Il ventennio dell’immigrazione italiana in Svizzera 1970-1990 è uno dei più importanti della storia dell'emigrazione italiana del secolo scorso. In quei vent'anni, infatti, la collettività italiana ha conosciuto una radicale trasformazione. Per osservarne i risultati più significativi si dovranno attendere i decenni successivi, ma le premesse sono state poste nel periodo in esame. Il 1970 rappresenta simbolicamente l’anno della svolta (in seguito alla bocciatura dell'iniziativa antistranieri promossa da Schwarzenbach, sebbene non sia stata determinante) perché ha visto l’avvio dei principali cambiamenti del ventennio considerato. In questo e nel prossimo articolo si cercherà di evidenziarne alcuni, ritenuti particolarmente rilevanti per meglio comprendere il periodo 1990-2000, che si comincerà a esaminare prossimamente.
I protagonisti del ventennio
Nello Celio (1967-1973) e Kurt Furgler
(1972-1986), due consiglieri federali convinti sostenitori dell'integrazione degli stranieri. |
Osservati attentamente, non si può nemmeno ritenere che i
grandi cambiamenti siano il frutto di un’accurata politica immigratoria del Consiglio
federale o di una scelta precisa degli italiani residenti in questo Paese o,
ancor meno, il risultato di un’intensa azione del governo italiano su quello svizzero
e sugli emigrati italiani dei primi decenni del secondo dopoguerra.
La trasformazione radicale che ha investito la collettività
italiana residente in Svizzera nel ventennio 1970-1990 fu dovuta, infatti, alla
convergenza di forze eterogenee di varia intensità, sotto la guida di un
Consiglio federale chiaro negli intenti e fortemente impegnato nel perseguirli
e con l’adesione sempre più convinta degli italiani coinvolti.
Oltre al Consiglio federale, protagonista indiscusso della
nuova politica immigratoria avviata negli anni Settanta, bisogna pertanto
riconoscere anche la notevole capacità di adattamento dimostrata dai numerosi immigrati
italiani che, dopo la crisi economica della metà degli anni Settanta e
nonostante innumerevoli difficoltà specialmente psicologiche, scelsero l'opzione
di restare in Svizzera (mentre decine di migliaia decidevano di rientrare in
patria) e in certa misura di integrarsi, se non altro per dare maggiori
garanzie per il futuro ai propri figli (seconda generazione). Senza questa massiccia
adesione, avvenuta sia pure in tempi lunghi, quasi certamente la
collettività italiana sarebbe oggi meno consistente e meno influente.
Tra le forze importanti intervenute nel cambiamento non
possono essere dimenticate, tuttavia, le spinte dell'economia alla
razionalizzazione delle risorse e all'ammodernamento dei sistemi produttivi, la
forte pressione esercitata sul Consiglio federale e sull'opinione pubblica dai movimenti
xenofobi sempre più ostili a una presunta politica immigratoria fuori
controllo e le insistenti richieste delle parti sociali (imprenditori e
sindacati) a introdurre nella politica verso gli stranieri importanti
correttivi.
Contribuirono, inoltre, soprattutto per umanizzare la
trasformazione e in generale per rendere più accettabili i cambiamenti agli stranieri,
gli ambienti politici specialmente di sinistra sia svizzeri che italiani,
le rappresentanze diplomatiche e consolari, l’associazionismo e
altre forze intermedie.
Riorientamento della politica immigratoria
L’iniziativa antistranieri di Schwarzenbach, respinta di
stretta misura dal voto popolare del 7 giugno 1970, a parte l’aspetto disumano
della richiesta che conteneva, sollevava un problema reale: un’immigrazione
senza controllo era pericolosa perché rischiava di inasprire i rapporti sociali
tra svizzeri e stranieri e poteva creare forme di dipendenza dalla manodopera
straniera in alcuni rami economici. Andava perciò corretta.
Il Consiglio federale, come si è visto più volte, intervenne
prontamente, ma non sugli arrivi, come volevano gli ambienti xenofobi, bensì
sui residenti, proponendo un riorientamento della politica federale verso gli
stranieri e adottando misure che nel breve e medio periodo avrebbero dovuto sedare
i malumori serpeggianti nell'opinione pubblica, dare certezze all'economia e ai
sindacati e dare fiducia agli immigrati.
Le parole d’ordine divennero «stabilizzare» e «integrare»,
lasciando intendere che favorendo la stabilizzazione il numero degli immigrati
temporanei si sarebbe automaticamente ridotto e gli stranieri rimasti,
integrandosi, avrebbero avuto molte più possibilità di raggiungere socialmente,
professionalmente ed economicamente gli stessi livelli degli svizzeri.
Chi pensasse che il compito del Consiglio federale sia stato
facile ignora le difficoltà che dovette affrontare in questo campo fin dalla
seconda metà degli anni Sessanta. Basti pensare che tradizionalmente il governo
svizzero non prendeva mai iniziative importanti di gestione e di controllo in
campo economico (specialmente nel mercato del lavoro), non interveniva se non
in casi eccezionali nella politica dei Cantoni verso gli stranieri, non aveva
mai voluto prendere atto che la Svizzera diventava sempre più un Paese
d’immigrazione, che gli immigrati tendevano a stabilizzarsi e reclamavano perciò
nuovi diritti riguardanti, la sicurezza sociale, il ricongiungimento familiare,
la scolarizzazione della seconda generazione, l’accesso alle abitazioni a
pigioni moderate, ecc.
Coinvolgimento degli immigrati
Non va nemmeno dimenticato che anche nel campo degli
immigrati le difficoltà da superare erano tante, perché bisognava liberarsi da
numerosi e talvolta radicati pregiudizi, occorreva rendersi conto che certi
traguardi si raggiungono a fatica e che quella richiesta agli immigrati poteva
essere anche maggiore qualora si dovessero colmare lacune scolastiche, carenze
linguistiche, impreparazione professionale e svantaggi simili. Per integrarsi o
fare anche solo qualche passo in quella direzione occorreva molta motivazione,
ma non era facile pretenderla e nemmeno suggerirla a chi svolgeva lavori
faticosi, faceva magari volentieri gli straordinari, aveva una famiglia da
mantenere e un grande sogno da realizzare, quello di farsi un gruzzolo, tornare
al proprio paese, costruire la casa e sistemare i figli.
Allievi dei corsi CISAP a Berna negli anni Settanta e Ottanta. |
Per rendersi maggiormente conto delle difficoltà incontrate
da moltissimi italiani nel processo d’integrazione, va ricordato che allora
c’erano anche meno incentivi di oggi. L’iniziativa individuale era sostenuta
quasi esclusivamente dalle famiglie. Il governo italiano garantiva il rispetto
dei diritti fondamentali e degli accordi bilaterali, organizzava corsi di
lingua e cultura italiane per i bambini in età scolastica, contribuiva a
sostenere finanziariamente alcune attività di formazione professionale, ma non allestiva
corsi conformi ai regolamenti svizzeri, non organizzava corsi di tedesco
o di
francese finalizzati all’integrazione, non stimolava l’integrazione. Per le
grandi associazioni degli italiani, non solo il tema della naturalizzazione era
una sorta di tabù (cfr. articolo precedente), ma anche quello dell’integrazione.
Fortunatamente, dagli anni Settanta, una grande motivazione ad
integrarsi è giunta dall’avanzata in larga misura imprevista della seconda
generazione, sempre più numerosa e sempre più esigente. Per molti italiani
divenne indispensabile poter comunicare con gli svizzeri, con le maestre
d’asilo, con gli insegnanti, con le autorità, con le istituzioni senza dover
sempre ricorrere a intermediari. Tanti cercarono d’imparare il tedesco o il
francese, alcuni tentando l’apprendimento autonomo, altri frequentando corsi organizzati
da istituzioni o da privati. La consapevolezza che senza un minimo di conoscenza
della lingua del posto non sarebbe stato possibile alcun avvicinamento tra
stranieri e svizzeri era molto diffusa.
Alcuni si spinsero anche oltre la conoscenza minimale della
lingua locale e decisero di elevare il proprio livello culturale e
professionale, frequentando veri e propri corsi di formazione professionale coerenti
con le esigenze regolamentari svizzere. Molti vi riuscirono e a loro andrebbe
riconosciuta una buona dose di eroismo, perché dovettero superare enormi
difficoltà di apprendimento, sacrificare tre o più anni del loro tempo libero
per frequentare una scuola serale (come per esempio il CISAP), studiare a casa,
esercitarsi il più possibile nel mestiere scelto con l’obiettivo preciso di riuscire,
farsi apprezzare sul lavoro per le competenze acquisite, acquistare una nuova
dignità ed essere di esempio ai figli. (Segue)
Giovanni Longu
Berna 16.3.2022