28 ottobre 2020

Immigrazione italiana 1970-1990: 28. Quale futuro per la seconda generazione?

Degli anni Settanta e Ottanta molti genitori immigrati, ormai quasi tutti pensionati e tutto sommato contenti della scelta fatta di restare in Svizzera, ricorderanno sicuramente i conflitti generazionali, i dubbi amletici se fermarsi «ancora un po’» o partire, la sofferenza di una decisione presa spesso solo «per il bene della famiglia», i continui ripensamenti perché i miglioramenti giungevano col contagocce. Furono due decenni molto travagliati e a soffrirne non furono solo i genitori ma anche i figli. L’inserimento scolastico prima e quello professionale dopo non furono facili. Eppure, chi ripensa serenamente a quegli anni, non può negare che i miglioramenti, sia pure lentamente, arrivavano.

La nuova politica federale

Per riuscire nella vita bisognava riuscire a scuola!
I risultati sperati negli anni Settanta e Ottanta saranno sostanziosi solo a partire dagli anni Novanta, ma già si delineava la tendenza positiva perché l’orientamento della politica federale nei confronti dei giovani della seconda generazione era chiaro: agevolare l’integrazione della seconda generazione per accorciare le distanze tra svizzeri e stranieri, ridurre al minimo i conflitti sociali, aspirare a una società multietnica e multiculturale, rafforzare la coesione interna e vedere finalmente svizzeri e stranieri «determinati a vivere la loro molteplicità nell’unità, nella considerazione e nel rispetto reciproci» (come recita il Preambolo della Costituzione federale, anche se non si parla esplicitamente di stranieri).

Negli anni Settanta, gli italiani che decisero di restare a tempo indeterminato in Svizzera si rendevano conto che la nuova politica verso gli stranieri andava non solo assecondata ma anche sostenuta. Diversamente a pagarne le conseguenze sarebbero stati ancora gli stranieri, quelli della seconda generazione. Per questo gli italiani furono tra i più attivi nelle associazioni miste che sorgevano in quel periodo nelle grandi agglomerazioni per cercare di superare i pregiudizi e facilitare la reciproca conoscenza tra svizzeri e stranieri.

In alcune città vennero istituite anche Commissioni comunali miste che, a prescindere dai risultati concreti ottenuti, spesso modesti, contribuirono a modificare significativamente il punto di vista reciproco tra amministrazioni pubbliche e stranieri. In qualche comune, per esempio a Berna, si riuscì persino a consentire a un rappresentante straniero di partecipare senza diritto di voto a una Commissione scolastica pur non essendo stato eletto. Spesso il contributo degli italiani risultava determinante.

Fin dagli anni Settanta, per migliorare le prestazioni scolastiche, ai bambini stranieri fu data la possibilità di frequentare per due anni invece di uno solo l’asilo, in modo da cominciare a famigliarizzarsi con la lingua locale e con i piccoli svizzeri. Ne beneficiarono soprattutto gli italiani. Negli anni della scuola si moltiplicarono le misure di sostegno scolastico che spinsero persino molti genitori a riprendere in mano i libri di scuola, a frequentare corsi, a imparare a orientarsi nel vasto panorama delle professioni. Lo scopo ultimo, per i giovani studenti, doveva essere un buono sbocco professionale per non essere condannati alla manovalanza e al costante rischio della disoccupazione. Il sostegno dei genitori era indispensabile.

Risultati sperati e certi

I risultati, come detto, tarderanno ad arrivare, ma allora tutti si rendevano conto ch’era importante seminare bene (e non era facile perché l’incertezza tra restare e ritornare rappresentava per molti un freno). La maggioranza dei genitori stranieri aveva però capito quanto fosse stretto il rapporto tra il tipo di scuola frequentata (elementare o secondari


a inferiore), la professione appresa (dopo studi o apprendistato di due, tre o quattro anni) e la professione esercitata. Da questa sarebbero poi dipesi il reddito, la sicurezza del lavoro, l’integrazione sociale, ecc. Gli italiani ne avrebbero beneficiato anche nel caso che decidessero di rientrare in Italia.

La tendenza era comunque chiara, come attestano questi semplici dati riguardanti gli italiani in età dai 25 ai 44 anni. Nel 1970 quasi il 70 % aveva frequentato solo la scuola obbligatoria e meno del 20% aveva conseguito un diploma di maturità o di formazione professionale. Nel 1980 i progressi non sono ancora molto vistosi con percentuali rispettivamente del 68% e del 20%. Nel 1990, invece, la quota di coloro che si sono fermati alla formazione obbligatoria scenderà sotto il 48%, mentre salirà al 38% quella dei diplomati di scuola di secondo grado superiore.

Tutte le cifre e le statistiche risulterebbero naturalmente diverse se si facesse la distinzione tra prima e seconda generazione. Tuttavia, non c’è dubbio che il futuro della seconda generazione passava generalmente attraverso la riuscita scolastica.

Giovanni Longu
Berna 28.10.2020