15 febbraio 2012

Condizioni per la crescita in Italia: stabilità e formazione

A una persona che vivendo in Svizzera osserva quanto succede in Italia, non sfugge l’anomalia delle tante discussioni apparentemente serie ma inconcludenti, come se in realtà non si volessero vere soluzioni efficaci. Diversamente non si spiegherebbe perché da troppi anni non si riesce a modificare ragionevolmente alcunché della Costituzione, non si riesce a superare l’irriducibile contrapposizione tra destra e sinistra (anche nelle sue forme leggermente più aggiornate di centro-destra e centro-sinistra), non si riesce a portare a termine alcuna riforma seria, a parte quelle poche che sta cercando di realizzare l’attuale governo sotto la spinta dell’urgenza e delle richieste perentorie di un’Europa sempre più germanizzata.

Sul sostanziale immobilismo e conservatorismo dell’Italia nel campo delle riforme e dello sviluppo pesano indubbiamente ragioni storiche e culturali, la discontinuità tra nord e sud, l’invecchiamento della popolazione, l’inadeguatezza della classe politica condizionata da interessi di parte. Credo tuttavia che una spiegazione delle difficoltà (o della impossibilità?) di concludere interminabili discussioni con soluzioni condivise ed efficaci sia la mancanza di metodo. Una lacuna grave per un Paese che ha dato al mondo due geni della metodologia nel campo della scienza, Galileo Galilei, e in quello della politica, Niccolò Machiavelli. Due esempi presi dall’attualità sembrano confermare quanto appena affermato.
Oggi sono in piena discussione due oggetti che stanno occupando molte pagine di giornali e gran parte delle tribune televisive di approfondimento (?!): la legge elettorale e la flessibilità del lavoro. Entrambi i temi sembrano fatti apposta per scaldare gli animi e accentuare le divergenze, mentre dovrebbero essere affrontati pacatamente e razionalmente per trovare soluzioni condivise ed efficaci. Perché ciò possa avvenire bisognerebbe tuttavia interrogarsi prioritariamente sugli obiettivi specifici che s’intendono raggiungere, perché, direbbe Machiavelli, il fine giustifica i mezzi e non va dimenticato che sia la legge elettorale che la flessibilità del lavoro sono mezzi e non fini.

Una nuova legge elettorale: perché?
Quanto alla nuova legge elettorale, visto che quella attuale sembra non andar più bene a nessuno, prima di andare alla ricerca del modello da adottare in Italia tra quelli esistenti o possibili, mi sembrerebbe metodologicamente più corretto e più efficace sciogliere preventivamente il nodo del suo scopo: a che cosa deve servire una nuova legge elettorale?
Da anni si parla di architettura dello Stato in funzione di un Paese più moderno, più dinamico, più competitivo, più giusto e più vicino ai cittadini. Ebbene, non credo che sia giudizioso discutere di legge elettorale senza prima discutere seriamente di questa architettura e aver individuato per lo meno alcuni punti fermi, con la consapevolezza che anche le costituzioni sono modificabili e devono seguire i mutamenti della società.
In questa ottica mi sembra che vadano affrontati con serenità ma anche con decisione temi fondamentali come quelli della Presidenza della Repubblica (presidenzialismo vero, semipresidenzialismo, presidenzialismo strisciante come quello attuale?), del bicameralismo (non andrebbe rivisto alla luce del federalismo e perlomeno ridotto drasticamente nel numero dei parlamentari?), dei poteri del governo e della governabilità (quanto conta la legittimazione popolare e quanto la fiducia di parlamentari senza vincolo di mandato?), della responsabilità dei giudici (deve valere anche per loro il principio: chi sbaglia paga?), dell’organizzazione territoriale dello Stato (servono davvero Regioni, Province e Comuni, enti intercomunali, ecc.?) del federalismo (fondato su quali principi e applicato in quale forma?), ecc.
Solo alla luce di un orientamento chiaro e condiviso sull’assetto futuro dello Stato mi sembra ragionevole stabilire la legge elettorale più adeguata. Essa non dovrà essere ispirata solo a un vago senso della «rappresentanza democratica», ma deve anche rispondere alle nuove esigenze di un Parlamento modificato (probabilmente nella struttura, nella funzione, nel numero dei parlamentari) e di un Governo chiamato a governare efficacemente e durevolmente. La discussione sulla nuova legge elettorale non dovrebbe nemmeno essere totalmente sganciata da quella riguardante il ruolo dei partiti e il loro finanziamento: perché lo Stato dovrebbe finanziare un sistema elettorale così scandalosamente costoso come quello attuale, tanto più che il popolo italiano ha vietato il finanziamento pubblico ai partiti?
Solo a questo punto trovo giudizioso chiedersi anche se all’Italia convenga più il sistema di elezione proporzionale o maggioritario, con sbarramento o senza, con indicazione della coalizione o senza (anche se prima o poi si dovrà decidere a chi spetti questa competenza). Meno importante mi sembra invece la discussione un po’ demagogica e strumentale circa le preferenze, ben sapendo che esse dipendono più che dalla competenza dei candidati dalla loro notorietà, dalla posizione nelle liste, dall’efficacia della campagna elettorale e in fin dei conti dai soldi investitivi per curare la loro immagine.

Il capitale umano dipende dalla sua formazione
C’è poi un altro tema che anima la discussione, quello sulla «flessibilità del lavoro», un’espressione di non facile comprensione, resa ancor più difficile perché sembra contrastare col famoso «articolo 18» dello Statuto dei lavoratori del 1970 (licenziamento discriminatorio e reintegrazione sul posto di lavoro) e con l’aspirazione di molti se non di tutti gli italiani al «posto fisso».
Di per sé, in una discussione seria sulla flessibilità del lavoro (che prevede anche la possibilità del licenziamento per motivi economici o di ristrutturazione di un’impresa), l’articolo 18 non dovrebbe rappresentare un ostacolo insormontabile, perché il licenziamento illegittimo e discriminatorio, per quanto grave e sanzionabile severamente, dev’essere ritenuto un evento eccezionale e non una prassi corrente. Purtroppo però l’articolo 18 (soprattutto nella parte che prevede l’obbligo per il datore di lavoro della reintegrazione del lavoratore ingiustamente licenziato) è visto negli ambienti imprenditoriali come un ostacolo allo sviluppo e al clima aziendale, mentre nel mondo operaio e sindacale è assurto a simbolo di garanzia del posto di lavoro, un diritto acquisito e non più rinegoziabile. Nell’immaginario collettivo questo simbolo ha anche contribuito ad alimentare un’altra idea che non ha alcun riscontro nella realtà, quella del «posto fisso» e garantito a vita.
A ben vedere si tratta di autentici equivoci, che si potrebbero facilmente superare se anche a questo riguardo si invertisse il metodo della discussione, ossia partendo dal fine e non dal mezzo per conseguirlo. Se l’obiettivo principale del governo Monti e di qualsiasi buon governo è quello di far crescere l’Italia, occorre anzitutto trovare un’intesa sulla necessità di rilanciare l’economia e sulle condizioni essenziali perché ciò possa avvenire nella prospettiva di uno «sviluppo sostenibile» anche per le future generazioni.
Una riflessione di questo tipo (prendendo in considerazione anche la situazione dei Paesi vicini) evidenzierebbe subito che per crescere l’economia italiana ha anzitutto bisogno di un quadro politico stabile e credibile di riferimento (per cui è imprescindibile un ripensamento senza preconcetti dell’assetto istituzionale dello Stato) e di un sistema formativo adeguato.

Investire maggiormente nella formazione
Ormai è un dato acquisito: nel mondo moderno non ci può essere sviluppo sostenibile senza un capitale umano ben formato. Purtroppo l’Italia, che può vantare numerose eccellenze individuali in molti campi, non ha un sistema formativo in linea con le esigenze di un’economia competitiva e di una società in trasformazione, anzi non esiste affatto un sistema diffuso di formazione professionale integrato nel mondo del lavoro. E poiché in un mondo globalizzato la formazione generale e specifica svolge un ruolo chiave sul piano della competitività internazionale e delle esigenze della società, la discussione fondamentale dovrebbe incentrarsi su questi aspetti e non su altri obiettivamente secondari o addirittura fantasiosi. Tanto più che anche sul piano individuale sono il livello di formazione di base e la formazione specifica e continua che determinano in buona parte le prospettive d’impiego e la durata dell’occupazione.
Per rendersi conto di quanto sia importante per l’Italia la qualità della formazione per lo sviluppo sostenibile e per la crescita economica e sociale basterebbe un semplice confronto con i Paesi maggiormente competitivi europei, ad esempio la Svizzera, in fatto di investimenti nell’istruzione e nella ricerca, di tasso di crescita e tasso di occupazione. E sono Stati in cui non esiste né l’articolo 18, né il posto fisso, ma nemmeno il licenziamento facile o sacche di forte disoccupazione giovanile e di lunga durata come nel Mezzogiorno d’Italia.
E’ su questi temi che la discussione dovrebbe svolgersi senza pregiudizi di alcun tipo per giungere in tempi brevi a soluzioni condivise. Diversamente passerà anche il governo Monti, ne verranno altri, e i problemi resteranno in attesa che qualcuno imponga anche all’Italia la cura che sta subendo oggi la Grecia.

Giovanni Longu
Berna, 15.2.2012

14 febbraio 2012

L’italianità in Consiglio federale

(Corriere del Ticino, 14.02.2012)
Da qualche anno si parla sempre più spesso, soprattutto in Ticino, della proposta di portare da 7 a 9 i membri del Consiglio federale. In questo modo si spera che la Svizzera italiana (e il Ticino) vi possa essere più facilmente rappresentata. Se n’è riparlato anche qualche giorno fa tra l’Ufficio presidenziale del Gran Consiglio e i parlamentari ticinesi a Berna. Un segnale importante della volontà politica dei rappresentanti della Svizzera italiana di insistere fino al raggiungimento dello scopo, più che legittimo.

Vorrei tuttavia fare osservare che per avvalorare tale richiesta non conviene far troppo conto sulla ripartizione territoriale della Svizzera operata dall’Ufficio federale di statistica una dozzina di anni fa. Le Grandi Regioni a cui si è fatto riferimento nella recente discussione (cfr. CdT del 10.2.2012) sono infatti solo sette (e non nove), una delle quali, il Ticino, non copre nemmeno l’intera area della «Svizzera italiana». Inoltre le 7 Grandi Regioni vennero create unicamente a scopi statistici per disporre di territori d’analisi comparabili a quelli delle unità territoriali (NUTS 2) della classificazione europea.
Per riuscire nella sacrosanta rivendicazione sarebbe preferibile, a mio modo di vedere, riferirsi piuttosto al carattere multilingue e multiculturale della Svizzera e alla necessità di conservare e anzi valorizzare la terza radice fondamentale della Svizzera, l’italianità, in nome della quale vennero eletti finora in Consiglio federale tutti gli italofoni da Stefano Franscini a Flavio Cotti. Non è sicuramente nell’interesse della Svizzera che questa componente venga sacrificata e nemmeno trascurata ormai da troppo tempo.

Riportare l’italianità in seno al Consiglio federale dovrebbe essere l’impegno di tutti.

Giovanni Longu
Berna, 10.02.2012