Un problema non secondario dell’immigrazione italiana in
Svizzera nel secondo dopoguerra fu costituito dalla presenza tra gli immigrati
italiani di molti attivisti di sinistra e dalla intolleranza delle autorità
svizzere verso ogni forma di propaganda comunista, considerata pericolosa per
l’ordine pubblico, per le relazioni della Svizzera con gli altri Paesi e per la
pace sociale e del lavoro. La forte contrapposizione, in Italia, tra
democristiani e comunisti (estromessi dal governo nel 1947) e il suo riverbero
sull’immigrazione italiana in Svizzera hanno rallentato verosimilmente i
processi di appianamento delle difficoltà e d’integrazione, a danno soprattutto
delle seconde generazioni. Cercare di capire anzitutto l’«anticomunismo»
svizzero è dunque fondamentale per capire l’evoluzione della collettività
italiana in Svizzera nei primi decenni del dopoguerra.
Anticomunismo sempre più deciso
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In Svizzera i comunisti sono stati osservati speciali dal 1918 |
A cavallo tra Ottocento e Novecento, nonostante il
clima
molto liberale che si respirava nella società e nelle istituzioni e l’accoglienza
generosa che dimostrava verso perseguitati politici e fuorusciti, la Svizzera
manifestava grande preoccupazione per la diffusione, ad opera soprattutto di
attivisti stranieri, delle idee rivoluzionarie, anarchiche e comuniste,
ritenute pericolose per l’ancora fragile unità nazionale, per l’economia e per
la società.
Le autorità cominciarono a guardare con sospetto gli
stranieri «rossi» soprattutto dopo la presa del potere in Russia dei comunisti
nel 1917 e, in Svizzera, dopo lo sciopero nazionale del 1918, istigato, come
si disse, da agenti bolscevichi. Nel 1920 i Nel 1920 il Consiglio federale
affermava che la Confederazione ha non solo in diritto, ma anche il dovere di espellere «quegli stranieri che mettono
a pericolo la sicurezza interna od esterna della Confederazione o il benessere
del popolo svizzero».
Da allora, la Confederazione ha sempre considerato dannosa
la propaganda dell’(estrema) destra come dell’(estrema) sinistra, specialmente
di quella comunista. Nel 1932, una manifestazione di antifascisti a Ginevra,
indetta per contrastarne un’altra di fascisti, fu repressa dalla polizia e
dall’esercito uccidendo 13 persone e ferendone altre 65. Il processo che ne
seguì condannò sette manifestanti socialisti e nessun militare. Un ultimo
tentativo di riabilitare i sette condannati, visto che la manifestazione non
aveva alcun carattere rivoluzionario, è stato respinto recentemente sia dal
Consiglio degli Stati (14.06.2018) che dal Consiglio nazionale (09.05.2019) in nome del principio della separazione dei poteri.
Da allora le misure anticomuniste adottate dal
Consiglio federale divennero sempre più chiare e incisive. Per esempio, un
decreto federale del 2 dicembre 1932 escludeva i comunisti dai servizi della
Confederazione e vietava al personale federale di appartenere o di partecipare
«a un’organizzazione comunista». Il Consiglio federale non nascondeva il
suo anticomunismo nemmeno in politica estera. Nel 1934, per esempio, si oppose
all’ingresso dell'Unione Sovietica nella Società delle Nazioni.
Pericolo rosso e pace sociale
Il Consiglio federale seguiva attentamente soprattutto la
situazione interna perché nell’opinione pubblica e specialmente nei partiti
borghesi c’era molta preoccupazione, ritenendo il comunismo incompatibile
con i valori della democrazia, della religione, della famiglia, della proprietà
privata, ecc. Da più parti si chiedeva il divieto del Partito comunista
svizzero (fondato nel 1920), ma il governo per il momento preferì intervenire
solo con direttive, che prevedevano anche sanzioni gravi come la detenzione e
l’espulsione.
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Durante le turbolenze della prima metà del Novecento, la Svizzera voleva tutelarsi come un'«isola di pace». |
Nel 1936, quando anche l’Unione sindacale svizzera
aveva preso nettamente posizione contro il comunismo, il Consiglio federale approvò
un decreto federale (3 novembre 1936) contenente provvedimenti «contro le
mene comuniste» in Svizzera e limitazioni alla partecipazione di oratori
stranieri ad assemblee politiche.
Nel 1937, per evitare che le ideologie fasciste e naziste
che si stavano diffondendo in Svizzera degenerassero in scontri di piazza tra
estremisti di destra ed estremisti di sinistra e inquinassero i rapporti
aziendali, sindacati e padronato conclusero un accordo fondato sul principio
della buona fede e sulla rinuncia agli strumenti tradizionali della lotta di
classe per ricorrere in loro vece alla conciliazione e all’arbitrato. Con tale
accordo, denominato «Pace del lavoro», si volevano evitare anche
possibili interferenze esterne dell’Italia fascista e della Germania nazista,
mettendo in pericolo non solo la pace sociale, ma anche la libertà e la
democrazia svizzera
Restrizioni all’attività politica degli stranieri
Dal 1945, una volta abrogate le disposizioni della
legislazione straordinaria del tempo di guerra, si volle dare una soluzione più
chiara e «ordinaria» alla questione comunista, dapprima ancora con «direttive»
e poi con un «decreto del Consiglio federale». Entrambi i documenti sono
fondamentali per capire l’«anticomunismo» delle autorità svizzere.
Con le «Direttive del Dipartimento federale di giustizia
e polizia concernenti l’attività di associazioni politiche di stranieri in
Svizzera» del 7 agosto 1945, in sostanza venivano riprese e precisate le
direttive già emanate in precedenza. Alcune di esse erano particolarmente
eloquenti, anche se, è giusto precisarlo, non si riferivano unicamente alle «mene
comuniste», ma anche alle «mene fasciste» e in genere ai
totalitarismi. Per esempio:
«1. Le associazioni politiche di stranieri sono tenute a notificare la
loro esistenza alle autorità cantonali competenti, a sottoporre ad esse i loro
statuti, nonché ad indicare ad esse i nomi dei membri del comitato, […]hanno
l'obbligo di fornire qualsiasi informazione richiesta al detto Dipartimento e
alle autorità cantonali competenti. Le associazioni politiche di stranieri che
hanno carattere esclusivo di partito sono vietate».
«3. Le associazioni politiche di stranieri e i loro
membri devono astenersi da qualsiasi intromissione in questioni che riguardano
la Svizzera. Ad essi è vietato di esercitare qualsiasi pressione su terzi».
«4. Agli stranieri è vietato di fare cortei e di
tenere riunioni pubbliche, che abbiano carattere politico. Il Dipartimento
federale di giustizia e polizia può tuttavia, sulla proposta dell'autorità
cantonale, in casi eccezionali, accordare dei permessi».
«5. I Cantoni hanno il diritto di sottoporre a
un'autorizzazione e di sorvegliare le riunioni di associazioni politiche di
stranieri in locali chiusi. […]. L'autorizzazione deve essere rifiutata
allorché si dovesse ritenere che la manifestazione potrebbe pregiudicare o
esporre a pericolo la sicurezza interna o esterna oppure la neutralità».
Ulteriori restrizioni dal 1948
Il secondo documento fondamentale per capire l’anticomunismo
svizzero e le ripercussioni nei confronti di attivisti italiani è il «Decreto
del Consiglio federale concernente i discorsi politici di stranieri» del 24
febbraio 1948. Esso abrogava il decreto del 1936, ma ne manteneva la sostanza e
riteneva ancora applicabili le Direttive del 1945. All’articolo 2 veniva
precisato: «Gli stranieri che non sono in possesso di un permesso di
domicilio possono prendere la parola su argomenti politici nelle assemblee
pubbliche o private solamente se hanno ottenuto un’autorizzazione speciale.
Sono riservate le direttive del Dipartimento federale di giustizia e polizia
del 7 agosto 1945 concernenti l’attività di associazioni politiche di stranieri
in Svizzera». Non deve sfuggire che questa disposizione concerneva anche le
«assemblee private».
L’articolo 3 precisava inoltre che «l'autorizzazione sarà
negata se vi sia da temere che venga posta in pericolo la sicurezza interna o
esterna del paese o che sia turbato l'ordine pubblico. Gli oratori stranieri
devono astenersi da qualsiasi intromissione in questioni che riguardano la
politica interna della Svizzera».
Per non lasciare dubbi sulla serietà delle disposizioni, l’articolo 5
indicava le possibili sanzioni: «La polizia degli stranieri può allontanare
dalla Svizzera gli stranieri che contravvengono al presente decreto […].
In caso d'infrazioni gravi o ripetute, può essere pronunciata la espulsione in
forza dell'articolo 70 della Costituzione federale, o dell'articolo 10, primo
capoverso, lettera a, della legge del 26 marzo 1931 concernente la dimora e il
domicilio degli stranieri […]».
A questo punto ci si può chiedere perché il Consiglio federale intervenne
con un decreto «sui discorsi politici di stranieri» proprio agli inizi del
1948, quando ormai in Svizzera, dopo l’epurazione dei fascisti, la situazione
era abbastanza tranquilla. E’ forse impossibile dare una risposta precisa, ma è
fortemente probabile che il Consiglio federale, a pochi mesi dalla firma
dell’accordo con l’Italia sull’immigrazione (22.06.1948), volesse far
sapere chiaramente agli emigranti italiani che la durissima contrapposizione
ideologica tra comunisti e democristiani, alimentata dalla vicinanza delle
elezioni politiche italiane del 18-19 aprile1948, in Svizzera non sarebbe stata
tollerata. Anzi, non sarebbe stata tollerata alcuna propaganda politica
ritenuta pericolosa.
Il messaggio riuscì a passare? Come hanno reagito dopo il
1948 gli immigrati italiani e le autorità federali? (Segue)
Giovanni Longu
Berna, 22.05.2019
Berna, 22.05.2019