Quando a metà degli
anni Sessanta cominciarono a diffondersi malcontenti e atteggiamenti xenofobi
contro gli italiani, ritenuti troppo numerosi e pericolosi, si chiese a più
riprese l’intervento della Confederazione per limitare l’immigrazione. Il governo
federale, sollecitato in questo senso anche dai sindacati, non esitò a
ricordare a politici e sindacalisti e in genere all’opinione pubblica, ch’era troppo
facile criticare gli stranieri per qualche svantaggio e dimenticarsi
completamente dei vantaggi derivanti dall’immigrazione. Ma dovette in qualche
misura tener conto delle critiche.
I vantaggi
dimenticati
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Anni ’60: l’immigrazione di massa di italiani |
Dalla fine della
guerra fino a quel momento, l’esercito dei lavoratori stranieri, in gran parte
italiani, aveva consentito all’economia svizzera uno sviluppo che sarebbe stato
impossibile avvalendosi delle sole forze di lavoro interne. Le aziende avevano potuto
sfruttare al massimo le loro capacità perché attinsero a piene mani dall’ampio
mercato del lavoro straniero tutti i lavoratori necessari per occupare i nuovi
posti che si stavano creando in continuazione e quelli lasciati liberi da
svizzeri passati ad altre attività. La partecipazione di centinaia di migliaia di
stranieri aveva accresciuto il volume dei beni e servizi prodotti più di quanto
servisse al consumo interno. Con l’aumento della produzione e delle
esportazioni erano cresciuti notevolmente i profitti delle imprese, i salari degli
operai e il reddito nazionale lordo e pro capite, contribuendo alla diffusione
del benessere. Per un certo tempo nessuno si preoccupò dell’inforestierimento.
Quanto sia stato
importante il contributo degli stranieri (che in quel periodo erano soprattutto
italiani) lo dimostrano alcune cifre. Il prodotto nazionale lordo della
Svizzera passò dal 1946 al 1969 da 20 miliardi di franchi a circa 80 miliardi,
e tra il 1950 e il 1973 aumentò di quasi il 100%. Il tasso annuo medio di
crescita economica era del 4,6% negli anni ‘50 e del 4,7% negli anni ‘60. La
produzione industriale cresceva fino all’11%. L’occupazione era al massimo, la
disoccupazione al minimo (81 disoccupati nel 1973).
Eppure c’era sempre
qualcuno che aveva da ridire sugli immigrati (italiani) non solo per certi loro
comportamenti (in pubblico e in privato), ma anche per l’attaccamento alle
proprie tradizioni, per il loro scarso interesse a integrarsi e molto altro
ancora.
La ripresa della
xenofobia
Una certa paura degli
stranieri c’è sempre stata in Svizzera fin dagli ultimi decenni dell’Ottocento,
perché, e spesso non senza ragione, erano percepiti come un corpo sociale
estraneo (fremd) al resto della popolazione, quasi volessero restarne
fuori. Non bisogna nemmeno dimenticare che questo gruppo sociale era diventato
in certi periodi alquanto influente, in particolare quello tedesco, tanto da
creare almeno in alcuni ambienti dell’amministrazione e della borghesia la
paura dell’inforestierimento «spirituale», oltre che economico e finanziario.
La mancata integrazione faceva temere la perdita dell’identità e delle
caratteristiche nazionali.
Gli italiani,
soprattutto da quando divennero la maggioranza degli stranieri, ossia dal
secondo dopoguerra, furono presi di mira non per la loro influenza
intellettuale, finanziaria o economica, ma perché erano tanti, per alcuni addirittura
troppi e soprattutto diversi, «inassimilabili»: per la lingua (nella Svizzera
tedesca e francese), la religione (quasi tutti cattolici in regioni
prevalentemente protestanti), le aspettative della vita, le abitudini
alimentari, i modi di vestire, ecc.
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Negli anni ’60 agli
italiani era talvolta vietato agli italiani l’ingresso in certi locali. |
Il primo movimento
organizzato contro l’inforestierimento nacque a Winterthur nel 1961 e si
diffuse soprattutto tra insegnanti di scuola, operai, piccoli impiegati e
contadini nella Svizzera tedesca, reclamando «la Svizzera agli Svizzeri». Nel
1963 diventerà un partito (Azione nazionale contro l'inforestierimento del
popolo e della patria) e si segnalerà per oltre un decennio nella lotta per il
ridimensionamento della popolazione straniera. Lo stesso anno venne fondato a
Zurigo un altro movimento, costituito da fanatici razzisti dichiaratamente anti
italiani, che fortunatamente ebbe vita breve. I sentimenti xenofobi continuavano
invece a diffondersi.
Fin verso la metà
degli anni ’60 gli xenofobi erano ancora pochi e forse per questo la
pericolosità delle loro idee fu sottovalutata. La loro pericolosità cominciò a
manifestarsi in occasione del dibattito parlamentare per la ratifica
dell’accordo tra la Svizzera e l’Italia del 1964 in materia di emigrazione/immigrazione:
sembra che agli italiani si concedesse troppo e si spalancassero le porte
all’inforestierimento.
Stranieri (italiani)
pericolosi?
Ad alimentare
sentimenti xenofobi furono diversi fattori, ma uno in particolare, perché era
facilmente osservabile: l’inarrestabile flusso immigratorio dall’Italia. Nella
prima metà degli anni ’60, con l’arrivo massiccio dei migranti dal Sud Italia
molti svizzeri si sentirono come «invasi» e non più padroni a casa propria.
Di per sé gli
stranieri non erano pericolosi e per quanto diversi e numerosi non erano in
grado di mettere in pericolo né la sicurezza né l’identità della nazione.
Eppure, specialmente gli italiani, facevano paura. «A dire il vero, scrisse nel
1965 il grande scrittore svizzero Max Frisch, questa minaccia non è
pronunciata apertamente, salvo da qualche testa calda che non capisce niente di
economia». Specialmente nei loro confronti non ci sarebbe stato davvero alcun
motivo per avere paura, erano utili e contribuivano al benessere generale; ma
la paura non è razionale e facilmente dominabile. Di fatto essa aumentava fino
ad invadere persino alcuni settori importanti del sindacalismo svizzero.
Anche il Consiglio
federale dovette tenerne conto e già il 1° marzo 1963 intervenne con un’ordinanza
per limitare l’immigrazione, che cresceva ad un ritmo fino all’11% annuo,
introducendo il «contingentamento» della manodopera estera, ossia fissando
annualmente con apposita ordinanza il numero massimo di stranieri per azienda.
Con questo provvedimento il Consiglio federale intendeva soprattutto frenare le
tendenze inflazionistiche (aumento della domanda di alloggi e di beni di
consumo e quindi dei prezzi) ma anche dare un segnale di risposta ai movimenti
xenofobi, che cominciavano a creare malcontento nel Paese.
Gli stranieri erano
troppi? Paura del cambiamento!
Sebbene non esistessero
vere «ragioni» di una paura «irrazionale» come la xenofobia, data la portata
dei movimenti xenofobi degli anni ’60 e ’70, è opportuno cercare di spiegarla,
anche se non è facile. Di sicuro ha origini lontane, quando il giovane Stato
federale non aveva ancora consolidati i propri valori costitutivi e gli
influssi dei Paesi confinanti potevano apparire minacciosi. Ma dopo, quando la
Confederazione era diventata uno Stato solido, affermato, ricco, divenuto Paese
d’immigrazione dopo essere stato per decenni, aveva ancora un fondamento
oggettivo la paura degli stranieri?
La risposta più
convincente, credo, l’ha data ancora Max Frisch, quando scrisse che per molti
svizzeri gli stranieri «sono semplicemente troppi, non sul cantiere né in
fabbrica né nella stalla né in cucina, ma dopo il lavoro, soprattutto la
domenica, di colpo sono troppi. Balzano all’occhio. Sono diversi. Guardano le
ragazze e le signore, a meno che non abbiano potuto portare le loro all’estero
[…], sono semplicemente diversi, minacciano la natura del piccolo popolo
dominatore».
In queste frasi,
estrapolate da un testo più lungo e articolato, Frisch cercava di spiegare
perché gli immigrati italiani, 500.000 in un Paese di cinque milioni e mezzo di
abitanti, facevano paura: perché, a parere di molti, erano troppi, diversi e
disturbavano la loro tranquillità.
Anche concretamente,
tuttavia, oltre 700 mila stranieri rappresentavano un forte cambiamento nella
vita sociale, nel mercato del lavoro, nei sistemi di produzione con
l’introduzione di nuove tecnologie, nei consumi, nell’edilizia abitativa, nella
scuola, nella religione, nella vita quotidiana. Ma il cambiamento forse più
difficile da metabolizzare dev’essere stato quello del passaggio in pochi anni
da una popolazione di immigrati «ospiti», di passaggio, temporanei, a una
popolazione sempre più stanziale di stranieri che non li si poteva più nemmeno
chiamare «ospiti», ma al massimo «lavoratori stranieri» (Fremdarbeiter)
o, più semplicemente, «stranieri» (Ausländer). Non tutti, infatti, erano
lavoratori perché molti avevano messo su famiglia e risiedevano ormai
stabilmente in questo Paese con tutti i familiari.
Paura di essere
sopraffatti?
La popolazione
straniera in continua crescita faceva paura: da meno di 600.000 persone nel
1960 si era superato il milione nel 1970. Solo gli italiani, nello stesso
periodo, erano passati da 346.223 a 583.850: un bel balzo, che
lasciava aperta la domanda per molti inquietante: andando avanti di questo passo,
che fine faranno gli svizzeri, che oltretutto mettono al mondo, in proporzione,
molti meno figli degli stranieri?
Poiché a questa e ad
altre simili domande nessuna autorità era in grado di dare risposte
rassicuranti, sul finire degli anni ’60 la xenofobia esplose, costringendo il
popolo sovrano a decidere quanti stranieri poteva ospitare la Svizzera. Nel
1970, si sa, nella famosa votazione sull’iniziativa popolare promossa dal
nazionalista James Schwarzenbach, il popolo respinse la proposta di ridurre
drasticamente il numero degli stranieri, ma fece chiaramente intendere che mal
tollerava un incremento incontrollato della popolazione straniera. E il governo
svizzero dovette adeguarsi.
Un altro elemento, su
cui seguirà un approfondimento separato, che spiega almeno in parte la paura
dell’inforestierimento degli anni ’60 e ’70 è legato anche alle più influenti organizzazioni
degli stranieri, specialmente di quelli italiani, considerate comuniste o
filocomuniste o comunque di sinistra, ossia, per molti svizzeri, pericolose. (Segue)
Giovanni LonguBerna, 17.5.2017