Spesso, leggendo o sentendo racconti di
immigrati arrivati in Svizzera negli anni ’50 e ’60 del secolo scorso, si resta
sconcertati per le condizioni di lavoro, d’abitazione e di vita, a cui molti di
essi erano costretti dalle circostanze. Altri racconti, che mettono in luce la
buona accoglienza ricevuta al loro arrivo in questo Paese e l’aiuto ricevuto da
famiglie svizzere per trovare un alloggio e superare le difficoltà iniziali,
trovano scarsa accoglienza nelle ricostruzioni e analisi di quel periodo. Da
questo contrasto nasce la domanda: è possibile, a distanza di anni, tentare
almeno di dare risposte oggettive e fondate, superando le affermazioni
generiche, a domande tipo: quali erano le reali condizioni d’abitazione, di
lavoro e di vita degli immigrati italiani dei primi decenni del dopoguerra?
Ritengo di sì.
Problema abitativo: complesso e di difficile soluzione
Per esigenza di sintesi occorre ricordare che
subito dopo la guerra, per le ragioni descritte nei precedenti articoli, sono
giunti in Svizzera, in maniera regolare o irregolare, centinaia di migliaia di
italiani. E’ facile comprendere che questa massa inevitabilmente creava
problemi, le cui soluzioni non erano sempre a portata di mano.
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Tipiche baracche alla periferia delle città negli anni ’60 e ’70 |
Oltre alla difficoltà oggettiva di reperire
alloggi adeguati per tutti gli immigrati non va sottaciuto che in quel periodo
ampi strati della popolazione svizzera ritenevano gli immigrati fonti di
preoccupazioni per la sicurezza del lavoro, la tranquillità della vita, le
prospettive future, ecc.) per cui era molto diffusa la diffidenza nei loro
confronti, per esempio quando cercavano un alloggio.
Non va nemmeno dimenticato che la penuria di
alloggi esisteva già prima della guerra; gli immigrati hanno contribuito a
renderla ancor più evidente, tanto da provocare numerosi interventi
parlamentari e misure del governo per la promozione di un’edilizia popolare e
il freno all’aumento delle pigioni. Effettivamente, già negli anni ’50 vennero
prodotte 20-30 mila nuove abitazioni l’anno, raggiungendo negli anni ’60 circa
40-50 mila unità l’anno. Costruirne di più avrebbe comportato l’arrivo di nuovi
immigrati e quindi il rischio di aggravare ancor di più il problema. I
risultati non furono ritenuti da tutti soddisfacenti, ma contribuirono
senz’altro a ridurre anno dopo anno la grave penuria di alloggi.
Non tutti gli immigrati erano ugualmente coinvolti
Quando in molti racconti e in molte
ricostruzioni dell’immigrazione italiana del periodo considerato si tratta
delle condizioni abitative, di solito vengono messe in evidenza le difficoltà
di trovare un’abitazione (enfatizzando talvolta gli episodi di evidente
discriminazione) e le limitazioni e i disagi che comportava la vita nelle baracche.
Sulla base di pochi o anche numerosi episodi documentati è stato facile per
alcuni studiosi concludere che gli immigrati vivevano in condizioni abitative
pessime, addirittura disumane.
Evidentemente i fatti accertati non si possono
negare e nemmeno minimizzare. La generalizzazione è tuttavia sbagliata
perché non è vero che tutte le categorie di immigrati avevano (grandi) problemi
in materia d’abitazione. Per esempio, non erano coinvolti in questa
problematica i domiciliati (oltre 200.000 italiani negli anni ’60), che in
materia civile avevano praticamente gli stessi diritti e doveri degli svizzeri.
Anche i lavoratori dell’agricoltura, quelli
degli alberghi e quelli dei servizi domestici non ponevano particolari problemi
(perché i contadini, gli alberghi e spesso le famiglie in cui si prestava
servizio potevano garantire facilmente un alloggio), tanto più che il loro
numero era nel complesso molto contenuto. Persino la sistemazione dei
lavoratori dell’edilizia e del genio civile, in gran parte stagionali e soli,
non rappresentava per i datori di lavoro difficoltà insuperabili, a prescindere
dalla soddisfazione degli interessati, perché tutte le grandi imprese edili per
le quali lavoravano disponevano di moduli abitativi (baracche) per gli operai.
Soprattutto nei grandi cantieri di montagna (dighe, centrali idroelettriche),
ma anche nei cantieri di importanti costruzioni urbane e periurbane (complessi
abitativi, grandi centri commerciali e industriali), era evidente che le
maestranze dovessero essere alloggiate vicino al luogo di lavoro.
Il problema degli alloggi nelle città
I problemi maggiori li avevano gli immigrati
con famiglia e residenti (permesso B) che lavoravano nel settore industriale,
dunque in città, dove più acuta era la penuria di alloggi e dove solo le grandi
imprese disponevano di edifici ad uso abitativo, per altro in numero
insufficiente, per i propri dipendenti. Si trattava indubbiamente di un numero
importante di persone, ma inferiore certamente a quel che certi racconti
lasciano immaginare.
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Interno di una baracca |
Il periodo più acuto della penuria di alloggi coincise con quello della
massima immigrazione dall’Italia, negli anni ’60 e ’70, e colpì non tanto gli
stagionali (100-180 mila l’anno), quanto soprattutto gli immigrati residenti
stabilmente e i cosiddetti «falsi stagionali» che di fatto restavano in
Svizzera fino a 11 mesi invece di 9. Era anche il periodo in cui la «rotazione»
tra gli immigrati si stava attenuando e la popolazione straniera stabilizzata
(residente) cresceva velocemente sia per l’arrivo dei nuovi immigrati e sia per
le facilitazioni accordate al ricongiungimento familiare, soprattutto dopo
l’accordo italo-svizzero del 1964.
Di fronte a una domanda in continua crescita di alloggi e un’offerta assai
limitata, molti immigrati dovettero accontentarsi di alloggi di fortuna
(soprattutto baracche e trasformazioni di spazi destinati originariamente a
svariati usi) e numerosi speculatori ne approfittarono soprattutto nelle
periferie dei grandi agglomerati urbani per offrire mansarde e persino sottoscala
a prezzi esorbitanti. Agli inizi degli anni ’60 vennero denunciati numerosi
abusi e il governo federale non trovò di meglio che vincolare il
ricongiungimento familiare alla garanzia di un alloggio adeguato…
difficilissimo da ottenere!
Voci critiche
Secondo una parte della letteratura
sull’immigrazione italiana in Svizzera le condizioni abitative degli immigrati
erano generalmente pessime. Secondo alcuni studi, invece, questa
generalizzazione è ingiustificata. A chi dare ragione e a chi torto?
Giusto per citare qualche voce critica, nel
1977 Delia Castelnuovo-Frigessi scriveva: «i lavoratori stagionali sono
ammucchiati, di solito in precarie condizioni igieniche, in luoghi lontani dai
centri urbani e sociali (le famigerate baracche) o in vecchi edifici destinati alla
demolizione. Questo tipo di alloggi, sui quali del resto l'imprenditore riesce a ottenere scandalosi profitti, costringe lo stagionale, una
volta uscito dal luogo di lavoro, a sentirsi segregato in un ghetto».
A Dario Robbiani le baracche del
dopoguerra apparivano come «topaie e tristi baraccamenti, poiché solo inquilini
provvisori si adattano avendo quale unico impegno esistenziale di risparmiare
soldi: pochi, maledetti e subito!». Giovanni Blumer scriveva nel 1970:
«in Svizzera, una percentuale cospicua di lavoratori è condannata a vivere
nelle baracche del padrone, magari per un decennio». Secondo Toni Ricciardi
(2015) la manodopera italiana addetta alla costruzione della diga di Mattmark
venne ingaggiata «probabilmente perché gli italiani si adeguavano facilmente
alle pessime condizioni abitative e soprattutto erano disposti a lavorare anche
15-16 ore al giorno, domenica compresa…».
Quanti stranieri vivevano nelle baracche o in alloggi di
fortuna?
In realtà, come si vedrà nel prossimo articolo, non tutte le baracche e non
tutti gli alloggi erano uguali e, soprattutto, bisognerebbe chiedersi
seriamente quante persone erano direttamente coinvolte in questa problematica,
dando per scontato che le difficoltà di trovare un’abitazione dignitosa, a
basso costo e rispondente ai bisogni degli interessati erano reali e abbastanza
comuni (anche per gli svizzeri).
Ebbene, nel 1966, secondo lo stesso Blumer, uno studioso molto
critico sulla politica immigratoria svizzera, solo il 28% degli stagionali
dell’edilizia alloggiava in una baracca; il 14,5% viveva in un appartamento per una sola famiglia, il 32% in un
appartamento in comune con altri e il 22% in una camera. Dunque non tutti gli
stagionali vivevano in baracche, ma solo poco più di un quarto. La percentuale
degli annuali che alloggiavano in baracche, probabilmente a causa della
lontananza dal luogo di residenza, scendeva all’8%, mentre il 63,5% abitava in
appartamenti per una sola famiglia e il 26,5% in appartamenti in comune o in
camere.
Va inoltre notato che
la qualità dell’abitazione nelle baracche (ordine, pulizia, servizi igienici,
ecc.) dipendeva in larga misura anche dal comportamento degli stessi inquilini
e, nelle baracche più grandi, dal capobaracca.
Eppure i racconti
sulle condizioni abitative erano, soprattutto negli anni ’60, piuttosto
drammatici, tanto da provocare accese discussioni anche nel Parlamento
italiano. Se ne facevano interpreti soprattutto i parlamentari comunisti. In un vivace intervento
alla Camera dei Deputati del 9 ottobre del 1963, l’on. Giuseppe Pellegrino (del PCI)
così qualificò le abitazioni degli immigrati italiani: «gli abituri fangosi, le
stalle e le baracche umide e sconnesse che sono il loro tetto». Aveva ragione? La
risposta nel prossimo articolo.
Giovanni LonguBerna, 11.10.2017