Dei «bambini clandestini» in Svizzera si è detto negli
articoli precedenti che nella stragrande maggioranza non erano figli di genitori
stagionali e che il loro numero era di poche migliaia al massimo (se considerati
contemporaneamente nel corso di un anno determinato, molti di più sommando
tutti i clandestini, anche per periodi brevi, nell’arco di due-tre decenni). Si
è anche detto che questi bambini vanno considerati «vittime innocenti di un
sistema emigratorio e immigratorio legittimo ma per certi versi disumano». Detto così, si rischia però di rinunciare a un’analisi più
approfondita del fenomeno e all’individuazione delle responsabilità. Contro
questo rischio s’intende di seguito riconsiderare criticamente il contesto
emigratorio/immigratorio del ventennio 1970-1990 e cercare di individuare eventuali
responsabilità nei confronti di quelle piccole vittime innocenti.
Il contesto generale
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Nicoletta
Bortolotti in «Chiamami sottovoce» (2018) rievoca la situazione dei «bambini proibiti» soffermandosi più sugli aspetti psicologici che su quelli storico-sociali. |
La politica emigratoria italiana del dopoguerra, per
quanto legittimata dalle necessità economiche e sociali del Paese in quel
periodo e dal consenso generale di tutte le principali forze politiche, non è
stata in grado di tutelare «il lavoro italiano all’estero» (art. 35 Cost.). Di
fatto ha solo riconosciuto e persino agevolato (!) la «libertà di emigrazione»,
ma non ha vigilato attentamente sull’applicazione corretta degli accordi con la
Svizzera del 1948 e 1964.
Anche la politica immigratoria svizzera, sia pure
fondata sulla Costituzione federale, sulla legge sugli stranieri del 1931 e sugli
accordi bilaterali con l’Italia, per decenni è stata asservita agli interessi
dell’economia e sorda agli appelli che chiedevano maggiore attenzione alle
esigenze dei lavoratori immigrati e delle loro famiglie. Come Stato liberale,
la Svizzera ha ritenuto a lungo di non dover intervenire nel mercato del lavoro
se non per evitare grossi rischi economici e sociali e ha tollerato molti abusi,
trascurando sistematicamente per decenni una componente essenziale del
benessere svizzero ma considerata «straniera», cioè «estranea» alla società
svizzera.
Altrettanto legittima è stata la decisione di moltissimi
italiani di emigrare in Svizzera per un periodo breve (come stagionali) o
lungo (annuali). Con l’emigrazione di massa degli anni Sessanta, però, non
tutti si rendevano conto alla partenza dei problemi che avrebbero incontrato
all’arrivo e non tutti erano consapevoli che oltre alle condizioni del
contratto di lavoro andavano rispettate le leggi e le consuetudini del Paese di
destinazione. D’altra parte si sa o si dovrebbe sapere che «la legge non
ammette ignoranza» e che violarla può comportare sanzioni anche gravi.
Le responsabilità della politica emigratoria italiana
Le autorità diplomatiche e consolari italiane sapevano
certamente che dopo la conclusione dell’accordo italo-svizzero del 1964 c’erano
in Svizzera «bambini clandestini» (ossia fatti arrivare illegalmente dai
genitori senza aver chiesto e ottenuto preventivamente dalle autorità svizzere il
permesso al ricongiungimento familiare). E’ probabile, tuttavia, che non conoscessero
direttamente gli interessati e, anche conoscendoli, difficilmente avrebbero
potuto intervenire a loro favore.
Le autorità italiane sapevano però quasi certamente che molti
«bambini clandestini» non erano figli di stagionali regolari, ma di «falsi
stagionali» (che pur avendo uno statuto da stagionali di fatto restavano in
Svizzera ben aldilà dei nove mesi consentiti) e di annuali. L’Italia avrebbe
potuto e dovuto impegnarsi maggiormente per far eliminare questa falsa
categoria di immigrati e trasformare i «falsi stagionali» in regolari annuali
col diritto al ricongiungimento familiare, sia pure a determinate condizioni.
Molti figli di annuali subirono la condizione di
clandestinità perché ai genitori non veniva concesso il permesso di risiedere in
Svizzera con la famiglia non disponendo di un «alloggio adeguato» come previsto
dall’accordo italo-svizzero del 1964. Non risulta che le autorità italiane siano
state molto attive nella ricerca di abitazioni adeguate nemmeno per quei
connazionali che soddisfacevano tutte le altre condizioni per il
ricongiungimento familiare. Come non risulta ch’esse siano intervenute spesso
nel denunciare alle autorità competenti evidenti abusi nella pratica degli
affitti.
Le responsabilità della politica immigratoria svizzera
Sono quelle su cui si è concentrata maggiormente la critica
di coloro che si sono occupati del problema, spesso per altro in maniera
superficiale e unilaterale. Minimizzare le responsabilità delle autorità
svizzere sarebbe tuttavia un errore. Infatti, pur ammettendo la legittimità
dello statuto stagionale, esse hanno tollerato per troppo tempo i «falsi
stagionali» e ostacolato puntigliosamente nei loro confronti la trasformazione
del permesso stagionale in annuale. Bisogna dare atto però alle stesse autorità
di aver iniziato a porvi rimedio fin dal 1971.
Ben più complicata si presentava la questione dei «bambini
clandestini». Le leggi e gli accordi parlavano chiaro: il ricongiungimento
familiare era possibile solo a determinate condizioni. In punto di diritto, nessuno
straniero avrebbe dovuto contravvenire alle disposizioni vigenti al riguardo e
le autorità esecutive, se a conoscenza della violazione, non avevano altra
scelta che provvedere all’espulsione dei contravventori o invitarli entro un tempo
ragionevole a mettersi in regola.
Tuttavia, il compito della politica non è solo l’esecuzione
delle leggi e degli accordi, senza derogarvi, ma dovrebbe essere anche quello
di rimuovere gli ostacoli per evitare ai cittadini scelte drammatiche e disumane.
Sotto questo aspetto la politica immigratoria svizzera ha avuto molte
responsabilità perché, per esempio, non è stata in grado di attuare una
politica dell’alloggio che tenesse conto delle esigenze delle famiglie degli
immigrati. Sarebbe bastata, in molti casi, un’intesa tra autorità, datori di
lavoro e sindacati, per legare l’assunzione di stranieri con famiglia alla
messa a disposizione, a pigioni ragionevoli, di abitazioni adeguate.
Non va tuttavia dimenticato che nel periodo in questione il
potere d’intervento della politica nella sfera privata dei rapporti economici
tra cittadini era alquanto debole e limitato. Infine, andrebbe riconosciuto a
tutte le autorità svizzere, forse con poche eccezioni, che in materia di
espulsioni di «bambini clandestini» non sono state vessatorie. Se migliaia di
essi hanno potuto restare in Svizzera, sia pure tra notevoli privazioni, lo si
deve anche alla tolleranza delle autorità, che di solito intervenivano solo
dopo denunce di cittadini sospettosi e intolleranti.
Le responsabilità degli immigrati
Non sarebbe corretto, a questo punto, tacere le
responsabilità anche dei genitori dei «bambini clandestini». Si tratta, com’è
facile capire, di un tema estremamente delicato, a tal punto che quasi tutti
gli autori che hanno trattato della clandestinità infantile non l’hanno nemmeno
sfiorato. Hanno preferito, tanto ingenuamente quanto irresponsabilmente,
sovraccaricare le responsabilità delle autorità svizzere e, in parte minore, di
quelle italiane, senza mai indicare quali avrebbero potuto essere le
alternative praticabili.
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Recente
docufilm di Alessandra Rossi e Mario Maellaro sui «bambini nascosti» in Svizzera, da cui emerge chiaramente che quei bambini non dovevano trovarsi in quelle condizioni |
Sarebbe infinita la discussione se i singoli genitori di
questi bambini avessero buone ragioni per correre quel rischio, ma non si
possono assolvere in blocco invocando i diritti della famiglia, la durezza
della legge o «il bisogno di emigrare». Pur ammettendo le buone intenzioni di
tutti o di gran parte di quei genitori, sarebbe difficile dimostrare la
necessità del ricongiungimento familiare nel momento in cui è avvenuto e
l’impossibilità di ritardarlo magari di qualche mese in attesa di soddisfare
tutte le condizioni previste, come hanno fatto moltissimi altri genitori.
Resta il fatto che a pagarne le conseguenze sono stati
sempre bambini innocenti, costretti a vivere segregati in minuscoli
appartamenti e alloggi (spesso mansarde!) inadeguati, privati di molti diritti.
Non doveva accadere! Fortunatamente questa brutta esperienza non ha lasciato
tracce indelebili nella maggior parte degli ex-clandestini, perché molti di
essi sono stati in grado di controbilanciare la solitudine e la tristezza di
quella condizione con l’apprezzamento dei piccoli giochi, lo sviluppo della
fantasia, il godimento intenso dei momenti di intimità con i genitori al
rientro dal lavoro, delle passeggiate del fine settimana, ma anche della
solidarietà e della generosità di vicini di casa, stranieri e svizzeri, e di tanti
datori di lavoro pronti a «coprire» i loro dipendenti. (Fine)
Giovanni Longu
Berna, 18.03.2020
Berna, 18.03.2020