L’accordo italo-svizzero verbale del 1945 mostrò quasi subito il suo limite perché la Svizzera era scontenta dei ritardi con cui arrivavano i lavoratori richiesti a causa della farraginosa burocrazia italiana e l’Italia non gradiva che il reclutamento avvenisse per lo più nominalmente da parte delle imprese svizzere direttamente nelle regioni del Nord, specialmente Lombardia e Veneto, sottraendo personale qualificato alle industrie che si apprestavano alla ripresa. All'Italia però non conveniva protestare perché in quel momento sembrava prioritario ridurre i rischi della disoccupazione e questo sbocco migratorio sembrava provvidenziale, tanto più che la Svizzera guardava con interesse al mercato del lavoro italiano. Per questo la Legazione di Berna aveva autorizzato i datori di lavoro svizzeri a reclutare anche direttamente in Italia il personale di cui avevano bisogno.
L’Accordo di emigrazione del 1948
Allo scopo di «mantenere e sviluppare il movimento emigratorio tradizionale dall'Italia in Svizzera» (prevalentemente stagionale), appianare le divergenze recenti e regolare meglio i flussi (limitando, per esempio, il reclutamento individuale a vantaggio di quello collettivo tramite i canali ufficiali e col controllo della Legazione e degli uffici consolari), il governo italiano chiese alla Svizzera un accordo scritto, che sarà poi sottoscritto il 22 giugno 1948: «Accordo tra la Svizzera e l’Italia relativo all'immigrazione dei lavoratori italiani in Svizzera».
Al riguardo mi sembra opportuno ricordare che l’Accordo non
riguardava l’emigrazione/immigrazione italiana in Svizzera in tutte le sue
forme e durata, ma solo la parte, sia pure prevalente, «stagionale» o comunque
temporanea, come bene indicava il primo articolo: «Il presente accordo si
applica all'immigrazione in Svizzera di mano d'opera stagionale o ammessa a
titolo temporaneo».
| Egidio Reale (1888-1958) |
Clandestini e irregolari
Per le stesse ragioni, non dovrebbe scandalizzare che gli
impegni assunti dalla Svizzera fossero oltremodo contenuti (erano loro che
chiedevano manodopera, stabilivano i requisiti e fissavano il quadro di
riferimento) e dovrebbe far riflettere se, nonostante alcuni giudizi negativi
di qualche associazione italiana di allora e di qualche critico isolato di
oggi), dopo quell'Accordo aumentarono in Svizzera gli immigrati italiani, sia
quelli regolari che quelli irregolari (ossia di persone che, per evitare le
lungaggini burocratiche, arrivavano qui col semplice passaporto turistico.
Al riguardo mi sembra opportuno ricordare che si trattava di
un fenomeno ben noto alle autorità, con la differenza che quelle italiane le
ritenevano uscite «clandestine», mentre quelle svizzere entrate «irregolari»,
(facilmente) regolarizzabili. Era infatti notorio che numerose imprese svizzere
cercavano manodopera e molti italiani pensavano che bastasse entrare in
Svizzera per trovare un posto di lavoro, magari tramite conoscenze, per lo più
compaesani o anche associazioni, Consolati, Missioni cattoliche italiane. In
molti casi tuttavia la ricerca non raggiungeva lo scopo sperato e il rientro in
patria era inevitabile.
Per la Svizzera, come detto, non si trattava di
«clandestini», ma al massimo di «irregolari», la cui regolarizzazione non
poneva in genere grandi difficoltà, a condizione che disponessero di un contratto
di lavoro valido. C’era anche, fin dal 1945, una parte di immigrazione
«clandestina», ma era molto esigua perché i clandestini sapevano di correre il
rischio di essere individuati ed espulsi.
In conclusione: italiani venuti… perché chiamati!
In questo contesto, è comprensibile che qualche immigrato abbia riassunto la sua prima esperienza migratoria affermando di essere venuto qui come turista, in realtà con l’intenzione di cercare un lavoro e di averlo ottenuto. Ma anche in questi casi non va dimenticato che, secondo le leggi e i regolamenti esistenti allora e anche dopo, l’assunzione della manodopera estera era sempre accompagnata da una richiesta e dalla relativa autorizzazione delle autorità competenti per il rilascio dei permessi di soggiorno e la registrazione nei registri della Polizia degli stranieri (e magari «schedati»).
In effetti, soprattutto nei primi decenni del dopoguerra, gli immigrati
italiani sono arrivati qui a decine di migliaia (a metà degli anni Sessanta
costituivano più del 50% della popolazione straniera) perché l’economia
svizzera aveva assoluto bisogno di loro, erano richiesti! Quelli che sono rimasti lo hanno fatto per una loro libera scelta, si sono integrati, molti hanno acquisito la doppia cittadinanza e sono diventati a pieno titolo italiani e svizzeri con un «passato migratorio»!
Giovanni Longu
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