23 marzo 2022

Immigrazione italiana 1970-1990: 76. Considerazioni finali (2a parte)

L’immigrazione italiana in Svizzera durante il ventennio 1970-1990 sarebbe stata caratterizzata, stando ad alcune opere superficiali di critici frettolosi, dall'odio degli ambienti xenofobi nei confronti dei Gastarbeiter italiani. Nessuno studioso serio può negare l’incidenza dei movimenti xenofobi sul saldo migratorio negativo degli immigrati italiani a partire dai primi anni Settanta e sulla politica immigratoria svizzera. Tuttavia, a caratterizzare la popolazione immigrata nel periodo in esame non sono stati gli atteggiamenti e i comportamenti degli ambienti antistranieri, quanto piuttosto la sua radicale trasformazione in seguito ai profondi mutamenti intervenuti nella società, nella politica e nell'economia della Svizzera. L’immigrazione, inizialmente soprattutto italiana, non poteva non esserne coinvolta.

L’integrazione possibile e utile

Uno dei principali cambiamenti registrati nel periodo in esame (1970-1990) è stato sicuramente il miglioramento dei rapporti tra svizzeri e stranieri (italiani), a cui si è giunti gradualmente col progressivo ridimensionamento del sostegno popolare ai movimenti xenofobi, con l’affermarsi della nuova politica immigratoria federale incentrata sulla stabilizzazione e l’integrazione della popolazione straniera e con la crescente conoscenza e stima reciproca tra svizzeri e stranieri.Vi hanno contribuito anche, come illustrato in diversi articoli, la Commissione federale per i problemi degli stranieri, analoghe commissioni create a livello cantonale e comunale, gruppi di lavoro misti finalizzati alla soluzione di problemi particolari, l’apertura di numerose associazioni italiane alla partecipazione di membri svizzeri e viceversa, le commissioni miste di genitori di allievi della scuola obbligatoria, i matrimoni misti, il miglioramento delle conoscenze linguistiche sia degli stranieri che degli svizzeri, ecc.

Le varie iniziative in differenti campi (sociale, commerciale, sportivo, formativo, culturale, linguistico, ecc.) evidenziavano che l’integrazione era non solo possibile ma anche utile, perché facilitava la convivenza, stimolava la collaborazione, rafforzava l’italianità, diffondeva il Made in Italy, ecc. In più occasioni è stato citato l’esempio del CISAP nel settore della formazione professionale, perché costituiva un simbolo di quanto si poteva ottenere da una leale e fattiva collaborazione tra istanze svizzere e italiane. Infatti fu possibile realizzare una straordinaria piattaforma di successo professionale, economico e sociale per migliaia di immigrati e centinaia di giovani della seconda generazione. Furono molti a beneficiarne.

La spinta della seconda generazione

Com'è stato più volte ricordato, fino agli anni Settanta, tra gli immigrati italiani (prima generazione) era difficile non solo parlare d’integrazione (persino il termine era quasi sconosciuto), ma anche solo immaginarla. Mancava soprattutto la motivazione. Chiedersi «perché integrarsi?» era legittimo perché la stragrande maggioranza degli italiani emigrava in Svizzera non per restarci a vita, ma per lavorare, guadagnare e rientrare al più tardi all'età della pensione. Oltretutto, per lungo tempo il concetto d’integrazione veniva abbinato a quello di rinuncia, come se per rassomigliare agli svizzeri bisognasse imitarli e allo stesso tempo rinunciare ad atteggiamenti e comportamenti tipici italiani.

Questo atteggiamento di molti immigrati fu messo in crisi negli anni Settanta, quando l’avanzata della seconda generazione cominciò a porre seri problemi di scolarizzazione dei figli degli immigrati. A quelli numerosi già in Svizzera (nati negli anni Sessanta di forte natalità) si aggiungevano infatti continuamente nuovi arrivati dall'Italia grazie ai più facili ricongiungimenti familiari. La frequenza della scuola (ma quale scuola, quella italiana delle MCI o quella pubblica svizzera?) poneva inesorabilmente il problema del loro futuro, ma anche dell’intera famiglia: rientrare in Italia o restare in Svizzera? In questo caso il problema dell’integrazione diveniva ineludibile.

Per gli adolescenti si cominciava a porre anche il problema del futuro professionale, sia che si fosse programmato a breve termine il rientro in Italia e sia che si fosse deciso di restare in Svizzera. In questo caso, però, il tema dell’integrazione costringeva anche gli adulti (prima generazione) a un ripensamento serio della scelta migratoria. Per questo negli anni Settanta e Ottanta sorsero innumerevoli iniziative volte all'apprendimento della lingua locale (tedesco o francese) e al miglioramento delle capacità professionali.

Anni ’70, quando le associazioni italiane erano molto
attive e combattive (Corriere della Sera del 26.04.1970)
 
La seconda generazione diede una forte spinta anche al superamento di molti pregiudizi e al progressivo avvicinamento tra svizzeri e stranieri. L’asilo, la scuola, il tempo libero, le associazioni di genitori, le serate informative organizzate da enti pubblici e privati facilitavano gli incontri, la comunicazione, la conoscenza e la stima reciproca, il superamento di luoghi comuni. L’incomunicabilità stava finendo per migliaia di immigrati, anche se molti riuscivano a comunicare solo grazie ai loro figli.

Crisi dell’associazionismo

Soprattutto negli anni Ottanta cominciò a entrare in crisi anche l’associazionismo, che fino ad allora aveva dato una soluzione proprio ai problemi dell’incomunicabilità e dell’isolamento. Le associazioni, infatti, erano riuscite a ricreare su tutto il territorio svizzero lembi d’Italia, in cui era possibile incontrarsi, parlare liberamente l’italiano e persino il proprio dialetto, discutere e coltivare amicizie, estraniarsi dai crucci quotidiani e dalla sensazione di sentirsi sfruttati e maltrattati, rivivere usanze e tradizioni paesane e regionali, adottare la cucina «nostrana» (solleticando anche il palato di molti svizzeri), organizzare feste, ecc.

Le associazioni erano divenute così bene organizzate e in certa misura autosufficienti da riuscire a soddisfare direttamente o indirettamente quasi tutti i bisogni sociali dei connazionali, dall'asilo alla scuola dell'obbligo, dalla ricreazione all'impegno sociale, dall'assistenza alla politica, dallo sport all'arte, dalla cultura alla beneficenza. Persino i bisogni religiosi venivano soddisfatti in italiano grazie alle numerose Missioni cattoliche italiane, che oltre i servizi religiosi gestivano servizi sociali, mense, asili, scuole, ecc.

A pochi dirigenti delle associazioni italiane attive nel periodo in esame dev'essere venuto in mente che tra i principali bisogni degli immigrati sarebbe divenuto fondamentale quello dell’apertura, della comunicazione col mondo esterno, quello svizzero, e dell’integrazione nella società locale. Di fatto pochissime associazioni se ne resero conto, CISAP in primis, e agirono di conseguenza. Molte altre, più o meno inconsapevolmente, anche perché non riuscivano a garantirsi un ricambio generazionale, finirono per esaurirsi e scomparire.

La lotta per la rappresentanza

Alle ultime elezioni dei Comites svizzeri (3.12.2021) 
solo poche migliaia di italiani li hanno votati.

Negli anni Ottanta, venendo meno le necessità originarie dell’associazionismo tradizionale, alcune associazioni riuscirono a garantirsi la sopravvivenza trasformandosi in organizzazioni ben caratterizzate ideologicamente e politicamente, orientate prettamente all'Italia. Se nell'associazionismo tradizionale lo scopo era quello di contribuire a risolvere i problemi reali vissuti dagli immigrati e dai loro figli per vivere meglio in Svizzera, in queste nuove associazioni a dominare sarà sempre più il tentativo di rafforzare la propria influenza in vista delle votazioni italiane (soprattutto dopo l’introduzione del diritto di voto all'estero) e delle elezioni dei rappresentanti degli italiani all'estero nel Parlamento italiano (dopo il 2000).

Questo potrebbe spiegare perché dagli anni Ottanta il massimo sforzo dell’associazionismo italiano in Svizzera sia stato quello di acquisire e mantenere posizioni dominanti nelle principali associazioni rimaste, nei cosiddetti organismi di rappresentanza (Comites e CGIE) e nell'elezione dei rappresentanti degli italiani all'estero nel Parlamento italiano. Tuttavia, poiché anche in questi organismi è quasi del tutto assente l’elemento giovanile, per disinteresse o forse per rifiuto, è lecito chiedersi chi può ancora rappresentare sia in Svizzera che in Italia la seconda e terza generazione.

Per di più, le associazioni rimaste sono poche e non sembrano molto vitali. Alcune sopravvivono per inerzia (perché legate a una forte tradizione come le Colonie libere italiane, le ACLI e qualche altra) o perché ancorate a una sede propria (Case d’Italia, Missioni cattoliche italiane), altre perché finanziate dall'Italia (patronati) o autofinanziate (ECAP, UNITRE, alcune associazioni sportive …) e altre ancora perché possono contare su un sodalizio elitario (per es. Società Dante Alighieri).

Purtroppo, dagli anni Novanta, come si vedrà meglio in seguito, nel mondo associazionistico sarà sempre più evidente l’assenza delle associazioni riguardanti, specialmente come protagonisti, la seconda e terza generazione e i doppi cittadini italiani e svizzeri. Eppure saranno proprio loro che garantiranno l’italianità soprattutto al di fuori della Svizzera italiana. (Fine)

Giovanni Longu
Berna 23.03.2022

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