04 marzo 2022

Ucraina ieri e oggi

Ripubblico, tale e quale, un articolo del 2014 soprattutto per le conclusioni a cui ero giunto: inutilità della guerra e necessità del dialogo. Aggiungo solo che ritengo ingiustificabile qualsiasi guerra, tanto più da chi si proclama «cristiano», e che la Svizzera («forte del suo esempio vivente e della sua tradizione pacifica e proficua convivenza tra etnie e culture diverse, ma aperte alla collaborazione e al rispetto reciproco») non solo «potrebbe fare di più», ma dovrebbe fare di più. 

17 settembre 2014

Ucraina 1914-2014: evitare gli errori del passato


Le cronache su quel che sta avvenendo nell’Europa orientale non lasciano purtroppo ben sperare: nella migliore delle ipotesi, infatti, i problemi all'origine della crisi ucraina verranno repressi ma non eliminati. Essi hanno origini lontane e può essere utile ricordarle.

Ucraina: un Paese quasi sconosciuto fino al 1914
La popolazione ucraina è in prevalenza di origine slava, ma nei secoli prima e dopo l’anno 1000 ha subito molteplici influssi di diversa origine, sia orientale che occidentale. L’Ucraina di oggi (più di 600.000 kmq e una popolazione di più di 45 milioni di abitanti) è il risultato di una lunga storia, piuttosto complessa, di popoli e dominazioni differenti, che non ha ancora trovato il suo punto di equilibrio stabile. Alcuni elementi conflittuali già presenti cent’anni fa, quando l’Ucraina, suddivisa in governatorati, faceva parte dell’Impero Russo, sono riemersi in questi ultimi anni dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica.
Per cercare di comprendere quello che le cronache quotidiane ci descrivono e ci mostrano della parte orientale dell’Ucraina è utile ricordare qual era la situazione di quella regione cent’anni fa. Questo riferimento temporale non è casuale, ma dovuto al fatto che prima dello scoppio della prima guerra mondiale dell’Ucraina si conosceva ben poco, se non che si trattasse di una grande regione dell’est europeo «le cui sorti erano indissolubilmente congiunte con quelle della Russia».
Solo gli specialisti conoscevano la storia piuttosto complicata delle popolazioni ucraine, che non costituirono mai un’entità unica, ma si svilupparono con storie diverse subendo anche influssi diversi da parte degli Stati vicini, della Russia soprattutto ma anche della Polonia e della Lituania. Sapevano certamente che una di queste popolazioni era russofona e che quando la Russia aveva cercato di russificare l’intera Ucraina, limitando ad esempio l’uso della lingua ucraina, scoppiò una vera rivoluzione (1905).

1914-18: importanza strategica dell’Ucraina
Solo dopo il 1914 il grande pubblico occidentale cominciò a conoscere più nel dettaglio la realtà ucraina e il valore strategico di questa regione, fino ad allora sotto l’influenza incontrastata della Russia.
Quando allo scoppio della prima guerra mondiale gli Imperi centrali di Germania e Austria-Ungheria dichiararono guerra alla Russia, l’Ucraina venne occupata militarmente dal potente vicino, per impedire che diventasse facile preda dei suoi nemici, perché allora l’Ucraina era considerata il «granaio d’Europa».
Com’è noto, le operazioni militari non andarono bene alla Russia, sconvolta nel 1917 dalla «rivoluzione d’ottobre» guidata da Lenin e dalla guerra civile. L’Ucraina ne approfittò per sottrarsi all’influenza russa, proclamarsi repubblica indipendente (22 novembre 1917) e firmare una pace separata con l’Impero germanico, che sembrava garantire la sua indipendenza e integrità.

Il sogno infranto degli ucraini
Il sogno degli ucraini di non dover continuare a lavorare per i russi sembrava finalmente realizzato. Pensavano che il loro Paese avesse finito di essere considerato «una regione da sfruttare» e avrebbe presto raggiunto, in altre condizioni, grazie alle immense ricchezze che possedeva, il grado di prosperità che gli spettava. Sembrava cambiare anche la prospettiva commerciale perché, come osservava un commentatore occidentale, «gli sbocchi dell’Ucraina sono «naturalmente rivolti verso l’Europa».
Non tutti, meno che mai gli ucraini, si resero subito conto che non bastava proclamarsi indipendenti per esserlo davvero. Infatti la nuova repubblica nel febbraio 1918 divenne di fatto una specie di «protettorato tedesco».
Un quotidiano ticinese commentava l’indipendenza dell’Ucraina grazie al sostegno della Germania in questi termini: «E’ ormai un fatto compiuto la pace con l'Ucraina che a quanto sembra assicura agli Imperi centrali importanti contingenti di grano, migliorando così la loro situazione economica».
Lo stesso giornale, qualche settimana più tardi, denunciava la strategia della Germania, che non bastandole l’estromissione della Russia dall’Ucraina, aveva occupato Odessa, la maggiore città commerciale russa del mar Nero in territorio ucraino, e contava di estendere ulteriormente il suo dominio: «La notizia della caduta di Odessa denota quale valore si possa attribuire alle paci che gli Imperi vanno concludendo in Oriente. Gli Austro-Tedeschi hanno stipulato la pace con l’Ucraina e scorrazzano per l’Ucraina in barba ai trattati, occupano città, fanno la guerra a chi e dove vogliono. […] Se si continua di questo passo i Russi un giorno finiranno, svegliandosi dall' incantesimo leninista, col trovarsi legati, imbavagliati e premuti in ogni senso dai Tedeschi. Allora forse insorgeranno, ma sarà troppo tardi. La Germania lavora a sgretolare mano mano l’Intesa [costituita principalmente da Francia, Russia e Gran Bretagna] cominciando dai popoli più piccoli che hanno i territori invasi».
Invano gli ucraini, che si erano accorti ben presto di essere nuovamente occupati, cominciarono a criticare il nuovo governo e a rimpiangere il vecchio. Molti giornali, nonostante la censura sulla stampa, chiesero invano «l'unione dell'Ucraina alla grande Repubblica russa».

Le ricchezze dell’Ucraina
Nel 1918 un ufficiale svizzero, nel redigere per un quotidiano ticinese una specie di nota segnaletica dell’Ucraina, ricordava anzitutto che si trattava di un «immenso paese» con una superficie di quasi tre volte quella dell’Inghilterra e una popolazione di 40 milioni di abitanti in forte crescita.
Passava poi a segnalare le ricchezze di questo Paese cominciando dall’agricoltura: «La produzione agricola dell’Ucraina è incredibile, sopra tutto per quanto riguarda il frumento: essa costituisce il granaio della Russia». Oltre al frumento l’Ucraina produceva l’88 per cento dell’intera produzione russa di zucchero e grandi quantitativi di altri prodotti come granoturco, semi oleosi, frutta, legumi, miele. Allevava inoltre «molto bestiame».
L’Ucraina, aggiungeva l’ufficiale-cronista, «ha pure un sottosuolo molto ricco con ferro carbone, petrolio, sale, mercurio, manganese» (allora ritenuto «indispensabile per la produzione di certe qualità superiori di acciaio»), ecc.
Da buon svizzero, riteneva infine che l’Ucraina, grande Paese ricco di prodotti dell’agricoltura e del sottosuolo, potesse rappresentare per la Svizzera un buon mercato, da cui importare tanti prodotti «di grande utilità» e in cui esportare per esempio orologi, motori a vapore, utensili agricoli ed in generale prodotti metallurgici.
Già da queste sommarie indicazioni si può comprendere quanto l’Ucraina fosse ritenuta importante per la Russia e appetibile per la Germania e più in generale per l’Occidente.

Problemi irrisolti
Frattanto la Russia aveva firmato l’armistizio (15 dicembre 1917), sospeso i combattimenti e avviato trattative di pace con gli Imperi centrali. Perché non sussistessero dubbi circa il futuro dell’Ucraina, tra le condizioni di pace fissate dalla Germania alla Russia di Lenin figurava al quarto punto che: «la Russia dovrà evacuare immediatamente la Finlandia e l'Ucraina e concludere con esse la pace».
La Russia non ebbe scelta e dovette firmare il trattato di pace di Brest-Litovsk (3 marzo 1918) che sanciva la vittoria degli Imperi centrali sul fronte orientale e poneva le premesse per l’indipendenza dell’Ucraina, dell’Estonia, della Lettonia, della Lituania e della Polonia. Nei giorni successivi il quotidiano socialista ticinese Libera Stampa commentava: «La Russia rivoluzionaria ha dovuto piegare il capo davanti alla forza brutale del militarismo prussiano e firmare il trattato di pace. La Germania ha applicato i suoi principi di pace «senza indennità e senza annessioni», coll’occupare tutte le province baltiche fin quasi a Pietrogrado [così si chiamava all’epoca San Pietroburgo], la Polonia, l'Ucraina, divenuta sua alleata…».
Con la pace di Brest-Litovsk il futuro indipendente dell’Ucraina non era affatto garantito, anzi restavano irrisolti i problemi fondamentali della convivenza tra le varie regioni e popolazioni dell’Ucraina come pure gli orientamenti politici nei confronti dei Paesi vicini.

Inutilità della guerra e soluzioni possibili
Quanto la prima guerra mondiale sul fronte orientale sia stata inconcludente e dannosa lo dimostreranno ampiamente i decenni successivi e anche oggi, purtroppo, si può osservare quanto le guerre siano inadeguate per risolvere i problemi della convivenza tra i popoli.
La storia recente dell’Ucraina ne è una chiara testimonianza e, purtroppo, non mi sembra che i responsabili delle grandi potenze, Unione Europea compresa, abbiano bene appreso la lezione del passato, ossia l’inutilità della guerra (anche se mentre scrivo vige una fragile tregua) per risolvere questo genere di problemi. Dico purtroppo perché ancora una volta per decidere del destino dei popoli si ricorre alle armi e alle sanzioni piuttosto che alla saggezza, al dialogo e al limite, perché no, visto che è in uso tra le persone civili, alla separazione consensuale.
Per risolvere questo genere di problemi bisognerebbe abbandonare (definitivamente) la logica degli interessi degli Stati (ancora di tipo ottocentesco) e adottare la logica degli interessi legittimi dei popoli. Nel conflitto ucraino finora la Svizzera si è impegnata molto nell’ambito dell’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (OSCE). Forse potrebbe fare di più, forte del suo esempio vivente e della sua tradizione di pacifica e proficua convivenza tra etnie e culture diverse, ma aperte alla collaborazione e al rispetto reciproco.

Giovanni Longu

02 marzo 2022

Immigrazione italiana 1970-1990: 74. Seconda generazione: integrazione certa

Quando agli inizi degli anni Settanta il Consiglio federale decise di riorientare la politica immigratoria verso la stabilizzazione e l’integrazione della popolazione straniera, i dubbi erano legittimi. Lo era soprattutto quello sulla stabilizzazione perché il numero degli stranieri dipendeva tradizionalmente dallo sviluppo dell’economia. Lo era anche quello riguardo all’integrazione, ma meno, perché si avvertiva già il prolungamento costante del soggiorno degli immigrati e questo avrebbe favorito l’integrazione. Il processo richiese tuttavia un tempo probabilmente molto più lungo del previsto, ma si deve riconoscere che nel periodo in esame sono state poste le basi indispensabili per raggiungere in seguito i risultati auspicati.

Integrazione possibile e necessaria

Il prolungamento del soggiorno degli immigrati italiani in Svizzera era costante dalla seconda metà

degli anni Sessanta. Alla fine del 1980 la durata media era già di 14,3 anni, alla fine del 1990 di ben 19,7 anni ( e sarà di circa 24 anni sul finire degli anni Novanta). Un periodo indubbiamente favorevole all'integrazione.

L’elevato tasso di natalità degli immigrati italiani nella seconda metà degli anni Sessanta (massimo storico nel 1969 con 19.101 nascite) e l’incessante arrivo dall'Italia di bambini in età scolastica grazie alle agevolazioni del ricongiungimento familiare previsto dall'accordo italo-svizzero del 1964 avevano prospettato una forte presenza di giovani italiani nei decenni successivi.

Dai primi anni Settanta, tuttavia, il loro futuro cominciò a preoccupare sia gli ambienti politici svizzeri e italiani che le famiglie direttamente interessate. Tutti infatti tendevano ad escludere, sia pure con motivazioni diverse, che questi giovani sarebbero succeduti nell'economia svizzera ai loro genitori (in gran parte manovali) una volta rientrati in Italia, al più tardi all'età della pensione. Nessuno, però, era in grado di proporre soluzioni sicure su larga scala.

La preoccupazione si accentuò nella seconda metà degli anni Settanta, quando la crisi economica soppresse numerosi posti di lavoro, occupati soprattutto da stranieri, e indusse molti italiani a rientrare in patria. Se però molti partivano, coloro che restavano erano ben più numerosi (nonostante il calo delle nascite a partire dal 1970). Ai giovani bisognava garantire un futuro diverso da quello dei loro genitori, ma non diverso da quello dei coetanei svizzeri.

Percorso difficile

Come più volte ricordato in diversi articoli, il Consiglio federale era deciso a mettere in campo nei loro confronti una politica d’integrazione completa, che comprendeva (già nel disegno di legge sugli stranieri del 1978) tutti i diritti fondamentali, compresa l’attività politica. Di più, il Consiglio federale prospettava, a chi l’avesse chiesta, anche una procedura agevolata di naturalizzazione (poi naufragata nel voto popolare).

Nonostante l’ottimismo del Consiglio federale, il processo d’integrazione avanzava tuttavia lentamente perché gli ostacoli da superare erano tanti, uno in particolare, l’insicurezza (di origine interna ed esterna) sia del cittadino integrato (quasi svizzero? Straniero di carta? Né l’uno né l’altro?) che del naturalizzato, combattuto tra due culture, due patrie, due affetti.

Ripensando all'atmosfera che si respirava al riguardo negli anni Settanta e Ottanta è facile ricordare con quanta esitazione si consigliava a un giovane interessato di presentare una domanda di naturalizzazione per facilitargli l’accesso all'esercizio di alcune professioni. Con quanta insistenza, invece, si ricordava agli italiani di appartenere ad una grande cultura, a un grande Paese, a un’Europa che garantiva la libera circolazione, ecc.

Andamento lento ma sicuro

Alla fine del periodo in esame (1970-1990) si poteva ancora essere pessimisti perché l’integrazione sembrava garantire alla seconda generazione meno vantaggi di quanti ne prometteva, nonostante il superamento delle note difficoltà di comunicazione della prima generazione. Infatti, ad un’attenta osservazione, non era difficile notare che gli stranieri erano spesso svantaggiati rispetto ai coetanei svizzeri nella formazione scolastica e professionale, nella posizione professionale, nella prospettiva di carriera. Solo nei naturalizzati questi svantaggi tendevano a scomparire.

Probabilmente molti si erano illusi di poter vedere in pochi anni cambiamenti che generalmente durano generazioni. Se uno avesse avuto la pazienza o la possibilità di attendere, già negli anni Novanta (come si vedrà prossimamente) avrebbe costatato evidenti progressi, soprattutto dal 1992, quando divenne possibile la doppia nazionalità, italiana e svizzera.

Giovanni Longu
Berna, 2.3.2022