Con la legge sugli
stranieri del 1931, molti ambienti economici, sindacali e politici si sentirono
al sicuro da una possibile «invasione» di stranieri: le frontiere si sarebbero
aperte secondo i bisogni dell’economia, ma avrebbero potuto rimanere semiaperte
nei casi di un reale pericolo d’inforestierimento o di una grave crisi
economica. Già nel 1933 il Consiglio federale aveva invitato i Cantoni a
vegliare sulla situazione del mercato del lavoro e sul collocamento.
Nell’occupazione dei posti liberi la precedenza doveva essere accordata ai
lavoratori indigeni e agli stranieri domiciliati. Finita la guerra, tuttavia,
il problema non si poneva più perché l’economia svizzera aveva interamente
prosciugato il mercato del lavoro interno e abbisognava nuovamente di
manodopera supplementare straniera.
Il nuovo quadro giuridico

La legge era chiara:
«l’autorità decide liberamente» e pertanto lo straniero non ha alcun diritto al
permesso di dimora o di domicilio (art. 4). Nessuno poteva soggiornare e
lavorare in Svizzera senza un regolare permesso di soggiorno. Di regola, per i
nuovi immigrati per motivi di lavoro, questo era temporaneo, stagionale o
annuale. Quando questo scadeva e non veniva rinnovato, l’immigrato doveva
accettare la decisione dell’autorità e rientrare in patria: non aveva infatti
alcun diritto di restare in Svizzera. Nemmeno il permesso di domicilio dei
residenti stranieri stabili era irrevocabile, in quanto anche i domiciliati
potevano essere espulsi, per gravi motivi.
Sempre per la stessa
legge, le autorità erano tenute a concedere i permessi tenendo conto degli
«interessi morali ed economici del Paese nonché dell’eccesso della popolazione
straniera». Questa disposizione imponeva non solo di tener sempre presente le
esigenze dell’economia, ma anche della società (equilibrio tra popolazione
svizzera e stranieri per scongiurare l’inforestierimento). Per esempio, non si
dovevano reclutare soltanto scapoli (che avrebbero finito per sposare donne
svizzere, rendendo quasi impossibile il rimpatrio) o solo persone sposate
(perché i problemi dei ricongiungimenti familiari erano di difficile soluzione,
non da ultimo per la penuria di alloggi, ma anche le questioni morali che
poneva la separazione della famiglia).
Oltre che a queste
disposizioni di legge, i lavoratori immigrati stagionali e annuali, almeno nei
primi anni di soggiorno in Svizzera, erano sottoposti a numerose limitazioni.
Senza un’autorizzazione non avevano diritto di cambiare posto di lavoro, professione,
Cantone e, se sposati, di farsi raggiungere dai familiari. Le condizioni di
lavoro, salariali, abitative e sociali, pur essendo azzardato considerarle
sistematicamente discriminatorie o peggiori di quelle degli svizzeri, non c’è
dubbio ch’esse erano gravate da molti condizionamenti (come risulterà meglio in
una prossima trattazione separata e contestualizzata).
La Svizzera chiamò e l’Italia rispose
Alla fine della
guerra, la Svizzera, risparmiata dalle distruzioni belliche, conservava un
apparato produttivo quasi intatto. Venne immediatamente sollecitato a produrre
sempre più per soddisfare la crescente domanda sia interna che esterna, ma la
carenza di manodopera indigena, manifestatasi già durante la guerra (nel 1945
la disoccupazione era lo 0,3% della popolazione attiva), rappresentava un
freno.
In seguito
all’insistente richiesta degli ambienti economici perché venisse autorizzato il
reclutamento di manodopera estera, nell’autunno del 1945 il Consiglio federale
acconsentì a prendere contatto con tutti i Paesi confinanti, ma poneva agli
incaricati delle trattative precise condizioni. La prima era di
tener conto delle eventuali difficoltà che si sarebbero potute avere tra
qualche anno se si fosse voluto ridurre la manodopera estera in caso di
recessione. La seconda mirava ad assicurarsi che quanti fossero venuti
in Svizzera avessero potuto senza difficoltà rientrare nuovamente al proprio
Paese. Una terza condizione mirava ad ottenere dai Paesi contraenti il
consenso e la possibilità di scegliere la manodopera. In pratica si voleva
impedire il più possibile una lunga permanenza degli stranieri in Svizzera e la
possibilità di attingere liberamente al mercato del lavoro dei Paesi
contraenti.
Sulla base di questi
principi, già nell’ottobre 1945 la Svizzera aveva preso contatto con i Paesi
confinanti, ma né la Germania né l’Austria avevano fornito alcuna garanzia in
quanto le potenze occupanti non autorizzavano alla manodopera locale di andare
a lavorare all’estero e altrettanto faceva la Francia per ragioni interne. Solo
l’Italia si dichiarò disponibile e tanto bastò perché divenisse il
principale Paese di reclutamento della manodopera straniera della Svizzera
almeno fino agli anni Settanta.
A questo punto, credo
che sorgano spontanee alcune domande. Anzitutto: perché solo l’Italia?
Inoltre: le autorità italiane erano al corrente della politica immigratoria
svizzera, del nuovo quadro giuridico degli stranieri e in particolare delle
limitazioni che si ponevano alla libera immigrazione prevista dal Trattato del
1868 ancora in vigore? Perché si è giunti a un Accordo bilaterale
sull’immigrazione solo nel 1948? E fu un buon accordo? Infine: perché nel
dopoguerra milioni di italiani vennero in Svizzera per lavorare? Le risposte
seguiranno. (Segue).
Giovanni Longu
Berna, 12.04.2017
Berna, 12.04.2017