16 ottobre 2019

Immigrazione italiana 1950-1970: 30. Gli italiani e la politica

Gli immigrati italiani giunti in Svizzera nel periodo considerato (1950-1970) hanno sempre avuto un difficile rapporto con la politica, sia quella svizzera sia quella italiana. Sono stati oggetto di numerose decisioni e accordi politici, ma non sono mai stati protagonisti. In Italia hanno avuto sempre scarsa attenzione e rappresentanza politica, nonostante abbiano goduto fin dal dopoguerra del diritto di voto e dal 2006 della possibilità di eleggere dall’estero propri rappresentanti in Parlamento. In Svizzera, tutti i provvedimenti legislativi e politici sugli stranieri erano basati su una legge del 1931, che garantiva agli immigrati solo pochi diritti fondamentali e alle autorità la massima discrezionalità nella concessione e nella revoca o non rinnovo dei permessi. L’obiettivo della legge era chiaro: impedire l’«inforestierimento» (Überfremdung) e ricorrere alle forze di lavoro straniere solo se necessario.


Disorientamento politico
L'invito più diffuso tra gli immigrati negli anni '60.
Lo sguardo degli immigrati italiani in Svizzera (prima generazione) è stato per molto tempo disorientato e agitato perché rivolto confusamente sia verso l’Italia, Paese da cui gli emigranti erano partiti spesso con rabbia e a cui contavano di ritornare appena possibile, sia verso la Svizzera, dove erano venuti per lavorare e farsi un gruzzolo da portare a casa, ma mal sopportavano di essere considerati quasi usurpatori o al massimo lavoratori «ospiti» (Gastarbeiter), ossia temporanei, da respingere o comunque ostacolare in tutte le maniere, se crescevano troppo e magari pensavano di stabilirsi definitivamente in questo Paese.
I disagi che dovevano sopportare sul lavoro e nella vita quotidiana hanno molti immigrati ad affidare ad alcune organizzazioni e associazioni - specialmente il Partito comunista italiano (PCI) e le Colonie libere italiane (CLI) - la protesta e la rivendicazione dei presunti diritti negati. Esse, infatti, non si facevano scrupolo né di manifestare il dissenso né di avanzare pretese apparentemente legittime, ma ritenute esagerate sia da parte italiana sia da parte svizzera, senza mai prendere in seria considerazione vie alternative e compromessi.
Per alcuni decenni, soprattutto nel periodo considerato (1950-1970), quelle organizzazioni hanno ritenuto di poter modificare, nonostante le forze oggettivamente modeste di cui disponevano, sia la politica emigratoria italiana, fondata su un sostanziale consenso di tutti i partiti e sindacati italiani, sia la politica immigratoria svizzera basata su leggi e regolamenti ufficiali come pure su un ampio sostegno dell’opinione pubblica contraria all’«inforestierimento».
Occorre anche dire che tanto il PCI quanto le CLI non godevano in quel periodo di alcun sostegno reale né da parte delle rappresentanze diplomatiche e consolari italiane né da parte delle istituzioni (politiche, sindacali, ecclesiali) svizzere, per cui le loro principali rivendicazioni non trovavano accoglienza, accrescendo la frustrazione e il disorientamento di numerosi immigrati.

Rivendicazioni dall’Italia
Nei confronti dell’Italia, gli attivisti del PCI in Svizzera e delle CLI hanno cercato per decenni di far pesare la rabbia e la protesta degli emigrati nei dibattiti parlamentari ogniqualvolta se ne presentava l’occasione. Essi avevano infatti ottimi rapporti col principale partito d’opposizione, il PCI, che si ergeva a paladino della difesa dei diritti degli emigrati, senza rendersi conto che la Democrazia cristiana (DC) al potere non avrebbe mai permesso di essere scavalcata dal PCI anche in materia di rivendicazioni in favore dei connazionali all’estero.
Da alcuni resoconti delle trattative italo-svizzere in materia risulta chiaramente che il governo (sempre a guida DC), voleva essere addirittura più efficace del PCI nel raggiungere risultati mirati. Naturalmente la stragrande maggioranza degli immigrati italiani era inconsapevole della lotta politica italiana e poco s’interessava alle trattative internazionali che pure li riguardava, covavano soltanto una grande rabbia per essere dovuti emigrare senza tutele.
La speranza e la convinzione di quelle organizzazioni di poter influire sulla politica italiana rafforzando il PCI si manifestava soprattutto in occasione delle elezioni politiche, quando gli emigrati dovevano recarsi in Italia per esprimere le loro scelte. Decine di treni speciali partivano dalle principali città svizzere nei giorni che precedevano la votazione sventolando dai finestrini centinaia di bandiere rosse. Sembrava che si dovesse andare a votare per poter finalmente ritornare, ma si sapeva benissimo ch'era un'utopia, perché l’Italia non poteva garantire il lavoro a tutti. Si riteneva però utile esprimere col voto comunista il malcontento diffuso e al contempo approfittare del viaggio gratuito per rivedere i famigliari.

Un’opinione
Bene sintetizzò queste sensazioni l’inviato speciale a Berna del Corriere della Sera Mario Cervi in un lungo articolo del 1963 («In Svizzera guadagnano bene ma danno il voto ai comunisti»), in cui cercava di dare una risposta all'«interrogativo inquietante»: «Perché tanti nostri emigrati votano comunista?», nonostante qui partecipino al benessere raggiunto anche «senza il comunismo». Ed ecco la risposta sintetica ed esplicita: «Non lo fanno per motivi economici ma per “vendicarsi” del proprio Paese». E aggiungeva : «stato d'animo esasperato dall'intensa propaganda degli “attivisti”».
La sintesi di Cervi, basata su incontri e conversazioni avute con immigrati di varie parti d’Italia, rivelava anche alcuni aspetti poco noti della vita «politica» degli emigrati/immigrati di quel periodo, cominciando dalla trasformazione della rabbia e dello scontento in propaganda politica: «Questi stati d'animo […] non «esplodono» da soli. C’è chi li rivela e ingigantisce. Gli attivisti del partito comunista, che aspettano, già sui marciapiedi delle stazioni ferroviarie di Milano o di Torino, l’immigrato meridionale, e da quel momento non lo abbandonano più, sono disseminati tra le nostre maestranze in Svizzera. In generale questi attivisti sono anche ottimi operai. Hanno prestigio nei riguardi dei loro compagni, sono apprezzati dagli imprenditori».  Nei confronti del governo italiano, diceva Cervi, gli attivisti non avevano dubbi: «I miglioramenti che gli emigrati ottengono sono merito dei comunisti; i disagi che lamentano sono colpa del governo».
A proposito delle Colonie libere, dopo aver ricordato la loro origine antifascista e la loro diffusione in molte città svizzere, Cervi osservava che «diventano sempre più uno strumento comunista. La loro attrazione si esercita su un numero relativamente esiguo di emigrati, trenta o quarantamila. Ma ogni Colonia conquistata dai comunisti è un nuovo centro di irradiazione propagandistica».

Rivendicazioni dalla Svizzera
Le pretese dalla Svizzera erano più difficili da soddisfare perché tutta la politica immigratoria federale si basava non solo su una legge del 1931, che garantiva agli immigrati pochi diritti fondamentali e alle autorità svizzere la massima discrezionalità, ma anche su un diffuso pregiudizio anticomunista, che rendeva sospette e inaccettabili tutte le rivendicazioni provenienti dagli ambienti vicini al PCI, compreso quello delle CLI. Tanto è vero che l'organizzazione sindacale italiana più rappresentativa, ma vicina al PCI, la Confederazione Generale Italiana del Lavoro (CGIL), e la Federazione delle colonie libere italiane in Svizzera (FCLIS) non furono mai ammesse al tavolo delle trattative bilaterali con l’Italia in materia d’immigrazione.
Le CLI furono considerate a lungo «comuniste»
Il fondamento giuridico della politica immigratoria svizzera risiedeva tuttavia nella legge sugli stranieri del 1931, che all’articolo 4 precisava: «l’autorità decide liberamente, nei limiti delle disposizioni di legge e dei trattati con l’estero, circa la concessione del permesso di dimora o di domicilio, e la tolleranza». Pertanto si stabiliva anche che l’autorità non era obbligata al rinnovo dei permessi, qualora fossero venute meno le condizioni per le quali erano stati rilasciati. Altre misure restrittive all’immigrazione, al rinnovo dei permessi, ai ricongiungimenti familiari, all’acquisizione del diritto di domicilio, ecc. sono note e costituivano materia di contestazione soprattutto da parte delle sinistre.
Il Consiglio federale sapeva comunque che la sua politica verso gli stranieri, anche quando procedeva alle espulsioni dei presunti propagandisti comunisti, era condivisa dalla maggioranza del Parlamento e dall’opinione pubblica. Forse anche per questo si avvalse solo poche volte del potere di espulsione. D’altra parte, sapeva anche, come ebbe ancora a riferire Mario Cervi da Berna nel 1963, che «La massa degli italiani in Svizzera [era] indifferente all'espulsione dei comunisti». In quel momento la preoccupazione maggiore per gli italiani proveniva dai movimenti xenofobi in grande crescita.

La soluzione dei problemi
Osservando la storia dell’immigrazione italiana in Svizzera verrebbe da dire che nel periodo considerato alcuni esponenti delle organizzazioni di immigrati di sinistra hanno forse creduto di lottare per una giusta causa, ma hanno sbagliato tattica, anche se va riconosciuto loro il merito di aver tenuto vivo nelle aule parlamentari italiane l’interesse nei confronti degli emigrati. E’ persino legittimo ritenere che la scarsa flessibilità di molti attivisti del PCI e delle CLI abbiano contribuito ad accrescere la diffidenza verso gli italiani e a rallentare il processo d’integrazione.
Sarà infatti solo a partire dagli anni Settanta che si comincerà a vedere qualche miglioramento significativo nella vita degli immigrati, quando il Comitato Nazionale d’Intesa che raggruppava le principali associazioni d’immigrati italiani, i sindacati svizzeri, le chiese locali e altre organizzazioni pubbliche e private si resero conto che i risultati erano ottenibili solo percorrendo la strada del dialogo, della conoscenza reciproca, del superamento dei pregiudizi e della collaborazione.
Giovanni Longu
Berna 16 ottobre 2019