25 marzo 2022

Ucraina-Russia: la questione linguistica e della neutralità

Tra i numerosi interventi sulla guerra in Ucraina, molti vedono nell’invasione russa dell’Ucraina un «attacco alla democrazia» e all'Occidente. Trattandosi di opinioni, tutte meritano rispetto. La mia opinione l’ho già espressa, ma desidero ribadire che la guerra bisognerebbe cercare di evitarla prima che scoppi e finirla il più presto possibile se malauguratamente è scoppiata. In questi giorni mi sono chiesto più volte se anche questa tremenda guerra avrebbe potuto essere evitata, anche col contributo determinante delle democrazie occidentali. La risposta, affermativa, mi è venuta quasi spontanea alla luce della storia di questo Paese, la Svizzera, che, per quanto possa essere criticato e io stesso l’abbia più volte criticato, è ritenuta una delle più antiche democrazie del mondo.

Le domande

Le domande insistenti a cui desideravo dare una risposta sono sostanzialmente tre:

1. La Russia di Putin avrebbe invaso l’Ucraina se questo Paese avesse garantito una adeguata autonomia alle regioni russofone?

2. La Russia di Putin avrebbe invaso l’Ucraina se questo Paese avesse dato segnali chiari di voler restare un Paese neutrale e quindi di non voler entrare a far parte della NATO?

3. La Russia di Putin avrebbe invaso l’Ucraina se questo Paese avesse cercato di rassicurare la Russia di voler mantenere buoni rapporti tra Paesi liberi che si rispettano?

So bene che le spiegazioni della guerra in corso sono piuttosto complesse e vanno ben aldilà della problematica che sollevano queste domande, ma non credo che possano essere considerate del tutto marginali. Ritengo anzi ch’esse meritino qualche considerazione, che faccio proprio alla luce della storia svizzera.

Considerazioni di merito

Circa la prima domanda, anzitutto va ricordato che in Ucraina il secondo gruppo etnico, con una percentuale considerevole, è costituito dai russi: 22,1% al censimento del 1989 e 17,2% al censimento del 2001. I russofoni risultano ancora più numerosi, perché nel 2001 costituivano il 29,6% della popolazione e in alcune regioni orientali e meridionali la maggioranza assoluta. Ciò nonostante, l’Ucraina ha dichiarato lingua ufficiale, anche in quelle regioni, solo l’ucraino e con una legge del 2019 intende «creare le condizioni adeguate per la protezione dei diritti e dei bisogni linguistici degli ucraini», limitando di fatto l’uso del russo in campo mediatico e didattico. La minoranza russofona si è lamentata in numerose occasioni di essere discriminata e Mosca ha più volte criticato il disinteresse della comunità internazionale di fronte a tale discriminazione.

La Svizzera, molto probabilmente, avrebbe risolto il problema in altra maniera. Basti pensare che l’italiano è lingua nazionale e ufficiale fin dal 1848, quando gli italofoni (ticinesi e poche migliaia di grigionesi) erano solo il 5,4%. Anche i ticinesi in più occasioni si sono sentiti culturalmente, linguisticamente ed economicamente discriminati, ma mai la Confederazione ha approvato una norma che mirasse a penalizzarli ulteriormente. Anzi, quando nel 1924-1926 le «rivendicazioni» ticinesi stavano per fornire un pretesto a Benito Mussolini, da poco al potere in Italia, per ingerirsi negli affari interni della Svizzera, il Consiglio federale si affrettò a dare ampia soddisfazione al Ticino. Fu deciso ad esempio di versare al Cantone un contributo non indifferente di 450.000 franchi l’anno per la difesa della lingua e della cultura italiane. Sta di fatto che il fascismo in Ticino, nonostante i cospicui aiuti finanziari inviati da Mussolini, ebbe uno scarsissimo seguito.

Nel dopoguerra, anche tra l’Italia e l’Austria si riuscì con un negoziato, condotto in parte anche in Svizzera, a risolvere pacificamente un problema analogo riguardante la minoranza tedescofona dell’Alto Adige. Nel trattato conclusivo l’Italia s’impegnava, fra l’altro, a ripristinare l’uso ufficiale del tedesco e del suo insegnamento e a concedere in quella regione l’esercizio del potere legislativo ed esecutivo autonomo. Nell'interesse reciproco di stabilire relazioni di buon vicinato tra entrambi i Paesi, le controversie restanti furono superate col dialogo e poi definitivamente con l’ingresso dell’Austria nell'Unione Europea. Non potrebbe/dovrebbe essere possibile anche tra la Russia e l’Ucraina?

Sulla seconda domanda bisogna ricordare che dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica l’Ucraina proclamò la propria indipendenza, ma si dichiarò al tempo stesso «Stato neutrale». L’attuale presidente Volodymyr Zelens'kyj non ha mai negato di voler richiedere l’adesione piena all'Unione Europea e alla NATO, e proprio in queste ultime settimane ha invocato più volte l’intervento della NATO a sostegno dell’Ucraina contro l’invasore russo.

La Svizzera, dal 1815, ha modificato in diverse occasioni la propria idea di Paese neutrale (adottando o non adottando sanzioni decise da altri Stati nei confronti di questo o quel Paese belligerante), ma si è sempre astenuta dal sostegno diretto (per esempio fornendo armi o concedendo il passaggio di materiale bellico o truppe sul suo territorio) di un belligerante contro un altro e non ha nemmeno mai aderito ad alcuna alleanza militare.

Non credo che si possa mettere in dubbio la legittimità di uno Stato sovrano di chiedere la sua adesione a un’alleanza anche militare di Stati, ma nel caso specifico la domanda concerne l’opportunità di farlo, per cui ritengo legittima la domanda: se l’Ucraina si fosse astenuta da questa pressante richiesta di adesione e di intervento della NATO, la Russia avrebbe ugualmente invaso l’Ucraina? E avrebbe rischiato l’ostracismo dal mondo occidentale?

Sulla terza domanda l’incertezza evidentemente non può essere superata, ma si può ben ritenere che un Paese neutrale come per esempio la Svizzera ha molte più probabilità di uno Stato schierato ad avere buone relazioni, non solo commerciali, con tutti i Paesi vicini. Lo scontro, invece, come quello in corso, rischia invece di avere conseguenze molto negative per generazioni.

Ma se non fare la guerra sarebbe convenuto a tutti, compresa l’Unione Europea, perché non tentare almeno di terminarla subito, immediatamente, e rimediare una pace in grado di garantire che nel futuro non si commetteranno mai più gli stessi errori?

Giovanni Longu
Berna, 25.03.2022

23 marzo 2022

Immigrazione italiana 1970-1990: 76. Considerazioni finali (2a parte)

L’immigrazione italiana in Svizzera durante il ventennio 1970-1990 sarebbe stata caratterizzata, stando ad alcune opere superficiali di critici frettolosi, dall'odio degli ambienti xenofobi nei confronti dei Gastarbeiter italiani. Nessuno studioso serio può negare l’incidenza dei movimenti xenofobi sul saldo migratorio negativo degli immigrati italiani a partire dai primi anni Settanta e sulla politica immigratoria svizzera. Tuttavia, a caratterizzare la popolazione immigrata nel periodo in esame non sono stati gli atteggiamenti e i comportamenti degli ambienti antistranieri, quanto piuttosto la sua radicale trasformazione in seguito ai profondi mutamenti intervenuti nella società, nella politica e nell'economia della Svizzera. L’immigrazione, inizialmente soprattutto italiana, non poteva non esserne coinvolta.

L’integrazione possibile e utile

Uno dei principali cambiamenti registrati nel periodo in esame (1970-1990) è stato sicuramente il miglioramento dei rapporti tra svizzeri e stranieri (italiani), a cui si è giunti gradualmente col progressivo ridimensionamento del sostegno popolare ai movimenti xenofobi, con l’affermarsi della nuova politica immigratoria federale incentrata sulla stabilizzazione e l’integrazione della popolazione straniera e con la crescente conoscenza e stima reciproca tra svizzeri e stranieri.Vi hanno contribuito anche, come illustrato in diversi articoli, la Commissione federale per i problemi degli stranieri, analoghe commissioni create a livello cantonale e comunale, gruppi di lavoro misti finalizzati alla soluzione di problemi particolari, l’apertura di numerose associazioni italiane alla partecipazione di membri svizzeri e viceversa, le commissioni miste di genitori di allievi della scuola obbligatoria, i matrimoni misti, il miglioramento delle conoscenze linguistiche sia degli stranieri che degli svizzeri, ecc.

Le varie iniziative in differenti campi (sociale, commerciale, sportivo, formativo, culturale, linguistico, ecc.) evidenziavano che l’integrazione era non solo possibile ma anche utile, perché facilitava la convivenza, stimolava la collaborazione, rafforzava l’italianità, diffondeva il Made in Italy, ecc. In più occasioni è stato citato l’esempio del CISAP nel settore della formazione professionale, perché costituiva un simbolo di quanto si poteva ottenere da una leale e fattiva collaborazione tra istanze svizzere e italiane. Infatti fu possibile realizzare una straordinaria piattaforma di successo professionale, economico e sociale per migliaia di immigrati e centinaia di giovani della seconda generazione. Furono molti a beneficiarne.

La spinta della seconda generazione

Com'è stato più volte ricordato, fino agli anni Settanta, tra gli immigrati italiani (prima generazione) era difficile non solo parlare d’integrazione (persino il termine era quasi sconosciuto), ma anche solo immaginarla. Mancava soprattutto la motivazione. Chiedersi «perché integrarsi?» era legittimo perché la stragrande maggioranza degli italiani emigrava in Svizzera non per restarci a vita, ma per lavorare, guadagnare e rientrare al più tardi all'età della pensione. Oltretutto, per lungo tempo il concetto d’integrazione veniva abbinato a quello di rinuncia, come se per rassomigliare agli svizzeri bisognasse imitarli e allo stesso tempo rinunciare ad atteggiamenti e comportamenti tipici italiani.

Questo atteggiamento di molti immigrati fu messo in crisi negli anni Settanta, quando l’avanzata della seconda generazione cominciò a porre seri problemi di scolarizzazione dei figli degli immigrati. A quelli numerosi già in Svizzera (nati negli anni Sessanta di forte natalità) si aggiungevano infatti continuamente nuovi arrivati dall'Italia grazie ai più facili ricongiungimenti familiari. La frequenza della scuola (ma quale scuola, quella italiana delle MCI o quella pubblica svizzera?) poneva inesorabilmente il problema del loro futuro, ma anche dell’intera famiglia: rientrare in Italia o restare in Svizzera? In questo caso il problema dell’integrazione diveniva ineludibile.

Per gli adolescenti si cominciava a porre anche il problema del futuro professionale, sia che si fosse programmato a breve termine il rientro in Italia e sia che si fosse deciso di restare in Svizzera. In questo caso, però, il tema dell’integrazione costringeva anche gli adulti (prima generazione) a un ripensamento serio della scelta migratoria. Per questo negli anni Settanta e Ottanta sorsero innumerevoli iniziative volte all'apprendimento della lingua locale (tedesco o francese) e al miglioramento delle capacità professionali.

Anni ’70, quando le associazioni italiane erano molto
attive e combattive (Corriere della Sera del 26.04.1970)
 
La seconda generazione diede una forte spinta anche al superamento di molti pregiudizi e al progressivo avvicinamento tra svizzeri e stranieri. L’asilo, la scuola, il tempo libero, le associazioni di genitori, le serate informative organizzate da enti pubblici e privati facilitavano gli incontri, la comunicazione, la conoscenza e la stima reciproca, il superamento di luoghi comuni. L’incomunicabilità stava finendo per migliaia di immigrati, anche se molti riuscivano a comunicare solo grazie ai loro figli.

Crisi dell’associazionismo

Soprattutto negli anni Ottanta cominciò a entrare in crisi anche l’associazionismo, che fino ad allora aveva dato una soluzione proprio ai problemi dell’incomunicabilità e dell’isolamento. Le associazioni, infatti, erano riuscite a ricreare su tutto il territorio svizzero lembi d’Italia, in cui era possibile incontrarsi, parlare liberamente l’italiano e persino il proprio dialetto, discutere e coltivare amicizie, estraniarsi dai crucci quotidiani e dalla sensazione di sentirsi sfruttati e maltrattati, rivivere usanze e tradizioni paesane e regionali, adottare la cucina «nostrana» (solleticando anche il palato di molti svizzeri), organizzare feste, ecc.

Le associazioni erano divenute così bene organizzate e in certa misura autosufficienti da riuscire a soddisfare direttamente o indirettamente quasi tutti i bisogni sociali dei connazionali, dall'asilo alla scuola dell'obbligo, dalla ricreazione all'impegno sociale, dall'assistenza alla politica, dallo sport all'arte, dalla cultura alla beneficenza. Persino i bisogni religiosi venivano soddisfatti in italiano grazie alle numerose Missioni cattoliche italiane, che oltre i servizi religiosi gestivano servizi sociali, mense, asili, scuole, ecc.

A pochi dirigenti delle associazioni italiane attive nel periodo in esame dev'essere venuto in mente che tra i principali bisogni degli immigrati sarebbe divenuto fondamentale quello dell’apertura, della comunicazione col mondo esterno, quello svizzero, e dell’integrazione nella società locale. Di fatto pochissime associazioni se ne resero conto, CISAP in primis, e agirono di conseguenza. Molte altre, più o meno inconsapevolmente, anche perché non riuscivano a garantirsi un ricambio generazionale, finirono per esaurirsi e scomparire.

La lotta per la rappresentanza

Alle ultime elezioni dei Comites svizzeri (3.12.2021) 
solo poche migliaia di italiani li hanno votati.

Negli anni Ottanta, venendo meno le necessità originarie dell’associazionismo tradizionale, alcune associazioni riuscirono a garantirsi la sopravvivenza trasformandosi in organizzazioni ben caratterizzate ideologicamente e politicamente, orientate prettamente all'Italia. Se nell'associazionismo tradizionale lo scopo era quello di contribuire a risolvere i problemi reali vissuti dagli immigrati e dai loro figli per vivere meglio in Svizzera, in queste nuove associazioni a dominare sarà sempre più il tentativo di rafforzare la propria influenza in vista delle votazioni italiane (soprattutto dopo l’introduzione del diritto di voto all'estero) e delle elezioni dei rappresentanti degli italiani all'estero nel Parlamento italiano (dopo il 2000).

Questo potrebbe spiegare perché dagli anni Ottanta il massimo sforzo dell’associazionismo italiano in Svizzera sia stato quello di acquisire e mantenere posizioni dominanti nelle principali associazioni rimaste, nei cosiddetti organismi di rappresentanza (Comites e CGIE) e nell'elezione dei rappresentanti degli italiani all'estero nel Parlamento italiano. Tuttavia, poiché anche in questi organismi è quasi del tutto assente l’elemento giovanile, per disinteresse o forse per rifiuto, è lecito chiedersi chi può ancora rappresentare sia in Svizzera che in Italia la seconda e terza generazione.

Per di più, le associazioni rimaste sono poche e non sembrano molto vitali. Alcune sopravvivono per inerzia (perché legate a una forte tradizione come le Colonie libere italiane, le ACLI e qualche altra) o perché ancorate a una sede propria (Case d’Italia, Missioni cattoliche italiane), altre perché finanziate dall'Italia (patronati) o autofinanziate (ECAP, UNITRE, alcune associazioni sportive …) e altre ancora perché possono contare su un sodalizio elitario (per es. Società Dante Alighieri).

Purtroppo, dagli anni Novanta, come si vedrà meglio in seguito, nel mondo associazionistico sarà sempre più evidente l’assenza delle associazioni riguardanti, specialmente come protagonisti, la seconda e terza generazione e i doppi cittadini italiani e svizzeri. Eppure saranno proprio loro che garantiranno l’italianità soprattutto al di fuori della Svizzera italiana. (Fine)

Giovanni Longu
Berna 23.03.2022

22 marzo 2022

Guerra in Ucraina: pace subito!

Premetto che sono contro qualsiasi guerra e non credo che esista la guerra «giusta». Pertanto, nel caso specifico della guerra in Ucraina, non giustifico in alcun modo l’aggressione russa, ma non mi schiero nemmeno con coloro che sostengono che gli invasi debbano proseguire a oltranza la guerra contro gli invasori. Non condivido nemmeno il punto di vista di coloro che ritengono «giusto» inviare agli ucraini armi «letali» per difendersi meglio uccidendo più soldati russi. Sono, infine, per ragioni di civiltà prima ancora che cristiane, per il rispetto assoluto della vita, di qualunque vita umana, anche quella dei nemici, perché «la vita umana è sacra… e solo Dio è il Signore della vita dal suo inizio alla sua fine» (Catechismo della chiesa cattolica). Diversamente si ritorna alla barbarie.


Ciò premesso, comprendo che sull'attuale guerra in Ucraina, il mondo occidentale si sia schierato nella stragrande maggioranza contro i russi perché invasori e a favore degli ucraini perché invasi; ma avrei preferito che la stragrande maggioranza si fosse pronunciata contro il proseguimento della guerra ad oltranza e a favore di un cessate il fuoco immediato e della pace. La guerra, infatti, fa solo vittime, sia ucraini che russi, e anche solo per questo motivo andrebbe fermata. Se la vita dei soldati e dei civili ucraini è sacra, quella dei soldati russi non è meno sacra. Ogni guerra è disumana.

Decisioni sciagurate e ingiuste

Purtroppo, però, le guerre continuano a mietere vittime, segno che l’umanità non le ha ancora estromesse dall'inventario delle soluzioni possibili per risolvere le controversie tra i popoli. Non solo, a seguito della guerra in Ucraina, molti Paesi occidentali in queste settimane hanno deciso di aumentare notevolmente le spese militari, ritenendole utili e necessarie. Trovo tali decisioni sciagurate e ingiuste. Dopo la tremenda pandemia, per altro non ancora definitivamente superata, tutti gli Stati avrebbero fatto bene a investire in salute, non in armi. Oltretutto si tratta di soldi pubblici, che andrebbero dunque spesi per il bene pubblico, non per minacce ipotetiche. Una tale distrazione di risorse potrebbe configurarsi come un furto ai danni del Popolo, che ha bisogno di pace, non di guerre.

Eppure, persino l’Italia, che per la sua Costituzione è contro la guerra «come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali», ha deciso di schierarsi e di inviare armi a sostegno di uno dei due belligeranti. E anche la Svizzera, nonostante la sua vantata neutralità, in questa guerra ha preferito schierarsi con una parte piuttosto che intervenire decisamente per risolvere pacificamente le controversie tra Russia e Ucraina. Se la posizione dell’Italia mi scandalizza, perché l’articolo 11 della Costituzione mi sembra chiaramente contro la guerra, la posizione della Svizzera mi sorprende, negativamente, per le ragioni seguenti.

Svizzera sorprendente, in negativo

Anzitutto vorrei ricordare che nel 2014, quando venne firmato il famoso Protocollo di Minsk (5 settembre 2014) tra Ucraina, Russia e le repubbliche secessioniste di Doneck e Lugansk sotto l’egida dell’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (OSCE), alla presidenza dell’OSCE c’era la Svizzera (con il consigliere federale Didier Burkhalter come presidente) e nei negoziati la rappresentante dell’OSCE era l’ambasciatrice svizzera di origine italiana Heidi Tagliavini. Qualche giorno dopo la firma del Protocollo (che prevedeva fra l’altro l’impegno dell’Ucraina a garantire il decentramento e maggiori poteri alle regioni di Doneck e Lugansk), il presidente Burkhalter aveva dichiarato che il successo dell’accordo sarebbe dipeso soprattutto dal dialogo tra la Russia e l’Ucraina e la Svizzera era pronta «a facilitare e ospitare qualsiasi incontro tra Ucraina e Russia a livello presidenziale».

Non so se la Svizzera ha svolto bene il suo ruolo, ma di fatto gli accordi di Minsk non sono stati rispettati, nessuno li ha fatti rispettare e il mancato dialogo tra Russia e Ucraina è stato sostituito da una guerra fratricida che ha già provocato migliaia di morti e feriti, milioni di profughi e devastazioni incalcolabili. Eppure, stando alle cronache e a certi discorsi presidenziali insensati, si vorrebbe proseguire nella guerra ad oltranza. Che oltraggio ai rispettivi popoli, che dalla guerra hanno solo da perdere.

Un'altra ragione è di carattere storico, anche se la storia in questo campo non insegna molto, sebbene quella svizzera sia emblematica perché dimostra che, quando la guerra non può essere prevenuta perché già in corso, dev'essere terminata il più in fretta possibile per limitare le conseguenze negative e concludere una pace «giusta», ossia sanzionatoria ma non vendicativa.

Gen. Guillaume-Henri Dufour (1787-1875)
Nel 1847, quando i Cantoni cattolici, desiderosi di una maggiore autonomia in seno alla vecchia Confederazione, ebbero la cattiva idea di conquistarsela con le armi. Costituirono una «Lega separata» (Sonderbund) e dichiararono guerra ai Cantoni protestanti ritenuti prepotenti. Questi, però, costituirono a loro volta un «esercito federale» che non impiegò molto tempo (25 giorni) né molte milizie, ma ben equipaggiate, per sconfiggere i «ribelli». Fortunatamente ci furono pochi morti (98 in entrambe le parti) e pochi danni, ma il rischio che in futuro potessero scoppiare altre guerre non era stato sconfitto.

Fu al momento della pace che la diplomazia e il buon senso (accoppiata sempre vincente) presero il sopravvento e meriterebbero ancora oggi una qualche attenzione. Il vero vincitore, il generale Guillaume-Henri Dufour, pretese infatti che le condizioni di pace fossero giuste ma al tempo stesso onorevoli per i vinti (i vincitori non dovevano infierire sui vinti, evitando sanzioni umilianti) ed egli stesso si fece promotore di una riconciliazione e di una nuova Costituzione federale, garante, per esempio, della sovranità di tutti i Cantoni del nuovo Stato federale. La Svizzera di oggi, si è dimenticata della sua nascita?

Attenti alla pace!

Poiché anche la guerra in Ucraina prima o poi finirà, bisognerà stare particolarmente attenti alle condizioni di pace, che dovranno essere giuste e moderate in modo da evitare altri rischi di guerre e garantire la coesistenza pacifica, il dialogo e la collaborazione tra le parti, evitando il più possibile interferenze esterne ingiustificate. L’esempio svizzero potrebbe anche insegnare che la migliore garanzia di una convivenza è l’autonomia più ampia possibile di tutti i popoli-nazione in uno Stato federale.

Da parte mia, auspico che si estenda il più possibile il fronte di chi ritiene anche l’attuale guerra non solo inutile, ma anche «ingiusta», sia da parte dell’aggressore che da parte dell’aggredito, perché non ritengo lecito utilizzare il popolo, in divisa o senza, come arma di attacco o di difesa in una guerra insensata perché esistono altri modi ben più efficaci per risolvere le controversie internazionali e i diritti dei popoli-nazione.

Per queste ragioni ritengo che soprattutto l’Italia, conformemente allo spirito dell’articolo 11 della Costituzione, e la Svizzera, conformemente alla sua storia di convivenza e di neutralità dovrebbero fare di più e subito per far cessare la guerra e garantire una pace giusta e duratura.

Giovanni Longu
Berna, 22.3.2022