi del paese, potranno liberamente entrare, viaggiare, soggiornare e stabilirsi in qualsivoglia parte dei territorio, senza che per i passaporti e per i permessi di dimora e per l’esercizio di loro professione siano sottoposti a tassa».

Ci sono voluti 134 anni fino a quando la Svizzera, per accettare gli Accordi bilaterali I con l’Unione Europea (UE), ha dovuto reintrodurre la libera circolazione delle persone. Nel frattempo, gli immigrati, soprattutto quelli italiani, hanno dovuto fare tanti sacrifici, lavorare sodo, comportarsi in maniera esemplare (pena l’espulsione), sforzarsi di vincere non solo la paura, la precarietà e talvolta persino l’odio, ma anche il desiderio insopprimibile del ritorno, sostenuti dalla speranza e dalla volontà di creare le premesse giuste per un’integrazione equa e rispettosa della personalità e dei diritti individuali almeno per le seconde generazioni.

Un modello per l’Europa

Le premesse sono state soddisfatte e oggi, in Svizzera, l’integrazione è in massima parte riuscita. Le condizioni di partenza (come si diceva nell'articolo precedente) sono pressoché uguali per svizzeri e stranieri (italiani), non si parla più di discriminazioni strutturali, di sfruttamento, di preclusioni ideologiche o di acculturazione forzata. Non solo la convivenza, ma anche lo sviluppo comune, la crescita armoniosa sono possibili. I valori sono condivisi e i pregiudizi messi al bando. Non potrebbe essere un modello vincente anche per l’Europa?

Per la seconda generazione l’integrazione, la libera circolazione, il benessere condiviso dovrebbero rappresentare non solo un traguardo raggiunto ma anche un impegno. Spesso si rimprovera ai giovani di non partecipare alle attività delle associazioni tradizionali, di non andare a votare (come hanno dimostrato anche recentemente), di non battersi per i valori della democrazia, ecc.; ma forse non meritano alcun rimprovero perché non rinnegano i valori e gli ideali del passato, semplicemente ne hanno altri. Basterebbe lasciare loro maggiore spazio per mettersi alla prova e dimostrare che la loro visione del mondo è non solo diversa ma anche migliore di quella dei loro genitori e di quella dell’establishment che oggi governa il mondo, come dimostra il loro atteggiamento di fronte alla guerra e alla pace.

Da mesi i grandi media trattano diffusamente temi legati alla guerra in Ucraina. Dubito che vengano seguiti dai giovani perché non possono condividerne l’impostazione pregiudiziale, ritenendo fuorviante la contrapposizione proposta tra valori e disvalori (bene e male, civiltà e barbarie, occidente e oriente, libertà e oppressione, democrazia e autocrazia, guerra difensiva e aggressione, morti eroiche e uccisioni indiscriminate di civili, ecc.), ignorando il dubbio che potrebbe anche trattarsi di una lotta senza esclusione di colpi tra le grandi potenze per il predominio del mondo, il controllo delle materie prime e dei mercati, la produzione e la vendita degli armamenti, la difesa di interessi materiali e immateriali esistenti o possibili.

La visione del mondo dei giovani (e quindi anche della seconda generazione di italiani in Svizzera) è diversa perché orientata decisamente verso la pace. Non esistono ragioni valide per scatenare una guerra e per non fermarla se già avviata. Nemmeno la «patria» è più sentita come un valore per cui morire, quando può essere meglio difesa col dialogo, con accordi bilaterali e internazionali, con compromessi, con le autonomie locali, con la libera circolazione delle persone, con la collaborazione a più livelli, ecc.

Italiani per la pace

Soprattutto i giovani italiani, per principio, ripudiano la guerra «come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali» (art. 11 della Costituzione italiana). Sono contrari, fra l’altro per considerazioni di opportunità e di risparmio, al rafforzamento dei confini, degli armamenti, delle coalizioni militari, delle contrapposizioni ideologiche e delle condanne indiscriminate di intere popolazioni. Anche per questo la riuscita della seconda generazione dovrebbe rappresentare un modello in Europa.

Non va infine dimenticato che i giovani di oggi non amano i confini e preferiscono viaggiare liberamente, fare esperienze, conoscere popoli e mondi diversi. Sono la generazione «Erasmus». E benché questo nome sia in realtà un acronimo (EuRopean Community Action Scheme for the Mobility of University Students), nei giovani richiama facilmente il grande umanista Erasmo da Rotterdam, irriducibile avversario della guerra e sostenitore della pace.

Considerava la guerra una follia, un oltraggio alla ragione, «una cosa tanto crudele da convenire alle belve più che agli uomini», una pazzia, «così rovinosa da portare con sé la totale corruzione dei costumi, tanto ingiusta da offrire ai peggiori predoni la migliore occasione di affermarsi, tanto empia da non avere nulla in comune con Cristo». (Elogio della follia).

I giovani di oggi, magari non cattolici né cristiani, sono anche più dalla parte di papa Francesco che dalla parte dei sostenitori della «guerra giusta» che vorrebbero prolungarla fino alla vittoria finale degli ucraini. No, per papa Francesco la guerra è una sconfitta per l’umanità, è una vergogna che venga sostenuta con una crescente produzione di armi sempre più sofisticate e micidiali, è inaccettabile consentire che ogni giorno aggiunga altre morti e distruzioni.

I giovani della seconda generazione conoscono bene la differenza tra guerra e pace, morte e vita, distruzione e sviluppo. Dovrebbero forse renderlo ancor più evidente, al mondo intero.

Giovanni Longu
Berna 2 novembre 2022