03 giugno 2020

Immigrazione italiana 1970-1990: 15. Molti partirono, la maggior parte restò


La crisi economica degli anni 1974-76 si abbatté sulla Svizzera tanto inaspettatamente, perché il boom economico sembrava inarrestabile, quanto drammaticamente, perché moltissimi persero il lavoro senza alcuna copertura assicurativa. Poiché tra costoro molti erano immigrati (italiani), su di essi si scaricò una forte pressione per rientrare in patria. Le istituzioni svizzere cercarono di salvare prioritariamente l’economia e il mercato del lavoro interno, quelle italiane di facilitare il rientro ai connazionali decisi a tornare e di tutelare al meglio coloro che avevano deciso di restare. Le une e le altre affrontarono la crisi pensando soprattutto al dopo. In effetti, le conseguenze della crisi incisero profondamente sul futuro della collettività italiana immigrata ed è per questo che è utile rievocare quel periodo così importante.

Domande inevitabili
A causa della crisi molti immigrati tornarono al loro Paese.
La crisi del 1974-76, seguita allo shock petrolifero del 1973, colpì la Svizzera come gli altri Stati industrializzati dell’occidente, provocando chiusure di aziende, perdite di posti di lavoro, crollo della produzione e del reddito, disoccupazione. Le conseguenze immediate, però, non furono uguali per tutti i lavoratori. I più colpiti furono gli stranieri. Infatti, non essendoci ancora l’assicurazione obbligatoria contro la disoccupazione ed essendo il lavoro la condizione essenziale per avere il permesso di soggiorno, per molti disoccupati stranieri la via del ritorno al proprio Paese divenne inevitabile.
Poiché su una questione così importante si è scritto e si continua a scrivere in termini alquanto generici e confusi, è senz’altro utile una maggiore chiarezza non solo sui numeri della crisi, ma anche sulle diverse categorie di stranieri coinvolti, tanto quelli che decisero di rientrare quanto quelli che restarono, e sulle conseguenze per gli uni e per gli altri. Le domande sono dunque tante e non è sempre facile dare risposte esaustive perché molti dati sono incompleti.
Per esempio, quando ci s’interroga sul numero degli stranieri «costretti a rientrare» al proprio Paese, non si può rispondere con una cifra precisa perché se furono tanti coloro che avendo perso il lavoro rischiavano di perdere anche il permesso di soggiorno, molti avevano già deciso di rientrare in quel periodo per altre ragioni. Non va inoltre dimenticato che furono coinvolte nel rientro non solo persone «attive» (cioè occupate o disoccupate), ma anche quelle «non attive» delle loro famiglie. E poi, in che senso si può parlare di «costrizione»?
E’ facile comunque immaginare la drammaticità della situazione sia per chi si apprestava a partire e sia per coloro che intendevano restare. Non erano per nulla rassicuranti le notizie che circolavano sulla chiusura di fabbriche, sui posti di lavoro persi, sulle continue partenze di connazionali, sulle nuove condizioni di lavoro che si prospettavano non solo a causa della recessione, ma anche a causa della razionalizzazione delle imprese già in corso da qualche decennio, senza dimenticare che continuava a pesare l’ostilità degli ambienti xenofobi e l’incertezza dell’avvenire. Alcune cifre aiuteranno senz’altro a comprendere meglio la situazione.

I numeri della crisi
Per avere un quadro sufficientemente preciso e oggettivo della crisi degli anni 1974-76 non si può fare a meno di cercare almeno di rispondere a queste domande fondamentali: Quanti furono i posti di lavoro persi? Quanti lavoratori rimasero disoccupati? Quanti stranieri dovettero rientrare perché senza lavoro o per altri motivi? La Svizzera si è potuta salvare perché ha «esportato» la disoccupazione? Poiché non sempre esistono dati precisi per ogni domanda, si cercherà di seguito di indicare risposte almeno plausibili.
In mancanza di dati certi, le risposte alla prima domanda non possono che essere considerate orientative. Fonti sindacali e giornalistiche, in base soprattutto a calcoli sulle variazioni della popolazione attiva (compresi stagionali e frontalieri) hanno stimato che tra il 1974 e il 1976 (il periodo peggiore della crisi) siano stati persi in Svizzera circa 350.000 posti di lavoro. Per l’Ufficio federale di statistica (UST), invece, la cifra si aggirerebbe attorno a 300.000.
Andrebbe inoltre ricordato che alcuni posti «persi» in realtà vennero ristrutturati e altri ne furono creati ex novo. Così si spiega perché nelle statistiche dell’impiego dell’UST la differenza tra i posti occupati all’inizio della crisi (1973) e quelli alla fine del periodo più acuto (1976) è di appena 258.000 posti.
Se l’ordine di grandezza può essere situato ragionevolmente fra questa cifra e 300.000, appare del tutto infondata l’affermazione secondo cui la crisi avrebbe portato «al taglio di oltre 300.000 posti di lavoro tra gli stranieri» (Toni Ricciardi). Tra i posti persi, infatti, una parte benché minoritaria era occupata da svizzeri.
Resta tuttavia difficile fornire in questa sede cifre precise sugli stranieri, perché occorrerebbero calcoli piuttosto complessi riguardanti non solo il numero degli «attivi» durante la crisi, distinti secondo le singole categorie di stranieri, ma anche le variazioni all’interno di ciascuna di esse (trasformazioni dei permessi da stagionali ad annuali e da annuali a domiciliati, naturalizzazioni, ecc.). Qui basta sapere che gli stranieri furono di gran lunga i più colpiti dalla crisi.

Quanti stranieri furono «costretti» a rientrare?
Prima di rispondere a questa domanda va detto che il peso maggiore della crisi, tra gli stranieri, fu scaricato sugli stagionali e sui frontalieri, ossia le categorie che non potevano invocare alcun diritto al rinnovo del contratto di lavoro e pertanto a rimanere in Svizzera. Tra l’agosto 1973 e l’agosto 1976 il numero degli stagionali diminuì di circa 134.000 unità e quello dei frontalieri di 19.000 unità.
Escludendo queste due categorie di stranieri per le quali sarebbe per lo meno improprio parlare di «rientro» non facendo parte della popolazione «residente», potrebbe apparire facile rispondere alla domanda riguardante il presunto forzato rientro delle altre due categorie di stranieri, i domiciliati e gli annuali. Invece non è affatto facile.
Gli stagionali furono i più colpiti dalla crisi
(Corriere della Sera del 16.12.1974)
Per molti immigrati, infatti, sulla decisione di rientrare influirono non solo la situazione occupazionale e l’incertezza del futuro, ma anche altre considerazioni riguardanti, per esempio, la pressione psicologica esercitata su molti stranieri dalla xenofobia ancora molto diffusa, la preoccupazione per la scolarizzazione dei figli in età scolastica o prescolastica, una precedente programmazione del rientro, ecc.
Per i «domiciliati», per esempio, non c’era alcun obbligo di rientrare in patria anche se disoccupati, eppure oltre 100.000 (di cui oltre la metà «attivi») vi rientrarono fra il 1974 e il 1976. Negli stessi anni fecero ritorno al loro Paese anche più di 200.000 «annuali» (di cui oltre 117.000 «attivi»), ma anche per loro non si può dire che siano rientrati in seguito alla perdita del posto di lavoro. Non si spiegherebbe infatti perché nello stesso periodo siano potuti entrare in Svizzera ben 135.714 annuali e 16.381 domiciliati fra cui complessivamente circa 65.000 «attivi», che evidentemente andarono ad occupare posti liberi.
A questo punto è facile rispondere alla questione se coloro che rientrarono al loro Paese vi furono «costretti» e se la Svizzera abbia «esportato la disoccupazione», come asseriscono Toni Ricciardi e altri. Ebbene la risposta non può che essere negativa, almeno nella forma che lasciano intendere le espressioni citate. Non risulta infatti alcun caso di immigrato allontanato o espulso dalle autorità svizzere perché aveva perso il lavoro. Ciò non significa che la diminuzione degli stranieri non sia stata ben vista dal governo federale che proprio prima dello scoppio della crisi si era proposto non solo la stabilizzazione ma anche la riduzione della manodopera estera. Come pure non significa affatto che numerose aziende abbiano approfittato della crisi per introdurre misure di razionalizzazione e di riduzione del personale.
Purtroppo, come detto, la crisi ha messo in serie difficoltà migliaia di immigrati, che non ebbero alternativa a dover rifare le valigie e ritornarsene con la famiglia al loro Paese. Per molti di essi, il rientro era già programmato; doverlo anticipare dev’essere stato un dramma perché non privo di incognite. Non fu tuttavia una scelta facile neppure per chi decise di restare, perché l’atmosfera era pesante e il futuro incerto.

Immigrati come «ammortizzatore congiunturale»
Per la Svizzera, come è stato riconosciuto anche dalla Commissione federale consultiva per il problema degli stranieri, gli immigrati «servivano», svolgevano in un certo senso una funzione di ammortizzatore congiunturale. Questo gli immigrati, specialmente gli italiani, lo sapevano e non faceva che aggiungere amarezza alla consapevolezza di non essere benaccetti in un Paese che appariva ingrato e troppo duro nei loro confronti.
Superata la crisi, il panorama immigratorio, specialmente per gli italiani, stava per cambiare radicalmente. La generazione dei primi immigrati poté resistere ai cambiamenti incombenti solo per un grande senso di responsabilità verso la seconda generazione che non doveva ricalcare i passi della loro. Ci riusciranno in gran parte, come si vedrà, perché la strada da percorrere anche per i giovani non era sgombra di ostacoli. (Segue)
Giovanni Longu

Festa della Repubblica e «ripartenza»


Finite le celebrazioni per la Festa della Repubblica, quest’anno in tono minore a causa della pandemia, ho riflettuto a quanto sta accadendo in Italia e alla «ripresa» che non sarà facile dopo la crisi economica e sociale provocata dalla Covid-19. 

Due principi fondamentali
Alcune costituzioni iniziano con un «preambolo» che serve solitamente ad evidenziarne i principi ispiratori e gli ideali. La Costituzione svizzera, per esempio, inizia con l’invocazione «In nome di Dio Onnipotente» e prosegue richiamando la vecchia alleanza confederale, la coesione interna, la democrazia, lo spirito di solidarietà e di apertura al mondo, la «responsabilità verso le generazioni future», ecc. La Costituzione italiana, invece, ha inserito i «Principi fondamentali» nei primi dodici articoli.
Al primo posto l’Assemblea costituente (1946-1948) ha indicato le principali caratteristiche dello Stato nella nuova forma repubblicana: «L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione» (art. 1). Si tratta, com’è facile capire, di punti di partenza costitutivi, ma soprattutto come ideali da realizzare giorno per giorno, in stretta collaborazione tra Stato, enti locali e cittadini.
All’articolo 5 sono indicate altre caratteristiche non meno fondamentali, anch’esse intese come punti di partenza e obiettivi da raggiungere: «La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell'autonomia e del decentramento».

Considerazioni
Dopo l'emergenza sanitaria dovuta al Coronavirus, questi due articoli mi sembrano più fondamentali e attuali che mai, sui quali og
ni cittadino italiano dovrebbe riflettere. E’ abbastanza evidente che gli ideali in essi proposti sono lungi dall’essere raggiunti, ma con altrettanta evidenza appaiono irrinunciabili.
Perché, allora, invece di coltivare divisioni e contrapposizioni le forze politiche non cercano l’intesa per garantire ai cittadini più lavoro, più libertà, più partecipazione, più democrazia? Perché, invece di alimentare contrasti tra maggioranza e opposizione, Stato e Regioni, Nord e Sud, ricchi e poveri… non provare a cercare le convergenze necessarie per «ripartire» con entusiasmo in modo da recuperare il più presto possibile le posizioni perse non solo in economia, ma anche nella finanza pubblica e nella coesione sociale?
Perché, anche nel giorno di festa della Repubblica, a molti sembra mancare il sentimento di appartenenza a un Paese straordinario che, se coeso, può contare di più in Europa e nel mondo, mentre disunito conta senz’altro di meno? La struttura dello Stato è complessa e in qualche settore poco efficiente? La si cambi, con gli strumenti previsti dalla Costituzione e tenendo presente che i «Principi fondamentali», specialmente quelli citati, vanno trattati con cautela.
Tutti i cittadini italiani, però, dovrebbero sapere che solo loro possono risollevare l’Italia e avviarla decisamente verso uno sviluppo sostenibile e non possono delegare questo compito all’Unione europea, alla Banca centrale europea o ad altri organismi internazionali. Se lo sanno non resta che ripartire, magari con un pizzico di entusiasmo.
Berna, 3 giugno 2020