Riprende, con le considerazioni che seguono, la serie
degli articoli sulla storia dell’immigrazione
italiana in Svizzera, «una storia lunga, complessa e avvincente», come scrivevo
nel primo articolo del 18 gennaio 2017 (http://disappuntidigiovannilongu.blogspot.ch/2017/01/italiana-in-svizzera-1-una-storia.html). Mi sembra utile ripercorrerla perché, nonostante la sua
importanza per conoscere l’evoluzione della Svizzera e in parte anche dell’Italia
degli ultimi 150 anni, è poco conosciuta e perciò inutilizzabile. Se davvero,
come riteneva il grande politico e filosofo latino Cicerone, la storia
dev’essere «maestra di vita» (Historia magistra vitae), quella
dell’emigrazione italiana potrebbe suggerire qualche utile considerazione sulle
politiche di accoglienza e d’integrazione delle moderne ondate immigratorie che
interessano soprattutto l’Italia e l’Europa.
Contributi diretti e indiretti degli immigrati
Spesso si fanno
confronti o collegamenti azzardati e molto approssimativi tra i profughi (forse
erroneamente chiamati anche migranti) che cercano di farsi una vita in
Occidente, specialmente in Europa, e gli emigrati italiani della seconda metà
dell’Ottocento e di buona parte del Novecento, che hanno «invaso» il mondo alla
ricerca del benessere. Da questi confronti emerge soprattutto una diffusissima ignoranza
sulla storia dell’emigrazione italiana, ridotta sovente al suo momento
iniziale, ossia alle condizioni di partenza, e dimenticando la complessità e la
ricchezza di una storia che ha contribuito, fra l’altro, a far conoscere e
apprezzare l’Italia nel mondo.
Non è possibile rifare
questa storia in pochi articoli, ma ritengo utile puntualizzare di tanto in
tanto qualche aspetto dell’emigrazione italiana su cui si riflette poco.
In genere si è più
facilmente portati ad esaltare il contributo positivo diretto degli emigrati.
Per quelli immigrati in Svizzera non si può fare a meno di ricordare, per
esempio, ch’essi hanno contribuito in misura determinante alla creazione
dell’infrastruttura ferroviaria e stradale di questo Paese, all’innalzamento di
autentiche muraglie di cemento armato o di pietra e terra per trattenere le
acque preziose dei laghi artificiali sfruttate per il fabbisogno energetico
delle industrie, dei trasporti e delle abitazioni, alla sistemazione
urbanistica delle principali città svizzere, ecc. Si pensa poco, invece, al
contributo indiretto ch’essi hanno dato alla trasformazione di questa società,
del modo di vivere, di alimentarsi, di lavorare, di pensare, di orientarsi
nella vita.
Il contributo alla sicurezza sul lavoro
In questo articolo mi
riferisco in particolare al contributo indiretto che gli immigrati (evidentemente
non solo italiani) hanno dato alla sicurezza sul lavoro. Un contributo, sia ben
chiaro, del tutto involontario, perché francamente nessuno dei protagonisti avrebbe
offerto la propria vita per far avanzare la sicurezza negli scavi e sui
cantieri. Proprio per questo, però, il loro sacrificio, legato alla loro
condizione di lavoratori immigrati, merita di essere ricordato con
riconoscenza.
Il dato di partenza,
ben noto prima ancora che agli storici a moltissimi immigrati, è che in
Svizzera (per limitare il campo a questo Paese che gli immigrati italiani hanno
contribuito a far crescere e diventare quello che è, ma si potrebbe parlare ugualmente
della Francia, del Belgio, della Germania, ecc.) agli stranieri erano lasciati,
almeno inizialmente, i lavori che gli svizzeri non volevano più svolgere o
perché meno retribuiti o perché più pesanti o perché pericolosi.
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«Vittime del lavoro» del Gottardo, di Vincenzo Vela |
Per la stragrande
maggioranza degli immigrati italiani fino a pochi decenni fa si deve
aggiungere, purtroppo, ch’essi non erano quasi mai adeguatamente preparati né
al lavoro ch’erano chiamati a svolgere né ai pericoli connessi. D’altra parte,
non è un mistero che i datori di lavoro, soprattutto nei periodi in cui si sono
verificate le più grandi disgrazie col maggior numero di vittime, investivano
poco, il meno possibile, nella sicurezza, anche quando si sapeva benissimo che
i pericoli erano reali, soprattutto quando si trattava di grandi cantieri di
montagna. Bisogna anche aggiungere che la legislazione in materia non era
ancora evoluta e i controlli, sia da parte delle autorità che dei sindacati,
erano inesistenti o comunque insufficienti.
Ci vollero parecchie
«bare allineate», per usare un’espressione dell’Avvenire dei lavoratori del
1966, per far sì che la sicurezza sul lavoro evolvesse e fosse garantita il più
possibile.
Carenze igieniche e di sicurezza durante le costruzioni
ferroviarie
Una breve sintesi di
questo contributo indiretto non può che partire dalla prima grande impresa del
lavoro degli immigrati italiani in Svizzera, lo scavo della galleria
ferroviaria del Gottardo (1872-1882), durante il quale morirono non meno di
200 persone. La cosiddetta «anemia del Gottardo» (causata,
come è stato accertato più tardi, da una larva, l’Anchylostoma duodenalis)
dovuta alle pessime condizioni ambientali e igieniche, fece molte più vittime. Nei
successivi trafori ferroviari le condizioni igieniche furono migliorate e le
vittime diminuirono.
Durante la realizzazione della galleria del
Sempione (1898-1906) le condizioni di sicurezza migliorarono rispetto al
traforo del Gottardo, ma non ancora abbastanza. In seguito a incidenti vari
morirono infatti 67 operai, ma almeno altri 200 sono morti dopo la fine dei
lavori di pneumoconiosi, un’affezione dei polmoni provocata dall’inalazione di
polvere. «Ciascuna di queste morti ha troncato una vita di gioie e di
sofferenze, di successi e di fallimenti, di speranze e di delusioni», ricorderanno
in occasione delle celebrazioni per i 100 anni della galleria ferroviaria del
Sempione i parroci di Briga e di Varzo.
Ulteriori miglioramenti delle condizioni
igieniche e della sicurezza si ebbero durante il traforo del Lötschberg
(1906-1913). Per esempio, venne data molta importanza all’igiene personale. In
galleria bisognava utilizzare solo i servizi igienici predisposti e al termine
del turno di lavoro sia a Goppenstein che a Kandersteg gli operai potevano
usufruire di docce, dove potevano anche depositare gli indumenti da lavoro per
farli asciugare.
Si dirà che ciò nonostante perirono in un sol
colpo (24 luglio del 1908) ben 25 minatori, ma le cause non furono imputabili
alle condizioni igieniche bensì alla sottovalutazione dei rischi e
all’insufficiente conoscenza della roccia che si stava scavando. Tanto è vero
che, per evitare altre disgrazie, vennero ordinati quei sondaggi del sottosuolo
che avrebbero dovuto essere effettuati prima di iniziare i lavori. Quella
disgrazia e le altre precedenti e seguenti, che causarono la morte in totale di
116 persone, misero ancora una volta in evidenza la necessità di investire
maggiormente nella sicurezza.
Insufficienti sistemi di sicurezza nei cantieri di
montagna
Non solo i cantieri
ferroviari rappresentavano di per sé un pericolo, per cui la sicurezza avrebbe
dovuto avere una parte importante fin dalla progettazione delle opere, ma anche
i cantieri di montagna delle imprese idroelettriche avrebbero dovuto essere
predisposti tenendo conto dei pericoli e garantendo il massimo di sicurezza
possibile.
Questo non è sempre avvenuto, da una parte per una irresponsabile sottovalutazione dei rischi e dall’altra per un insufficiente rispetto delle persone che eseguivano lavori già di per sé pericolosi (scavi, trasporti, brillamento di mine, ecc.).
Questo non è sempre avvenuto, da una parte per una irresponsabile sottovalutazione dei rischi e dall’altra per un insufficiente rispetto delle persone che eseguivano lavori già di per sé pericolosi (scavi, trasporti, brillamento di mine, ecc.).
L’episodio più tragico
è avvenuto nel 1965, quando 88 lavoratori, di cui 56
italiani, che nel 1965 furono travolti da una enorme valanga di ghiaccio e
detriti staccatasi da un ghiacciaio e precipitata su un cantiere
(obiettivamente mal collocato) mentre si stava costruendo la diga di Mattmark,
nel Vallese (cfr. http://disappuntidigiovannilongu.blogspot.ch/2017/08/migranti-responsabilita-e-il-richiamo.html).
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Il cantiere di Mattmark travolto dal crollo di un ghiacciaio il 30.08.1965. |
Gli effetti benefici
si costateranno solo più tardi, non nell’immediato. L’anno seguente (1966),
infatti, in un altro cantiere di montagna, mentre si costruiva un’altra diga
tra Robiei e Stabiascio (Ticino), in una galleria in
cui si era formata una sacca di gas velenosi persero la vita 15 operai italiani
e due pompieri di Locarno. Anche su questa tragedia l’intervento dei media fu
determinante per spingere le autorità e i politici a realizzare sistemi di prevenzione
e di sicurezza più adeguati ed efficaci.
A distanza di anni è facile costatare i
miglioramenti intervenuti nel campo della sicurezza. Proprio oggi (sabato 9
settembre), mentre scrivo, in una località del Vallese non lontana da Mattmark,
le autorità hanno fatto evacuare una cinquantina di abitazioni (circa 220
persone) e mobilitato i vigili del fuoco e la protezione civile a causa del
rischio che una parte consistente del sovrastante ghiacciaio (sotto
osservazione dal 2014) si stacchi e precipiti a valle*. Ora la popolazione può
sentirsi al sicuro.
Mi vengono spontanee a questo punto alcune
domande. Quanto di questa attenzione e di queste precauzioni per mettere in
sicurezza la popolazione è dovuto al sacrificio degli 88 lavoratori stroncati
dalla valanga precipitata in assenza di alcun sistema di allerta a Mattmark? E quanti
ricordano il contributo «indiretto» di migliaia di immigrati per rendere più
efficienti ed efficaci i sistemi di sicurezza sul lavoro di questo Paese?
Giovanni Longu
Berna, 13.09.2017
Berna, 13.09.2017
* Effettivamente nella notte tra sabato e
domenica 10 settembre una massa imponente di ghiaccio è precipitata a valle ma
senza raggiungere l’abitato e provocare danni (n.d.a.)