Nel periodo in esame, caratterizzato da una profonda trasformazione della popolazione italiana immigrata in Svizzera, mai prima di allora furono discussi tanto animatamente e diffusamente gli stessi concetti di emigrazione e immigrazione e i rapporti degli italiani qui residenti con l’Italia e con la Svizzera. Tanto più che, per la prima volta, gli immigrati (prima generazione) avvertivano chiaramente che il numero degli arrivi dall'Italia per motivi di lavoro tendeva inesorabilmente a diminuire, mentre quello degli italiani non immigrati, nati qui o venuti per ricongiungimento familiare (seconda generazione), non faceva che aumentare. La «svizzeritudine» di questi ultimi preoccupava non poco molti loro genitori e l’intero ambiente migratorio.
«Seconda generazione» contesa
A ben vedere, nella lunga storia dell’immigrazione italiana
in Svizzera, il problema si era presentato già altre volte e si era cercato di
risolverlo per così dire alla radice. Nell'Ottocento, per esempio, a parte le
difficoltà per ottenere la naturalizzazione (perché i criteri dei Cantoni e dei
Comuni per concederla o negarla erano ispirati spesso a interessi prettamente economici),
gran parte degli immigrati italiani non manifestava alcun interesse a cambiare
nazionalità, trovando più conveniente restare «stranieri» e «italiani». In
effetti, nell'arco di vent'anni, tra il 1885 e il 1905, solo 1751 italiani
chiesero ed ottennero la naturalizzazione (contro quasi 10.000 tedeschi).
All'inizio del Novecento, la situazione era pressoché
identica, ma cominciava a suscitare non poche preoccupazioni sia tra le
autorità svizzere che tra quelle italiane. Infatti, le prime ritenevano gli
italiani dei privilegiati (perché erano esentati dall'obbligo del servizio
militare e da altri obblighi) e consideravano i nati e cresciuti qui come dei
falsi stranieri, perché già «assimilati», come si diceva allora, e quindi da naturalizzare.
Tanto è vero che nel 1903 fu approvata una legge federale che autorizzava i
Cantoni a naturalizzarli «d’ufficio».
A loro volta, le autorità italiane consideravano i figli
degli italiani «troppo svizzeri» e cittadini persi per l’Italia. Il rappresentante
del Regno d’Italia Giuseppe De Michelis (1872-1951), primo «Regio Addetto
dell’emigrazione in Svizzera», vedendo crescere «con animo svizzero» questi
bambini se ne rammaricava perché «i padri loro non sanno e non possono
alimentare la fiamma dell’amor patrio colla storia del passato; lo ignorano.
Non possono insegnar loro la lingua; non la conoscono. Così vecchi e giovani
sono perduti per il paese nostro».
Una perdita per la patria?
Evidentemente, tanto le autorità svizzere quanto quelle
italiane non si rendevano conto che già allora nei figli degli stranieri nati e
cresciuti in questo Paese il concetto di «patria» stava cambiando, anche perché
lo vedevano troppo legato alla divisa militare che avrebbero dovuto indossare
per il servizio militare e magari per la guerra, come capiterà a moltissimi
italiani qualche anno più tardi.
Di fatto la seconda generazione continuerà a vivere a lungo
nell'incertezza della «patria» perché nessun Cantone approfittò della legge del
1903 e probabilmente nessun rappresentante italiano riuscì a far cambiare idea
a chi aspirava alla naturalizzazione. Per di più si cominciò a disputare quando
uno straniero poteva essere considerato assimilato, mettendo seriamente in
dubbio che bastasse nascere in Svizzera per essere considerato tale e
naturalizzabile. Forse anche per queste perplessità il numero delle
naturalizzazioni degli italiani restò molto basso fino alla fine degli anni
Sessanta, salvo alcune brevi eccezioni per evidenti ragioni di opportunità
durante la prima guerra mondiale (1915 al 1918: 6254 naturalizzazioni), durante
il periodo fascista (1930-1936: 10.050 naturalizzazioni) e durante la seconda
guerra mondiale (1940-44: 6808 naturalizzazioni).
Incertezza penalizzante
Questa specie di sospensione della patria dovuta sia alle
circostanze (emigrazione) che alla volontà politica della Svizzera (soprattutto
dopo l’adozione della legge sugli stranieri del 1931) deve aver pesato non poco
sulla seconda generazione degli anni Sessanta e Settanta. Molti racconti di
viaggi di vacanza specialmente nel Mezzogiorno evidenziano il disagio provato
da molti giovani di fronte alla realtà in gran parte sconosciuta del Paese
d’origine dei loro genitori. Tuttavia, in quegli anni, era sicuramente ancor
più profondo, perché più durevole, il disagio di tanti giovani che non si
sentivano pienamente accettati proprio qui, nel luogo dov'erano nati,
crescevano, cercavano amicizie, apprendevano lingua, cultura e tradizioni e
dove speravano di poter realizzare i sogni della propria vita.
Giuseppe De Michelis |
Comprensibile, dunque, lo stupore e la rabbia provata da
molti bambini nel sentirsi chiamare da compagni di scuola o di gioco Tschingge
come i loro genitori, pur non essendo immigrati, pur essendo (quasi) in tutto e
per tutto bambini come loro. E come non comprendere anche l’affiorare in molti
di essi un pericoloso complesso d’inferiorità nel costatare che le selezioni
scolastiche avvenivano molto spesso a loro sfavore, che nelle «classi speciali»
c’erano soprattutto loro, i figli degli immigrati, tra cui moltissimi italiani,
che gli insuccessi scolastici riguardassero soprattutto loro.
Comprensibile anche che molti giovani di seconda
generazione, prim'ancora di essere classificati da qualche osservatore
frettoloso appartenenti alla Weder-noch-Generation, provassero un grande
senso di frustrazione non sentendosi pienamente né italiani né svizzeri, né
carne né pesce. In effetti il loro equilibrio psicologico era messo a dura
prova e rischiava di mettere in crisi il sentimento d’identità (cfr. articolo
precedente), fondamentale per qualunque progetto di vita.
Non è meno comprensibile, purtroppo, che contro questi
sentimenti molti bambini non trovassero nell'ambiente familiare un’adeguata
spinta a reagire. Molti immigrati, come ai tempi di De Michelis, non erano
preparati al ruolo, gli obiettivi all'origine dell’emigrazione erano altri, il
loro orizzonte temporale in Svizzera era mobile e il rientro in Italia certo.
Nessun immigrato italiano, forse, aveva mai pensato che per
i figli in età scolastica restare in questo Paese, magari per sempre, sarebbe
stata una possibilità da prendere in considerazione. L’incertezza e
l’esclusione di una prospettiva «svizzera» per la seconda generazione è stata
per molti giovani italiani assai penalizzante.
La naturalizzazione diventa un’opzione
Solo negli anni Settanta (ma già negli ultimi anni Sessanta),
quando cambia la politica immigratoria svizzera, la naturalizzazione cominciò
ad essere presa in considerazione sempre più frequentemente da molti immigrati
italiani per l’intera famiglia o almeno per i figli minorenni. Nel 1969 furono
per la prima volta oltre 2000 gli italiani che ottennero la cittadinanza
svizzera. Negli anni Settanta la media annua delle naturalizzazioni concernenti
italiani superò le 3300 unità.
Negli anni Ottanta, parallelamente all'introduzione della cittadinanza europea, l’acquisizione
della nazionalità svizzera perse attrattiva, ma le naturalizzazioni
continuarono con una media annua superiore alle 3000 unità. Nel 1991 raggiunsero
il minimo storico del periodo (1802 naturalizzazioni), ma c’era una ragione,
che sarà illustrata nel prossimo articolo.
Chi pensasse, leggendo queste cifre, che sia stato facile
raggiungerle si sbaglierebbe. Fu infatti difficile sia allentare le condizioni
per l’ottenimento della nazionalità da parte della politica svizzera e sia
eliminare dall'opinione pubblica italiana alcuni pregiudizi riguardanti l’«acquisto»
della cittadinanza svizzera. Se ne parlerà più diffusamente nel prossimo
articolo, dove si accennerà anche al ruolo esercitato in questa materia dalle
grandi associazioni degli immigrati italiani in Svizzera.
Giovanni Longu
Berna 16.02.2022