Disorientamento politico
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L'invito più diffuso tra gli immigrati negli anni '60. |
Lo sguardo degli immigrati italiani in
Svizzera (prima generazione) è stato per molto tempo disorientato e agitato
perché rivolto confusamente sia verso l’Italia, Paese da cui gli emigranti
erano partiti spesso con rabbia e a cui contavano di ritornare appena possibile,
sia verso la Svizzera, dove erano venuti per lavorare e farsi un gruzzolo da
portare a casa, ma mal sopportavano di essere considerati quasi usurpatori o al
massimo lavoratori «ospiti» (Gastarbeiter), ossia temporanei, da
respingere o comunque ostacolare in tutte le maniere, se crescevano troppo e
magari pensavano di stabilirsi definitivamente in questo Paese.
I disagi che dovevano sopportare sul lavoro e
nella vita quotidiana hanno molti immigrati ad affidare ad alcune
organizzazioni e associazioni - specialmente il Partito comunista italiano (PCI)
e le Colonie libere italiane (CLI) - la protesta e la rivendicazione dei
presunti diritti negati. Esse, infatti, non si facevano scrupolo né di
manifestare il dissenso né di avanzare pretese apparentemente legittime, ma ritenute
esagerate sia da parte italiana sia da parte svizzera, senza mai prendere in
seria considerazione vie alternative e compromessi.
Per alcuni decenni, soprattutto nel periodo
considerato (1950-1970), quelle organizzazioni hanno ritenuto di poter
modificare, nonostante le forze oggettivamente modeste di cui disponevano, sia
la politica emigratoria italiana, fondata su un sostanziale consenso di tutti i
partiti e sindacati italiani, sia la politica immigratoria svizzera basata su
leggi e regolamenti ufficiali come pure su un ampio sostegno dell’opinione
pubblica contraria all’«inforestierimento».
Occorre anche dire che tanto il PCI quanto le
CLI non godevano in quel periodo di alcun sostegno reale né da parte delle
rappresentanze diplomatiche e consolari italiane né da parte delle istituzioni
(politiche, sindacali, ecclesiali) svizzere, per cui le loro principali
rivendicazioni non trovavano accoglienza, accrescendo la frustrazione e il
disorientamento di numerosi immigrati.
Rivendicazioni dall’Italia
Nei confronti dell’Italia, gli attivisti del
PCI in Svizzera e delle CLI hanno cercato per decenni di far pesare la rabbia e
la protesta degli emigrati nei dibattiti parlamentari ogniqualvolta se ne
presentava l’occasione. Essi avevano infatti ottimi rapporti col principale
partito d’opposizione, il PCI, che si ergeva a paladino della difesa dei
diritti degli emigrati, senza rendersi conto che la Democrazia cristiana (DC)
al potere non avrebbe mai permesso di essere scavalcata dal PCI anche in materia
di rivendicazioni in favore dei connazionali all’estero.
Da alcuni resoconti delle trattative
italo-svizzere in materia risulta chiaramente che il governo (sempre a guida
DC), voleva essere addirittura più efficace del PCI nel raggiungere risultati
mirati. Naturalmente la stragrande maggioranza degli immigrati italiani era
inconsapevole della lotta politica italiana e poco s’interessava alle
trattative internazionali che pure li riguardava, covavano soltanto una grande
rabbia per essere dovuti emigrare senza tutele.
La speranza e la convinzione di quelle
organizzazioni di poter influire sulla politica italiana rafforzando il PCI si
manifestava soprattutto in occasione delle elezioni politiche, quando gli
emigrati dovevano recarsi in Italia per esprimere le loro scelte. Decine di
treni speciali partivano dalle principali città svizzere nei giorni che precedevano la
votazione sventolando dai finestrini centinaia di bandiere rosse. Sembrava che
si dovesse andare a votare per poter finalmente ritornare, ma si sapeva
benissimo ch'era un'utopia, perché l’Italia non poteva garantire il lavoro a
tutti. Si riteneva però utile esprimere col voto comunista il malcontento diffuso
e al contempo approfittare del viaggio gratuito per rivedere i famigliari.
Un’opinione
Bene sintetizzò queste sensazioni l’inviato speciale a Berna del Corriere
della Sera Mario Cervi
in un lungo articolo del 1963 («In Svizzera guadagnano bene ma danno il voto ai comunisti»), in cui cercava di dare
una risposta all'«interrogativo inquietante»: «Perché
tanti nostri emigrati votano comunista?», nonostante qui partecipino al
benessere raggiunto anche «senza il comunismo». Ed ecco la risposta sintetica
ed esplicita: «Non lo fanno per
motivi economici ma per “vendicarsi” del proprio Paese». E aggiungeva : «stato
d'animo esasperato dall'intensa propaganda degli “attivisti”».
La sintesi di Cervi,
basata su incontri e conversazioni avute con immigrati di varie parti d’Italia,
rivelava anche alcuni aspetti poco noti della vita «politica» degli emigrati/immigrati
di quel periodo, cominciando dalla trasformazione della rabbia e dello
scontento in propaganda politica: «Questi stati
d'animo […] non «esplodono» da soli. C’è chi li rivela e ingigantisce. Gli
attivisti del partito comunista, che aspettano, già sui marciapiedi delle
stazioni ferroviarie di Milano o di Torino, l’immigrato meridionale, e da quel
momento non lo abbandonano più, sono disseminati tra le nostre maestranze in
Svizzera. In generale questi attivisti sono anche ottimi operai. Hanno prestigio
nei riguardi dei loro compagni, sono apprezzati dagli imprenditori». Nei confronti del governo
italiano, diceva Cervi, gli attivisti non avevano dubbi: «I miglioramenti
che gli emigrati ottengono sono merito dei comunisti; i disagi che lamentano
sono colpa del governo».
A proposito delle Colonie libere, dopo
aver ricordato la loro origine antifascista e la loro diffusione in molte città
svizzere, Cervi osservava che «diventano sempre più uno strumento comunista.
La loro attrazione si esercita su un numero relativamente esiguo di emigrati,
trenta o quarantamila. Ma ogni Colonia conquistata dai comunisti è un nuovo
centro di irradiazione propagandistica».
Rivendicazioni dalla Svizzera
Le pretese dalla Svizzera erano più difficili
da soddisfare perché tutta la politica immigratoria federale si basava non solo
su una legge del 1931, che garantiva agli immigrati pochi diritti fondamentali
e alle autorità svizzere la massima discrezionalità, ma anche su un diffuso
pregiudizio anticomunista, che rendeva sospette e inaccettabili tutte le
rivendicazioni provenienti dagli ambienti vicini al PCI, compreso quello delle
CLI. Tanto è vero che l'organizzazione sindacale italiana più rappresentativa,
ma vicina al PCI, la Confederazione
Generale Italiana del Lavoro (CGIL), e la Federazione
delle colonie libere italiane in Svizzera (FCLIS) non furono mai ammesse al
tavolo delle trattative bilaterali con l’Italia in materia d’immigrazione.
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Le CLI furono considerate a lungo «comuniste» |
Il fondamento giuridico della politica
immigratoria svizzera risiedeva tuttavia nella legge sugli stranieri del 1931,
che all’articolo 4 precisava: «l’autorità decide liberamente, nei limiti
delle disposizioni di legge e dei trattati con l’estero, circa la concessione
del permesso di dimora o di domicilio, e la tolleranza». Pertanto si stabiliva
anche che l’autorità non era obbligata al rinnovo dei permessi, qualora fossero
venute meno le condizioni per le quali erano stati rilasciati. Altre misure
restrittive all’immigrazione, al rinnovo dei permessi, ai ricongiungimenti
familiari, all’acquisizione del diritto di domicilio, ecc. sono note e
costituivano materia di contestazione soprattutto da parte delle sinistre.
Il Consiglio federale sapeva comunque che la
sua politica verso gli stranieri, anche quando procedeva alle espulsioni dei
presunti propagandisti comunisti, era condivisa dalla maggioranza del
Parlamento e dall’opinione pubblica. Forse anche per questo si avvalse solo
poche volte del potere di espulsione. D’altra parte, sapeva anche, come ebbe
ancora a riferire Mario Cervi da Berna nel 1963, che «La massa degli
italiani in Svizzera [era] indifferente all'espulsione dei comunisti». In
quel momento la preoccupazione maggiore per gli italiani proveniva dai
movimenti xenofobi in grande crescita.
La soluzione dei problemi
Osservando la storia dell’immigrazione
italiana in Svizzera verrebbe da dire che nel periodo considerato alcuni
esponenti delle organizzazioni di immigrati di sinistra hanno forse creduto di
lottare per una giusta causa, ma hanno sbagliato tattica, anche se va
riconosciuto loro il merito di aver tenuto vivo nelle aule parlamentari
italiane l’interesse nei confronti degli emigrati. E’ persino legittimo ritenere che la
scarsa flessibilità di molti attivisti del PCI e delle CLI abbiano contribuito
ad accrescere la diffidenza verso gli italiani e a rallentare il processo
d’integrazione.
Sarà infatti solo a partire dagli anni
Settanta che si comincerà a vedere qualche miglioramento significativo nella
vita degli immigrati, quando il Comitato Nazionale d’Intesa che raggruppava le
principali associazioni d’immigrati italiani, i sindacati svizzeri, le chiese
locali e altre organizzazioni pubbliche e private si resero conto che i
risultati erano ottenibili solo percorrendo la strada del dialogo, della
conoscenza reciproca, del superamento dei pregiudizi e della collaborazione.
Giovanni Longu
Berna 16 ottobre 2019
Berna 16 ottobre 2019