L’Accordo
d’immigrazione del 22 giugno 1948 ha segnato una svolta nella storia dei
rapporti italo-svizzeri in materia d’immigrazione. Occorre tenerlo presente per
capire i problemi più delicati degli immigrati italiani in Svizzera nel
dopoguerra, dalla cosiddetta «emigrazione clandestina» alle limitazioni per i
ricongiungimenti familiari, dalle difficoltà d’integrazione della seconda
generazione all’attenzione esasperata della polizia svizzera nei confronti dei
presunti attivisti «comunisti», ecc. Non va inoltre dimenticato che la politica
emigratoria italiana dei primi decenni del dopoguerra rifletteva la situazione
politica interna del Paese e in particolare la contrapposizione tra i due
partiti maggiori, la Democrazia cristiana (DC) e il Partito comunista italiano
(PCI).
Accordo voluto
dall’Italia, ma…
Anzitutto è bene
ricordare che quell’accordo è stato chiesto dall’Italia, quando era ministro
plenipotenziario della Legazione italiana a Berna, Egidio Reale, sul
finire del 1947. Il Consiglio federale inizialmente non lo riteneva necessario
e forse nemmeno utile. Da decenni infatti l’immigrazione dall’Italia avveniva
senza particolari difficoltà, in base al Trattato di domicilio e
consolare tra la Svizzera e l'Italia del 22 luglio 1868, che prevedeva la libertà di stabilimento dei
cittadini di entrambi i Paesi nell’altro Paese contraente, con gli
stessi diritti e doveri dei nazionali, salvo le limitazioni derivanti da esigenze di ordine pubblico o di
sicurezza e a condizione che «si uniformino alle leggi del Paese».
I principali protagonisti italiani dell'accordo italo-svizzero del 1948
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E. Reale, capo Legazione a Berna |
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A. De Gasperi, capo del governo |
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C. Sforza, min. degli esteri |
Non c’è dubbio
che l’Italia abbia chiesto il negoziato con la Svizzera con le migliori
intenzioni, ossia per tutelare meglio i cittadini emigrati in Svizzera e per
controllarne i flussi, ma da parte del governo italiano era anche evidente che
si volesse per così dire «esorcizzare lo spettro dell’ascensione al potere
del partito comunista» (Etienne Piguet). La DC, che aveva appena
vinto le elezioni politiche del 18
aprile 1948, con cui si era assicurate la maggioranza relativa dei voti
e la maggioranza assoluta dei seggi, voleva dimostrare di saper portare a casa
ottimi risultati anche da un negoziato non facile, facendone beneficiare non
solo i cittadini emigrati in Svizzera, ma l’intero Paese alleggerito del peso
della disoccupazione e dei rischi di tensioni sociali.
La DC sapeva del resto che tutti i partiti politici,
compreso il PCI, «erano d’accordo nel sostenere la necessita di trovare alla
nostra sovrappopolazione quegli sbocchi che avrebbero permesso, come hanno
permesso in epoca anteriore, di poter ristabilire un certo equilibrio»
(Giuseppe Lupis). Il negoziato con la Svizzera fu avviato anche grazie a questo
sostegno.
Naturalmente il preambolo dell’Accordo, firmato il 22 giugno
1948 a Roma, non lascia trasparire le vere intenzioni del governo italiano, ma
si limita a enunciarne gli scopi immediati del negoziato, ossia «mantenere e
sviluppare il movimento emigratorio tradizionale dall’Italia in Svizzera, e
regolare di comune accordo e nell’interesse dei due paesi le modalità di
reclutamento dei lavoratori italiani e la procedura relativa all’entrata di
tali lavoratori in Svizzera e il regime applicabile alle loro condizioni di
soggiorno e di lavoro».
…benaccetto
dalla Svizzera
La Svizzera finì per acconsentire al negoziato perché era
anche nel suo interesse «mantenere e sviluppare il movimento emigratorio
tradizionale dall’Italia» e ottenere garanzie che anche in futuro
l’economia svizzera potesse rifornirsi di manodopera italiana. D’altra parte,
conoscendo bene la situazione italiana e la necessità del governo di agevolare
l’emigrazione, i negoziatori svizzeri sapevano che la controparte non avrebbe
insistito con richieste impossibili da soddisfare.
Del resto, non avrebbero potuto intaccare i punti cardine
della politica immigratoria svizzera, ossia l’adempimento degli obblighi
derivanti dalla legge sugli stranieri del 1931 e lo sfruttamento al massimo del
sistema di rotazione della manodopera che consentiva di avere la quantità e
qualità dei lavoratori necessari all’economia e allo stesso tempo limitava la
stabilizzazione degli stranieri e di conseguenza il pericolo
dell’inforestierimento.
Per tutto il resto essi erano disponibili a concedere tutto quel che era concedibile anche allo scopo di aiutare il governo italiano «per non correre il rischio che il comunismo prenda piede sulla nostra lunga frontiera meridionale» (Max Petitpierre, capo del Dipartimento politico federale). Un aumento della disoccupazione avrebbe infatti fornito argomenti all’opposizione di sinistra per denunciare l’incapacità del governo a gestire il fenomeno.
Per tutto il resto essi erano disponibili a concedere tutto quel che era concedibile anche allo scopo di aiutare il governo italiano «per non correre il rischio che il comunismo prenda piede sulla nostra lunga frontiera meridionale» (Max Petitpierre, capo del Dipartimento politico federale). Un aumento della disoccupazione avrebbe infatti fornito argomenti all’opposizione di sinistra per denunciare l’incapacità del governo a gestire il fenomeno.
Il negoziato
In queste
condizioni, il negoziato non dovette affrontare grandi difficoltà e i risultati
furono ritenuti soddisfacenti da entrambe le parti. In effetti, non potendo
nemmeno sfiorare le vere problematiche migratorie, quali lo statuto stagionale,
i ricongiungimenti familiari, la stabilizzazione degli immigrati da diversi anni,
la parificazione dei diritti sociali, ecc. la trattativa finì per occuparsi
soprattutto di procedure di reclutamento, di agevolazioni di viaggio, di
condizioni assicurative e poco più.
Per avere il
totale controllo degli espatri e impedire la cosiddetta «emigrazione
clandestina», il governo italiano doveva rinegoziare le modalità del
reclutamento per evitare abusi e sottrarre alle organizzazioni svizzere private
il potere di scegliere direttamente in Italia la manodopera di cui avevano
bisogno, in aperto contrasto con l’obbligo esistente per le imprese italiane di
passare per gli uffici del lavoro statali.
I principali protagonisti svizzeri dell'Accordo italo-svizzero del 1948
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Max Petipierre, min. affari esteri |
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R. de Weck, Legaz. a Roma |
Contro il sistema di rotazione non ci furono
obiezioni di fondo da parte dei negoziatori italiani, tanto più ch’esso era
accettato anche da molti immigrati, intenzionati a restare in Svizzera al
massimo per qualche stagione o anno.
Nella parte più delicata del negoziato riguardante il reclutamento
non fu possibile far considerare la modalità delle «domande numeriche»
come l’unica ammessa e ci si accontentò di un compromesso. Un altro compromesso
riguardava gli enti che avevano facoltà di presentare domande, ossia «i datori di lavoro, le associazioni padronali e
gli organi di utilità pubblica riconosciuti dalle Autorità Svizzere» (art. 3, cpv. 2), ma non gli «agenti
privati» (art. 3 cpv.3).
Anche riguardo alla dichiarata preferenza svizzera di far
effettuare il reclutamento in alcune regioni piuttosto che in altre
(meridionali) si giunse a un compromesso impegnando l’Italia a ter conto «per quanto
possibile dei desideri espressi dai richiedenti circa le regioni nelle quali i
lavoratori richiesti dovrebbero essere di preferenza reclutati» (art. 6
cpv. 2).
Se da parte italiana si fosse insistito sulla eliminazione
completa del reclutamento diretto sarebbe certamente aumentata la possibilità
per gli emigranti italiani di incrementare ulteriormente l’emigrazione
clandestina e per le imprese svizzere di cercare altri mercati. Entrambe le
possibilità sarebbero state catastrofiche per la politica emigratoria italiana.
I negoziatori italiani si dovettero pertanto accontentare di una limitazione
del reclutamento diretto, dando un’ulteriore prova della debolezza contrattuale
dell’Italia in quel momento.
I principali contenuti dell’Accordo
Anzitutto l’Accordo precisava che «il presente accordo si
applica all'immigrazione in Svizzera di mano d'opera stagionale o ammessa a
titolo temporaneo» (art. 1, cpv. 1). Poiché da documenti diplomatici
risulta che la Svizzera considerava «temporanea» la manodopera italiana
entrata in Svizzera dalla fine della guerra per soddisfare i bisogni «straordinari»
dell’economia, si comprende bene che la stagionalità sarebbe stata considerata
«normale» a lungo, fin quando sarebbero durati i timori di un possibile
peggioramento della congiuntura. Di fatto con questo Accordo il regime dello
stagionale per la manodopera italiana veniva generalizzato. Chi entrava in
Svizzera per motivi di lavoro riceveva un contratto di lavoro e un permesso di
soggiorno «stagionale».
Probabilmente i negoziatori non si rendevano conto delle
limitazioni, delle privazioni, dei disagi dovuti allo statuto stagionale,
dall’umiliante visita medica alla frontiera, alla vita nelle baracche, al
divieto della mobilità professionale, alla privazione di una vita familiare
normale, alla pericolosità e durezza delle condizioni di lavoro.
L’Italia riuscì ad ottenere qualche risultato in materia di
reclutamento e di condizioni di lavoro e salariali («i lavoratori italiani dovranno beneficiare in
Svizzera dello stesso trattamento dei nazionali per quanto concerne le
condizioni di lavoro e di rimunerazione. Tali condizioni saranno conformi alle
disposizioni dei contratti collettivi o dei contratti-tipo di lavoro
attualmente in vigore o, in mancanza, agli usi locali e professionali», art. 18, cpv.1), ma in genere dovette
accontentarsi di compromessi. La
debolezza dell’Italia nella trattativa dipendeva dal forte interesse che aveva
a ridurre la pressione dei disoccupati e dalla speranza di poter riequilibrare
la bilancia dei pagamenti con le rimesse degli emigrati.
La Svizzera ottenne di più perché riuscì a far accettare il
raddoppio del tempo che doveva intercorrere prima di ottenere il permesso di
domicilio: da 5 a 10 anni, riuscì ad ottenere la possibilità di domande
nominative e soprattutto la garanzia di poter reclutare manodopera (a buon
mercato) nel mercato italiano.
Almeno nel breve termine, tuttavia, l’Accordo si dimostrò utile per entrambe
le parti. Basti pensare che dal 1946 al 1950, nonostante la flessione degli
anni 1949-50 erano espatriate dall’Italia per recarsi in Svizzera oltre 300.000
persone, segno del grande potere di attrazione della Svizzera, ma anche della
soddisfazione dei datori di lavoro svizzeri nell’impiego di lavoratori italiani.
Giovanni Longu
Berna, 3 aprile 2019
Berna, 3 aprile 2019