29 aprile 2015

Svizzera: naturalizzazione agevolata per la terza generazione


Questa dovrebbe essere, finalmente, la volta buona. L’11 marzo scorso il Consiglio nazionale (CN) ha infatti approvato a stragrande maggioranza (122 sì, 58 no e 4 astensioni) un progetto di legge sulla naturalizzazione agevolata della terza generazione di stranieri, elaborato dalla Commissione delle istituzioni politiche (CIP-N) su una iniziativa parlamentare della consigliera nazionale italo-svizzera Ada Marra, in cui si affermava perentoriamente che «la Svizzera deve riconoscere i propri figli».

L’on. Ada Marra con Giovanni Longu
L’approvazione del CN, una delle due camere dell’Assemblea federale, non ha avuto un grande rilievo nei media e probabilmente non ha entusiasmato nemmeno Ada Marra, che attende ormai dal 2008 una decisione definitiva sulla sua iniziativa e dovrà ancora aspettare, non si sa quanto, il risultato finale. Il progetto dev’essere infatti ancora esaminato e approvato dal Consiglio degli Stati e spetterà poi al popolo svizzero dire l’ultima parola.
Chi conosce anche solo sommariamente l’iter legislativo svizzero sa bene che si tratta di un procedimento piuttosto lungo e laborioso. Nel caso specifico, poi, sette, otto o più anni rappresentano una durata accettabile, se si pensa che il tema della naturalizzazione agevolata per i figli e nipoti di immigrati (ossia giovani stranieri nati e cresciuti in Svizzera) è iniziata oltre un secolo fa.

Argomentazioni secolari
Nella motivazione della sua iniziativa, Ada Marra sosteneva che «la Svizzera deve riconoscere i propri figli e smettere di chiamare "straniere" persone che non lo sono. Infatti, le persone nate in Svizzera da genitori nati in Svizzera da genitori che hanno soggiornato per oltre vent'anni in Svizzera non sono più straniere: la maggior parte di loro conosce solo vagamente la lingua degli avi e non superebbe mai un esame linguistico teso a determinare se sono integrate nel Paese di cui hanno la cittadinanza. Le persone della terza generazione hanno (…) le radici in Svizzera, indipendentemente dalla realtà in cui vivono e dal loro livello socioeconomico. Sono il prodotto della realtà elvetica».
A ben vedere, le argomentazioni della Marra non sono né rivoluzionarie né del tutto originali. Qualcosa di simile si trova infatti già nelle motivazioni di una analoga iniziativa del 1912 con cui si chiedeva l’introduzione nella Costituzione federale del principio dello «jus soli», ossia il diritto alla cittadinanza svizzera per chi nasceva in Svizzera. Allora la questione era stata sollevata da una commissione di esperti in relazione al pericolo dell’«inforestierimento della Svizzera», ritenendo che un buon antidoto sarebbe stato proprio la naturalizzazione automatica di chi nasceva in Svizzera.
Alla base dell’iniziativa c’era un pensiero assai semplice: molti «stranieri» in Svizzera fin dalla nascita sono di fatto già «assimilati» o potrebbero esserlo facilmente, basterebbe concedere loro la naturalizzazione fin dalla nascita. Inoltre si riteneva, ragionevolmente, che riducendo con la naturalizzazione automatica il numero degli stranieri anche il problema dell’inforestierimento si sarebbe per così dire sgonfiato da solo. L’iniziativa, benaccolta negli ambienti politici, non fu portata avanti a causa della prima guerra mondiale, che impose altre priorità. Purtroppo anche dopo la guerra non venne più ripresa fino agli anni ’90 del secolo scorso e all’elaborazione di un progetto di legge respinto in votazione popolare nel 2004.
Osservo marginalmente che se le motivazioni a favore dell’iniziativa Marra non sono di per sé nuove, non lo sono nemmeno le argomentazioni contro la stessa iniziativa. Quando il consigliere nazionale dell’Unione democratica di centro (che in realtà è di destra) Hans Fehr obietta che non si deve compromettere la nazionalità elvetica (cha ha qualcosa di unico al mondo e fornisce molte libertà e diritti) e che a suo avviso il progetto mira soltanto a far calare massicciamente il tasso di stranieri in Svizzera, non dice nulla di nuovo rispetto alle obiezioni che venivano mosse all’iniziativa del 1912.

Verso una decisione storica
Occorre tuttavia sottolineare anche l’attualità e ragionevolezza dell’iniziativa di Ada Marra e della successiva proposta della CIP-N in quanto sono state recepite a mio avviso in misura più che sufficiente due istanze provenienti dal mondo politico e dall'opinione pubblica. La prima riguarda il meccanismo della naturalizzazione, che non dev'essere né automatico né troppo facile o troppo difficile, ma equo, rispondente a precise condizioni valide in tutta la Svizzera. La seconda istanza è quella di un’opinione pubblica ormai stanca degli atteggiamenti marcatamente xenofobi e sempre più orientata a considerare svizzeri a tutti gli effetti coloro che si sentono effettivamente tali fino ad apparire quasi ridicolo considerarli ancora «stranieri». Lo ha ribadito al CN a nome della CIP-N il socialista Andy Tschümperlin: «I nipotini degli immigrati non sono più stranieri. Non parlano più, o male, la lingua dei loro nonni e i legami con il paese di origine sono simbolici».
In base al progetto di legge approvato dal CN l'ottenimento della nazionalità elvetica dovrà avvenire secondo una procedura uniforme a livello nazionale e non in maniera automatica ma a richiesta, in quanto l’interessato o i suoi genitori dovrebbe o dovrebbero farne esplicita richiesta. In questa maniera è stato rimosso l’ostacolo principale che impedì l’approvazione dell’analogo progetto di legge nella votazione popolare del 2004.
Il progetto ora approvato sottolinea anche in maniera inequivocabile che la naturalizzazione agevolata presuppone nei candidati di essere bene integrati e che anche i loro genitori e persino i loro nonni abbiano (avuto) legami stretti con la Svizzera.
Allo stato attuale dell’iter parlamentare e della percezione del problema nell’opinione pubblica, tutto lascia ben sperare. Solo dopo l’approvazione definitiva si potrà comunque parlare di una decisione «storica» e l’aggettivo non dovrà sembrare esagerato se solo si pensa al tempo trascorso dalle prime discussioni oltre un secolo fa.
Giovanni Longu
Berna, 29.04.2015

UE in confusione tra profughi e migranti


I problemi della «migrazione» stanno diventando acuti non solo per l’Europa ma per il mondo intero. Sono milioni le persone in movimento, spesso in condizioni disumane, «alla ricerca - per citare Papa Francesco – della felicità» o comunque «di una vita migliore». Se finora questi spostamenti di masse avvenivano nella quasi totale indifferenza delle popolazioni non direttamente coinvolte, oggi, di fronte a episodi drammatici sempre più frequenti come i numerosi naufragi nel Mediterraneo, l’opinione pubblica mondiale è più consapevole dell’entità e della gravità del fenomeno. Le istituzioni sono prese di mira perché ritenute responsabili non tanto delle cause delle migrazioni, quanto piuttosto della cattiva o comunque insufficiente gestione del fenomeno.

UE in confusione
Per non parlare dell’inerzia delle Nazioni Unite, mi soffermo solo sulla pochezza degli interventi decisi la settimana scorsa dall’Unione europea (UE). Di fronte all'ennesimo dramma che si è appena consumato nel Mediterraneo tra la Libia e l’Italia, il governo italiano ha fatto bene a chiedere la convocazione urgente del Consiglio UE, ma non ha fatto nulla per provocare una seria discussione su una politica migratoria europea comune.
Considero questa mancanza grave perché l’Italia, più di qualsiasi altro Paese europeo, dovrebbe sapere che se la migrazione non è ben gestita può creare seri problemi politici e sociali non solo nei Paesi di partenza ma anche in quelli di transito e soprattutto di arrivo. Il fatto è che non avendo l’Italia alcuna linea guida in materia d’immigrazione non può nemmeno chiederla all’UE. E’ emblematica al riguardo la confusione terminologica tra migranti, clandestini, richiedenti l’asilo, profughi, rifugiati e altro ancora. Essa denota che non ci si rende conto che l’approccio nei confronti dei «migranti» non può essere lo stesso che si deve avere con i «profughi» e i «richiedenti l’asilo», per non parlare dei clandestini o infiltrati terroristi. Di fatto non esiste né in Italia né nell’UE una politica immigratoria comune.

«Triton» rinforzato, ma problemi di fondo irrisolti
L’ennesima conferma giunge dalla riunione straordinaria del Consiglio UE. Poco meno di due anni fa l’Italia e l’UE avevano varato la missione «Mare Nostrum» per fronteggiare l’emergenza umanitaria nel Mediterraneo (fino alle coste del Nord Africa) dove i naufragi di profughi erano frequenti. Nel novembre 2014 la missione Mare Nostrum è stata sostituita con l’operazione Triton, meno costosa e limitata al controllo delle acque territoriali italiane fino a 30 miglia nautiche dalla costa. Nella riunione del 23 aprile scorso, invece di affrontare l’esigenza di nuovo approccio globale al fenomeno, il Consiglio UE si è impegnato soltanto a rinforzare Triton (triplicandone il finanziamento) senza cambiarne sostanzialmente la missione, ossia pattugliare le coste italiane per impedire l’ingresso illegale nelle acque territoriali dell’UE.
In questo modo non si risolvono certo i problemi che stanno all'origine del fenomeno, anzi non si fa che aumentare la confusione e alimentare la disputa politica tra chi vorrebbe usare le maniere forti (respingimenti, affondamento dei barconi con l’impiego di droni, blocco navale sulle coste africane o addirittura con l’invasione della Libia) e chi non vuole sottrarsi agli obblighi del soccorso in mare (anche oltre le 30 miglia dalla costa), dell’accoglienza e della solidarietà (pur dichiarando guerra ai trafficanti e ai nuovi schiavisti). All'interno dell’UE non c’è nemmeno la condivisione di un metodo per l’accoglienza e la ripartizione dei «rifugiati» tra tutti i Paesi membri.
La problematica della «migrazione» in senso proprio è rimasta totalmente assente perché il quadro generale di riferimento resta una UE che intende difendere i suoi confini (e i suoi interessi) da chiunque cerchi di penetrarvi illegalmente, ovviamente fatte salve le convenzioni internazionali sui doveri di soccorso a naufraghi e richiedenti l’asilo. Resta aperto, a mio avviso, il problema degli sbarchi di tutti gli altri: se non hanno diritto all'asilo (e in proposito l’UE ha chiesto all'Italia che la registrazione dei rifugiati avvenga in modo adeguato secondo le regole UE!) vanno accolti o espulsi? Altrimenti detto, dopo l’eventuale soccorso in mare, l’identificazione e l’accoglienza negli appositi centri, dovranno essere trattenuti in vista dell’espulsione o «convertiti» in immigrati regolari (anche se non hanno un lavoro e mezzi di sostentamento) con la libertà di muoversi dove vogliono?

Mancanza di una visione comune europea
Per dare risposte concrete a queste o a simili domande è forse indispensabile attuare politiche diverse ma complementari: almeno una fondata sulla solidarietà nei confronti dei «profughi» costretti a fuggire (a causa di guerre, persecuzioni, pericoli gravi imminenti) e una fondata su considerazioni di tipo essenzialmente economico nei confronti dei «migranti». Per essere efficaci, andrebbero condivise da tutti i 28 Paesi dell’UE e armonizzate in una visione strategica comune che coinvolga anche i Paesi da cui provengono i profughi/migranti.
Purtroppo questa visione comune manca, per cui risultano insufficienti non solo la solidarietà praticata, ma anche l’atteggiamento dimostrato nei confronti dei profughi e soprattutto la presa a carico, almeno in parte, dei problemi dei Paesi da cui si continua a fuggire. Eppure appare evidente che per impedire che si fugga non occorre creare sbarramenti, ma attuare una politica d’investimenti massicci sul posto. Almeno a medio e a lungo termine ne beneficerebbe sicuramente anche l’Unione europea. O si preferisce continuare a rincorrere l’emergenza profughi, l’emergenza migranti, l’emergenza…?

Giovanni Longu
Berna, 29.04.2015