19 novembre 2025

1945: Svizzera chiama Italia (seconda parte)

L’accordo italo-svizzero verbale del 1945 mostrò quasi subito il suo limite perché la Svizzera era scontenta dei ritardi con cui arrivavano i lavoratori richiesti a causa della farraginosa burocrazia italiana e l’Italia non gradiva che il reclutamento avvenisse per lo più nominalmente da parte delle imprese svizzere direttamente nelle regioni del Nord, specialmente Lombardia e Veneto, sottraendo personale qualificato alle industrie che si apprestavano alla ripresa. All'Italia però non conveniva protestare perché in quel momento sembrava prioritario ridurre i rischi della disoccupazione e questo sbocco migratorio sembrava provvidenziale, tanto più che la Svizzera guardava con interesse al mercato del lavoro italiano. Per questo la Legazione di Berna aveva autorizzato i datori di lavoro svizzeri a reclutare anche direttamente in Italia il personale di cui avevano bisogno.

L’Accordo di emigrazione del 1948

Allo scopo di «mantenere e sviluppare il movimento emigratorio tradizionale dall'Italia in Svizzera» (prevalentemente stagionale), appianare le divergenze recenti e regolare meglio i flussi (limitando, per esempio, il reclutamento individuale a vantaggio di quello collettivo tramite i canali ufficiali e col controllo della Legazione e degli uffici consolari), il governo italiano chiese alla Svizzera un accordo scritto, che sarà poi sottoscritto il 22 giugno 1948: «Accordo tra la Svizzera e l’Italia relativo all'immigrazione dei lavoratori italiani in Svizzera».

Al riguardo mi sembra opportuno ricordare che l’Accordo non riguardava l’emigrazione/immigrazione italiana in Svizzera in tutte le sue forme e durata, ma solo la parte, sia pure prevalente, «stagionale» o comunque temporanea, come bene indicava il primo articolo: «Il presente accordo si applica all'immigrazione in Svizzera di mano d'opera stagionale o ammessa a titolo temporaneo».

Le autorità italiane ne erano ovviamente consapevoli e forse non dispiaciute, perché le istituzioni politiche e sindacali, anche di sinistra, erano convinte della necessità dell’emigrazione per evitare possibili conflitti sociali e nella speranza di raggiungere presto la piena occupazione, grazie agli effetti del famoso «Piano Marshall». In tal modo si sarebbe risolto il problema dell'emigrazione alla radice. 

In Svizzera, invece, soprattutto tra le associazioni italiane di sinistra, si discuterà per decenni su questa limitazione dell’immigrazione italiana, dimenticando sistematicamente che al momento della firma dell’Accordo le autorità italiane praticamente non avevano altra scelta. Del resto, molti stagionali erano  soddisfatti di poter lavorare in Svizzera qualche stagione, guadagnare, risparmiare e rimpatriare con un bel gruzzolo. E poiché sapevano che a fine stagione dovevano rientrare in Italia, è ragionevole supporre che la massa degli stagionali non pensasse minimamente d’integrarsi in questo Paese «ospite».

Quanto alle autorità svizzere, erano sicuramente soddisfatte di quell'Accordo perché non intendevano affatto liberalizzare l’immigrazione, chiedevano solo (o prevalentemente) lavoratori «stagionali» (possibilmente giovani e non sposati) e sapevano che all'Italia non dispiaceva, perché era come ossessionata dal possibile aumento della disoccupazione e di eventuali conflitti sociali e, almeno in quelle trattative, non avrebbe potuto chiedere  niente di più. Del resto, in Svizzera, l’artefice principale dell’intesa era un ex rifugiato politico, un grande antifascista, capo della Legazione italiana (dal 1953 Ambasciata), Egidio Reale (1888-1958), molto sensibile alle problematiche degli immigrati e molto stimato sia dal governo italiano che da quello svizzero.

Egidio Reale (1888-1958)
Se l’Italia non avesse avuto il problema della disoccupazione e degli esuberi, probabilmente il tema degli stagionali sarebbe stato ridimensionato o trattato diversamente o forse non si sarebbe neanche posto. La storia, però, com'è noto, non si fa con i «se». Del resto, quell'Accordo fu ben visto e approvato non solo dalla Svizzera (che grazie ad esso poteva attingere quasi a volontà a una sorta di «serbatoio» di lavoratori pronti per essere impiegati dall'economia svizzera e senza rischi d'inforestierimento, come esigevano la menzionata legge federale del 1931 e il mandato negoziale del 1945), ma anche dall'Italia (che, in quel momento, non aveva praticamente sbocco migliore alla manodopera eccedentaria, anche senza contare sulla probabile ricaduta economica in Italia delle cospicue rimesse degli emigrati).

Clandestini e irregolari

Per le stesse ragioni, non dovrebbe scandalizzare che gli impegni assunti dalla Svizzera fossero oltremodo contenuti (erano loro che chiedevano manodopera, stabilivano i requisiti e fissavano il quadro di riferimento) e dovrebbe far riflettere se, nonostante alcuni giudizi negativi di qualche associazione italiana di allora e di qualche critico isolato di oggi), dopo quell'Accordo aumentarono in Svizzera gli immigrati italiani, sia quelli regolari che quelli irregolari (ossia di persone che, per evitare le lungaggini burocratiche, arrivavano qui col semplice passaporto turistico.

Al riguardo mi sembra opportuno ricordare che si trattava di un fenomeno ben noto alle autorità, con la differenza che quelle italiane le ritenevano uscite «clandestine», mentre quelle svizzere entrate «irregolari», (facilmente) regolarizzabili. Era infatti notorio che numerose imprese svizzere cercavano manodopera e molti italiani pensavano che bastasse entrare in Svizzera per trovare un posto di lavoro, magari tramite conoscenze, per lo più compaesani o anche associazioni, Consolati, Missioni cattoliche italiane. In molti casi tuttavia la ricerca non raggiungeva lo scopo sperato e il rientro in patria era inevitabile.

Per la Svizzera, come detto, non si trattava di «clandestini», ma al massimo di «irregolari», la cui regolarizzazione non poneva in genere grandi difficoltà, a condizione che disponessero di un contratto di lavoro valido. C’era anche, fin dal 1945, una parte di immigrazione «clandestina», ma era molto esigua perché i clandestini sapevano di correre il rischio di essere individuati ed espulsi.

In conclusione: italiani venuti… perché chiamati!

Gli accenni precedenti, per quanto frammentari e sommari, lasciano facilmente intuire che l’immigrazione italiana in Svizzera nel secondo dopoguerra non sia stata affatto un’operazione semplice, ma nemmeno tanto problematica, come invece certe ricostruzioni farebbero pensare. Benché in quel periodo il lavoro abbondasse, non è affatto vero che bastava presentarsi all'ufficio del personale di un’azienda per chiedere un lavoro e ottenerlo.

In questo contesto, è comprensibile che qualche immigrato abbia riassunto la sua prima esperienza migratoria affermando di essere venuto qui come turista, in realtà con l’intenzione di cercare un lavoro e di averlo ottenuto. Ma anche in questi casi non va dimenticato che, secondo le leggi e i regolamenti esistenti allora e anche dopo, l’assunzione della manodopera estera era sempre accompagnata da una richiesta e dalla relativa autorizzazione delle autorità competenti per il rilascio dei permessi di soggiorno e la registrazione nei registri della Polizia degli stranieri (e magari «schedati»). 

In effetti, soprattutto nei primi decenni del dopoguerra, gli immigrati italiani sono arrivati qui a decine di migliaia (a metà degli anni Sessanta costituivano più del 50% della popolazione straniera) perché l’economia svizzera aveva assoluto bisogno di loro, erano richiesti! Quelli che sono rimasti lo hanno fatto per una loro libera scelta, si sono integrati, molti hanno acquisito la doppia cittadinanza e sono diventati a pieno titolo italiani e svizzeri con un «passato migratorio»!

Giovanni Longu