17 giugno 2010

Denatalità e «suicidio demografico», in Italia e in Svizzera

[Versione breve]
Qualche settimana fa il cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Conferenza episcopale italiana (CEI), ha ritenuto opportuno richiamare l’attenzione dei poteri pubblici sulla gravità della situazione demografica italiana e sollecitare rimedi adeguati come l’introduzione del quoziente familiare.
Il richiamo del cardinale era motivato dal perdurare della denatalità che sta portando l’Italia «verso un lento suicidio demografico: oltre il cinquanta per cento delle famiglie oggi è senza figli e, tra quelle che ne hanno, quasi la metà ne contemplano uno solo, il resto due, e solamente il 5,1 delle famiglie ha tre o più di tre figli».
Il cardinale Bagnasco sembra preoccupato oltre che della denatalità anche della perdita di valore (religioso) della famiglia «fondata su quel bene inalterabile che è il matrimonio tra un uomo e una donna, che va difeso (…) e continuamente preservato quale crogiuolo di energia morale».
Ovviamente, niente da eccepire sul significato (religioso) del matrimonio e sul concetto di «famiglia» di Monsignor Bagnasco. Quanto invece a considerare un «suicidio demografico» il fatto che in Italia, all’interno della famiglia, nascano meno figli di una volta mi sembra esagerato. Tanto più che i dati statistici degli ultimi anni parlano di una ripresa della natalità. Ma anche a prescindere da questo segnale incoraggiante, andrebbe ricordato che l’equilibrio demografico in un grande Paese non è solo garantito dalla prole che nasce nelle famiglie fondate sul matrimonio. Esistono infatti altri tipi di «famiglie» di fatto che contribuiscono anch’esse all’equilibrio demografico. Si pensi ad esempio alle coppie non sposate con figli o alle famiglie monoparentali. Soprattutto in un Paese d’immigrazione com’è divenuta ormai l’Italia, l’equilibrio demografico è anche dato dall’apporto considerevole delle giovani immigrate, generalmente più prolifiche delle autoctone. Inoltre, storicamente, l’andamento della natalità è stato altalenante.
In generale, una società fondamentalmente sana e produttiva trova sempre la maniera di rigenerarsi. E’ stato, ad esempio, il caso della Svizzera, cronicamente confrontata con un basso tasso di natalità eppure oggi un Paese in crescita non solo economicamente ma anche demograficamente, proprio grazie all’immigrazione.
In questo Paese, tra il 1900 e il 1940 il tasso di natalità degli svizzeri era sceso sotto il 15%. Soprattutto dopo il 1920 era crollato drammaticamente. Tra il 1900 e il 1960 la classe d’età da 0 a 15 anni era scesa dal 40,55% al 31,3%, mentre era quasi raddoppiata dal 5,8% al 10,4% quella delle persone di 65 e più anni. Anche allora (1938) si parlò di rischio di «suicidio collettivo».
Con lo scoppio della seconda guerra mondiale, la situazione della denatalità in Svizzera divenne ancor più preoccupante, perché sembrava mettere a rischio il futuro stesso dell’esercito e dello stato sociale. Il consigliere federale Philippe Etter, cattolico molto conservatore, definì la denatalità come un «problema nazionale» (1938). L’esposizione nazionale del 1939 divenne un’occasione straordinaria per richiamare l’attenzione del popolo svizzero sul rischio di un «suicidio collettivo». Attraverso, conferenze, discorsi, opuscoli e la radio, fu diffuso il messaggio che un popolo senza bambini era votato alla morte, che la sorgente della vita si esauriva, soprattutto nelle città, che era necessaria una «offensiva della vita» affinché la Svizzera non sparisse.
A differenza delle buone maniere di Monsignor Bagnasco, che fa appello soprattutto «ai responsabili della cosa pubblica» perché mettano in essere politiche familiari adeguate e rispettose delle donne lavoratrici, in quegli anni di guerra, soprattutto negli ambienti cattolici si cercava di addossare le responsabilità dirette della denatalità in Svizzera non tanto allo Stato quanto piuttosto ai cittadini… irresponsabili. Alle donne soprattutto veniva rimproverato di ambire a una vita comoda e lussuosa, di preferire allo spirito materno lo spirito del tempo che mirava all’emancipazione della donna. Non si perdeva perciò occasione di ricordare l’ideale della donna svizzera e di esaltarne il ruolo come «casalinga, madre e moglie virtuosa». Agli uomini, allora ben occupati con la guerra, più che muovere rimproveri, si preferiva generalmente ricordare la loro forza procreativa!
Poiché la denatalità continuava, continuavano anche gli appelli per una «restaurazione della famiglia». Nel 1941, ancora il consigliere federale Philippe Etter andava ripetendo che «la denatalità è la conseguenza d’una convinzione troppo individualista e materialista della vita, che noi confondiamo troppo spesso con il progresso e la civilizzazione. Un popolo virile dev’esserlo nel senso pieno del termine, virile anche là dove virilità significa potenza creativa e sacra».
Altri tempi? Certamente sì e possiamo rallegrarcene. In fondo, la Svizzera è scampata bene da quella «morte sorniona» che sembrava minacciarla alla fine degli anni Trenta. E nessuno sembra dolersi che a contribuire al cambiamento siano stati anche gli stranieri, gli immigrati. Quanto all’Italia, credo che ne uscirà bene. In fondo, l’istinto della sopravvivenza è fondamentale tanto negli individui quanto nei gruppi sociali. E forse i bambini torneranno ad essere un bel dono di Dio!
Giovanni Longu
17.6.2010

16 giugno 2010

Denatalità uguale «suicidio demografico»?


Sembra che il cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Conferenza episcopale italiana (CEI), abbia tuonato qualche settimana fa contro il rischio di «suicidio demografico» che starebbe correndo l’Italia a causa della denatalità di questi anni. Per questo motivo ha ritenuto opportuno richiamare l’attenzione dei poteri pubblici sulla gravità della situazione e sollecitare rimedi adeguati come l’introduzione del quoziente familiare.
Appello del cardinale Bagnasco
Il cardinale Bagnasco, in apertura dell’assemblea annuale della CEI, il 24 maggio 2010, ha parlato della famiglia «fondata su quel bene inalterabile che è il matrimonio tra un uomo e una donna, che va difeso (…) e continuamente preservato quale crogiuolo di energia morale, determinante nel dare prospettive di vita al nostro presente».
«Eppure, ha proseguito il cardinale, l’Italia sta andando verso un lento suicidio demografico: oltre il cinquanta per cento delle famiglie oggi è senza figli e, tra quelle che ne hanno, quasi la metà ne contemplano uno solo, il resto due, e solamente il 5,1 delle famiglie ha tre o più di tre figli. Sembra inutile evocare scenari preoccupanti, e certo non incoraggiante è ripetere previsioni peraltro già note sotto il profilo sociale e culturale. Urge una politica che sia orientata ai figli, che voglia da subito farsi carico di un equilibrato ricambio generazionale. Ci permettiamo di insistere con i responsabili della cosa pubblica affinché pongano in essere iniziative urgenti e incisive: questo è paradossalmente il momento per farlo. Proprio perché perdura una condizione di pesante difficoltà economica, bisogna tentare di uscirne attraverso parametri sociali nuovi e coerenti con le analisi fatte. Il quoziente familiare è l’innovazione che si attende e che può liberare l’avvenire della nostra società. Da parte nostra ci impegniamo affinché nella pastorale familiare, e in quella volta alla preparazione al matrimonio, si operi per radicare ancor più la coscienza dei figli come doni che moltiplicano il credito verso la vita e il suo domani».
Il cardinale Bagnasco non è l’unico ad essere allarmato. E’ infatti fin dagli anni Novanta che in Italia questo allarme è stato lanciato e ne hanno trattato l’Accademia dei Lincei, la Fondazione Agnelli, uomini politici, l’opinione pubblica ed evidentemente anche i Vescovi italiani in più occasioni. Sono in molti a preoccuparsi della scarsa natalità che si registra ormai da oltre un ventennio in Italia.
Chi legge questi dati dall’estero si meraviglia non poco perché contrastano con lo stereotipo di un’Italia ancora molto cattolica, dove la famiglia dovrebbe essere tenuta in grande considerazione e i bambini dovrebbero essere considerati un dono e una benedizione. Anche sotto questo profilo è comprensibile la preoccupazione dei vescovi italiani e del cardinale Bagnasco che ne è a capo. Capisco soprattutto la loro inquietudine perché alla radice del fenomeno essi vedono sicuramente anche la perdita di valore del matrimonio (religioso) e della famiglia (cristiana). Quindi, niente da eccepire sul significato (religioso) del matrimonio e sul concetto di «famiglia» di Monsignor Bagnasco.
Rischio di un «suicidio demografico»? (2010)
Quanto invece a considerare un «suicidio demografico» il fatto che in Italia, all’interno della famiglia, nascano meno figli di una volta mi sembra esagerato. Tanto più che i dati statistici italiani degli ultimi anni parlano di una ripresa della natalità. Ma anche a prescindere da questo segnale incoraggiante, andrebbe ricordato che l’equilibrio demografico in un grande Paese non è solo garantito dalla prole che nasce nelle famiglie fondate sul matrimonio. Esistono infatti altri tipi di «famiglie» di fatto che contribuiscono anch’esse all’equilibrio demografico. Si pensi ad esempio alle coppie non sposate con figli o alle famiglie monoparentali. Inoltre, storicamente, l’andamento della natalità è stato altalenante. Soprattutto in un Paese d’immigrazione com’è divenuta ormai l’Italia, l’equilibrio demografico è anche dato dall’apporto considerevole delle giovani immigrate, generalmente più prolifiche delle autoctone.
In generale, una società fondamentalmente sana e produttiva trova sempre la maniera di rigenerarsi. E’ stato, ad esempio, il caso della Svizzera, cronicamente confrontata con un basso tasso di natalità eppure un Paese in crescita non solo economicamente ma anche demograficamente, proprio grazie all’immigrazione.
Non vorrei tuttavia semplificare troppo i problemi e tantomeno negarli, perché i rischi di un grave squilibrio demografico e sociale sono reali. Se dovessero concretizzarsi le difficoltà da superare sarebbero enormi. Basterebbe solo pensare al rapporto tra anziani e giovani, che potrebbe diventare troppo pesante per gli ultimi, soprattutto in periodi di difficoltà economica.
Anche sotto questo profilo il grido di allarme e l’appello lanciati da Monsignor Bagnasco sono più che comprensibili, sebbene non si tratti affatto di un caso isolato nella storia. Proprio la Svizzera ne ha conosciuto uno simile.
In questo Paese, tra il 1900 e il 1940 il tasso di natalità degli svizzeri era sceso sotto il 15%. Soprattutto dopo il 1920 era crollato drammaticamente. Tra il 1900 e il 1960 la classe d’età da 0 a 15 anni era scesa dal 40,55% al 31,3%, mentre era quasi raddoppiata dal 5,8% al 10,4% quella delle persone di 65 e più anni.
Rischio di un «suicidio collettivo»? (1938)
Con lo scoppio della seconda guerra mondiale, la situazione della denatalità divenne ancor più preoccupante, perché sembrava mettere a rischio il futuro stesso dell’esercito e dello stato sociale. Il consigliere federale Philippe Etter, cattolico molto conservatore, definì la denatalità come un «problema nazionale» (1938). L’esposizione nazionale del 1939 divenne un’occasione straordinaria per richiamare l’attenzione del popolo svizzero sul rischio di un «suicidio collettivo». Attraverso, conferenze, discorsi, opuscoli e la radio, sotto la guida del Consigliere federale Philip Etter, fu diffuso il messaggio che un popolo senza bambini era votato alla morte, che la sorgente della vita si esauriva, soprattutto nelle città, che era necessaria una «offensiva della vita» affinché la Svizzera non sparisse.
A differenza delle buone maniere di Monsignor Bagnasco, che fa appello soprattutto «ai responsabili della cosa pubblica» perché mettano in essere politiche familiari adeguate e rispettose delle donne lavoratrici, in quegli anni di guerra, soprattutto negli ambienti cattolici si cercava di addossare le responsabilità dirette della denatalità in Svizzera non tanto allo Stato quanto piuttosto ai cittadini… irresponsabili. Alle donne soprattutto veniva rimproverato di ambire a una vita comoda e lussuosa («ein bequemes luxuriöses Leben»), di preferire allo spirito materno lo spirito del tempo che andava piuttosto in direzione dell’emancipazione della donna, della promozione professionale delle donne, ecc. Non si perdeva perciò occasione di ricordare l’ideale della donna svizzera e di esaltarne il ruolo come «casalinga, madre e moglie virtuosa». Agli uomini, allora ben occupati con la guerra, più che muovere rimproveri, si preferiva generalmente ricordare la loro forza procreativa!
Per capire lo spirito di quel tempo e la concezione della donna in particolare, mi sembra utile ricordare che proprio nel 1939, l’anno dell’esposizione nazionale, il Consiglio federale decise di destinare «alle madri bisognose» il ricavato del «Dono nazionale svizzero», una fondazione benefica istituita nel 1919 «per i nostri soldati e le loro famiglie».
Facendo proprio il «nobilissimo appello al popolo svizzero» del Presidente della Confederazione Philippe Etter, il Comitato ticinese del Dono nazionale 1939, rivolgendosi ai ticinesi, giustificava la destinazione del Dono di quell’anno dicendo «che la madre questo aiuto lo merita e per se stessa e nell’interesse di una generazione sana e robusta». Poi continuava: «Non è forse la madre che si logora troppo spesso la vita, specialmente se priva di mezzi, per mettere al mondo e per allevare i propri figli, facendo rinunzie, soffrendo il freddo e la fame per nulla lasciar mancare a quelle boccucce che reclamano sempre, anche quando (e specialmente allora) la madre non ha più niente da dare?». E concludeva: «Dare la possibilità alla madre nel bisogno di nutrirsi, di curarsi e di riposarsi sufficientemente per poter procurare alla famiglia ed alla Patria dei figli rigogliosi già fin dalla nascita, darle i mezzi per nutrirli, vestirli, riscaldarli e mantenerli forti e buoni questi futuri cittadini; darle la possibilità di una vita lunga per poter essere di guida fino all'età matura a chi sarà la nuova madre ed il novello padre; darle il conforto di gustare il meritato riposo e il sorriso e le carezze dei nipotini, ecco ciò che si prefigge il Dono Nazionale di quest'anno, ecco perché il nostro Consiglio Federale ha voluto che il provento fosse destinato alle madri bisognose. (…)».
Poiché la denatalità continuava, continuavano anche gli appelli per una «restaurazione della famiglia». Nel 1941, ancora il consigliere federale Philippe Etter andava ripetendo che «la denatalità è la conseguenza d’una convinzione troppo individualista e materialista della vita, che noi confondiamo troppo spesso con il progresso e la civilizzazione. Un popolo virile dev’esserlo nel senso pieno del termine, virile anche là dove virilità significa potenza creativa e sacra».
Altri tempi?
Certamente sì e possiamo rallegrarcene. In fondo, la Svizzera è scampata bene da quella «morte sorniona» che sembrava minacciarla alla fine degli anni Trenta. E nessuno sembra dolersi che a contribuire al cambiamento siano stati anche gli stranieri, gli immigrati. Quanto all’Italia, credo che ne uscirà bene. In fondo, l’istinto della sopravvivenza è fondamentale tanto negli individui quanto nei gruppi sociali. E forse i bambini torneranno ad essere un bel dono di Dio!
Giovanni Longu
16.6.2010