In questi articoli, il punto di vista temporale di chi scrive concerne sia il passato che il futuro. Si tratta infatti di un modello d’integrazione lasciato in eredità dalla prima generazione di immigrati in Svizzera alla seconda, con un potenziale di sviluppo che potrebbe pacificare e trasformare l’intera Europa. Spetta soprattutto ai giovani beneficiari implementarlo a livello europeo, dandone testimonianza e impulsi. Il compito non si presenta difficile perché il modello esiste, è ampiamente collaudato, è efficace, è vincente.
Un modello vincente
Il modello d’integrazione sviluppato in Svizzera può essere definito «vincente» perché è riuscito a conciliare in maniera generalmente armoniosa esigenze per molti versi contrastanti, quelle del Paese ospitante, che aveva bisogno di Gastarbeiter, e quelle dei diretti interessati, che volevano essere considerati persone e non solo come forza lavoro.
Senza la volontà
comune di trovare un compromesso soddisfacente per entrambe le parti, le
esigenze dell’economia e la destra nazionalistica avrebbero stravinto nella
votazione del 1970 sull'iniziativa antistranieri di Schwarzenbach e la storia
non solo dell’immigrazione italiana ma pure della Svizzera avrebbe avuto uno
sviluppo alquanto diverso. Verosimilmente gli italiani non avrebbero resistito
a lungo a quelle forme benché attenuate di sfruttamento, discriminazione,
limitazione dei diritti civili oltre che politici, che subivano nei primi
decenni del secondo dopoguerra e la Svizzera si sarebbe ulteriormente isolata
in Europa e nel mondo.
Va anche
sottolineato che per raggiungere il compromesso in questione ciascuna delle
parti in causa ha dovuto fare delle rinunce, soprattutto di tipo culturale e
comportamentale, ben soppesando tuttavia svantaggi e vantaggi. Che questi
abbiano finito per prevalere lo dimostra il fatto che il numero complessivo
degli italiani residenti in Svizzera (compresi quelli con la doppia
nazionalità) è rimasto a lungo stabile, nonostante il saldo migratorio negativo
dagli anni Settanta fino al 2006, ed è cresciuto negli ultimi decenni. La Svizzera
ha continuato a sviluppare la sua economia in termini di innovazione, ricchezza
prodotta e prosperità.
Integrazione e libera circolazione
Con molta
semplificazione si può pensare che l’integrazione sia venuta con l’istruzione,
l’apprendimento delle lingue e l’inserimento professionale ed è verissimo, ma
il suo coronamento è venuto dalla libera circolazione di cui la seconda
generazione e ancor più la terza beneficiano ampiamente. E’ stato un processo
lungo e complesso, ma ne è valsa la pena.
Una delle
condizioni iniziali poste dagli stranieri (e in particolare dagli italiani) era
di essere accettati e riconosciuti non solo come bravi lavoratori (di cui si
sentiva il bisogno), ma anche come residenti stabili (domiciliati) e come
persone, con gli stessi diritti degli svizzeri, salvo quelli legati alla
cittadinanza. Non è stato facile raggiungere l’obiettivo, anche se sarebbe
bastato rifarsi alla storia delle relazioni italo-svizzere in materia
immigratoria e in particolare al Trattato di domicilio e consolare del 1868.
Infatti
quell'accordo, benché caduto presto in disuso sebbene sia tuttora valido (!),
prevedeva all'articolo 1 che «gli Italiani saranno in ogni Cantone
della Confederazione Svizzera ricevuti e trattati, riguardo alle persone e
proprietà loro, sul medesimo piede e alla medesima maniera come lo sono o
potranno esserlo in avvenire gli attinenti degli altri Cantoni» e che «i
cittadini di ciascuno dei due Stati non meno che le loro famiglie, quando si
uniformino alle leggi del paese, potranno liberamente entrare, viaggiare,
soggiornare e stabilirsi in qualsivoglia parte dei territorio, senza che per i
passaporti e per i permessi di dimora e per l’esercizio di loro professione siano
sottoposti a tassa».
Ci sono voluti 134 anni fino a quando la Svizzera, per
accettare gli Accordi bilaterali I con l’Unione Europea (UE), ha dovuto
reintrodurre la libera circolazione delle persone. Nel frattempo, gli
immigrati, soprattutto quelli italiani, hanno dovuto fare tanti sacrifici, lavorare
sodo, comportarsi in maniera esemplare (pena l’espulsione), sforzarsi di
vincere non solo la paura, la precarietà e talvolta persino l’odio, ma anche il
desiderio insopprimibile del ritorno, sostenuti dalla speranza e dalla volontà
di creare le premesse giuste per un’integrazione equa e rispettosa della
personalità e dei diritti individuali almeno per le seconde generazioni.
Un modello per l’Europa
Le premesse sono state soddisfatte e oggi, in Svizzera,
l’integrazione è in massima parte riuscita. Le condizioni di partenza (come si
diceva nell'articolo precedente) sono pressoché uguali per svizzeri e stranieri
(italiani), non si parla più di discriminazioni strutturali, di sfruttamento,
di preclusioni ideologiche o di acculturazione forzata. Non solo la convivenza,
ma anche lo sviluppo comune, la crescita armoniosa sono possibili. I valori
sono condivisi e i pregiudizi messi al bando. Non potrebbe essere un modello vincente
anche per l’Europa?
Da mesi i grandi media trattano diffusamente temi legati
alla guerra in Ucraina. Dubito che vengano seguiti dai giovani perché non
possono condividerne l’impostazione pregiudiziale, ritenendo fuorviante la
contrapposizione proposta tra valori e disvalori (bene e male, civiltà e
barbarie, occidente e oriente, libertà e oppressione, democrazia e autocrazia,
guerra difensiva e aggressione, morti eroiche e uccisioni indiscriminate di
civili, ecc.), ignorando il dubbio che potrebbe anche trattarsi di una lotta senza
esclusione di colpi tra le grandi potenze per il predominio del mondo, il controllo
delle materie prime e dei mercati, la produzione e la vendita degli armamenti,
la difesa di interessi materiali e immateriali esistenti o possibili.
La visione del mondo dei giovani (e quindi anche della
seconda generazione di italiani in Svizzera) è diversa perché orientata
decisamente verso la pace. Non esistono ragioni valide per scatenare una guerra
e per non fermarla se già avviata. Nemmeno la «patria» è più sentita come un
valore per cui morire, quando può essere meglio difesa col dialogo, con accordi
bilaterali e internazionali, con compromessi, con le autonomie locali, con la
libera circolazione delle persone, con la collaborazione a più livelli, ecc.
Italiani per la pace
Considerava la guerra una follia, un oltraggio alla ragione,
«una cosa tanto crudele da convenire alle belve più che agli uomini»,
una pazzia, «così rovinosa da portare con sé la totale corruzione dei
costumi, tanto ingiusta da offrire ai peggiori predoni la migliore occasione di
affermarsi, tanto empia da non avere nulla in comune con Cristo». (Elogio
della follia).
I giovani di oggi, magari non cattolici né cristiani, sono
anche più dalla parte di papa Francesco che dalla parte dei sostenitori
della «guerra giusta» che vorrebbero prolungarla fino alla vittoria finale
degli ucraini. No, per papa Francesco la guerra è una sconfitta per l’umanità,
è una vergogna che venga sostenuta con una crescente produzione di armi sempre
più sofisticate e micidiali, è inaccettabile consentire che ogni giorno aggiunga
altre morti e distruzioni.
I giovani della seconda generazione conoscono bene la
differenza tra guerra e pace, morte e vita, distruzione e sviluppo. Dovrebbero
forse renderlo ancor più evidente, al mondo intero.
Giovanni Longu
Berna 2 novembre 2022