Il ventennio di storia dell’immigrazione italiana in Svizzera preso in esame (1970-1990) è stato per un verso di svolta e per l’altro di ricerca di un futuro diverso, almeno per la seconda generazione. La svolta, com'è noto, è stata determinata dalle iniziative xenofobe, dalla crisi economica degli anni 1974-76, ma anche dalle migliorate prospettive occupazionali offerte dall'Italia e dall'Unione Europea (allora Comunità Economica Europea CEE). Molti immigrati decisero di rientrare in patria, molti altri di restare. Per costoro si trattò spesso di una decisione coraggiosa, perché il clima generale sembrava ancora ostile, ma giustificata dalla speranza di un futuro meno difficile e più sicuro almeno per i figli, soprattutto dal punto di vista economico, professionale e sociale. Chi ha vissuto quel periodo ricorderà che le difficoltà da superare erano tante, il percorso era tutto in salita e gli aiuti erano scarsi.
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L’abolizione
dello statuto dello stagionale è stata per decenni la principale rivendicazione di alcune associazioni di immigrati. |
Negli anni Settanta e Ottanta, il pericolo
xenofobo si era considerevolmente ridotto, ma non era scomparso. L’accettazione
e il rispetto degli stranieri da parte della popolazione svizzera avveniva
lentamente. Erano sempre molti coloro che vedevano negli immigrati un pericolo,
anche perché il loro tasso di crescita relativo era sempre più elevato di
quello degli svizzeri. Molti svizzeri erano anche convinti che gli stranieri
non volessero integrarsi perché non facevano nessuno sforzo per imparare la
loro lingua. Sul mercato del lavoro, anche se non erano più visti come Gastarbeiter,
lavoratori ospiti, molti stranieri venivano spesso considerati astuti
concorrenti. E poi, si diceva, erano tutti comunisti, contestatori, sempre
pronti allo sciopero.
Il clima restava teso anche tra immigrati
italiani e rappresentanze diplomatiche e consolari, accusate spesso di disinteresse
nei confronti dei lavoratori e delle loro famiglie. In più occasioni
associazioni di immigrati si rivolgevano direttamente al Ministero degli affari
esteri e ai sindacati italiani invocando il loro intervento.
Reazioni dell’associazionismo
Gli eventi della prima metà degli anni
Settanta disorientarono non solo gli immigrati, ma anche molte associazioni.
Alcune di esse, purtroppo, considerando gli attacchi dei movimenti xenofobi
come provenienti dall'intera popolazione con la complicità del sistema
economico e politico, fin dal 1970 decisero di lottare non solo contro Schwarzenbach, ma anche contro la concezione che
vedeva «l’emigrante come merce» e la massa dei lavoratori «come strumento di
manovra, volano regolatore delle congiunture, gente priva di ogni diritto
civile perché così era più facile cacciarla via o farla arrivare secondo gli
interessi dell’economia», «contro l’integrazione selettiva ed autoritaria che
mira a spaccare i lavoratori stranieri fra primi della classe, a discrezione
svizzera, e paria», ecc.
Per accrescere il loro potere rivendicativo e
negoziale, al Convegno delle associazioni degli emigrati italiani in Svizzera
(a cui non parteciparono associazioni moderate e le Missioni cattoliche
italiane), tenutosi a Lucerna dal 25 al 26 aprile 1970, le principali
associazioni si riunirono nel Comitato Nazionale d’Intesa (CNI), quale
«strumento organizzativo unitario» con l’ambizione non solo di porre in maniera
corretta i problemi degli immigrati ma anche di risolverli.
Nelle analisi anche recenti delle sconfitte
degli ambienti xenofobi e delle conquiste degli immigrati viene spesso messo in
luce il ruolo attivo del CNI e specialmente di alcune associazioni, in
particolare delle Colonie Libere Italiane (CLI) e delle Associazioni Cristiane
Lavoratori Italiani (ACLI), perché riuscirono a organizzare qualche
manifestazione e a diffondere qualche comunicato contro i rischi della
xenofobia e rivendicando maggiori diritti per gli immigrati. In realtà le loro
prese di posizione e i loro appelli ebbero raramente un seguito. Non ebbero
alcun successo le proposte di revisione totale dell’Accordo italo-svizzero di
emigrazione del 1964, le richieste di abolizione dello statuto dello
stagionale, le proposte per una diversa politica immigratoria svizzera, per la
facilitazione dei ricongiungimenti familiari, per una differente politica
scolastica e di formazione professionale non discriminatoria, ecc.
Fallimento di una strategia esasperata
Per rendersi conto dell’insuccesso non solo
delle richieste perentorie del CNI e delle sue principali associazioni, ma
anche della loro strategia rivendicativa esasperata, adottata nel 1970,
basterebbe ricordare il fallimento nel 1970 della riunione della Commissione
Mista prevista dall'Accordo italo-svizzero del 1964, a causa soprattutto di
alcune rivendicazioni ritenute dalla delegazione svizzera insostenibili, presentate
tramite i sindacati italiani da alcune associazioni di emigrati, la clamorosa
bocciatura nel 1981 dell’iniziativa Mitenand (cfr. articolo precedente)
sostenuta dall'associazionismo italiano, la bocciatura nel 1982 della nuova
legge sugli stranieri (che pure conteneva alcuni miglioramenti), contestata anche
da alcune associazioni italiane, lasciando invariata la legge del 1931 fino al
2005 (!) e il mantenimento dello statuto dello stagionale (abolito solo nel
2002 grazie agli Accordi bilaterali tra la Svizzera e l’Unione Europea).
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La
pregiudiziale anticomunista è stata a lungo un ostacolo insuperabile per la convivenza pacifica tra svizzeri e stranieri nel mondo del lavoro. |
Inoltre, solo lentamente le grandi
associazioni di immigrati si resero conto che in Svizzera le riforme
riguardanti il mondo del lavoro si fanno in collaborazione con i sindacati
locali e non con i sindacati italiani. Lo aveva ben capito e praticato il
Centro italo-svizzero di formazione professionale (CISAP) fin dal 1966, ma non
altre associazioni benché un «osservatore della FOMO» (Federazione operai
metallurgici e orologiai) presente al Convegno di Lucerna avesse osservato che
in Svizzera i problemi sindacali vengono impostati e trattati dagli iscritti ai
sindacati svizzeri.
Reazioni dell’Ambasciata d’Italia
Come già accennato, le rappresentanze
diplomatiche e consolari italiane, seguivano attentamente gli eventi degli anni
Settanta e Ottanta, ma il loro potere d’intervento era alquanto limitato non
solo dalle regole diplomatiche, ma anche dalla prudenza nei rapporti con la
Svizzera voluta dal Governo italiano e dal principio di convenienza.
L’Ambasciata d’Italia non poteva tuttavia
sottrarsi alla pressione esercitata dal CNI e da alcune associazioni e
specialmente dalle CLI, ed era costretta a interpellare continuamente Roma sul
da farsi. Tuttavia, poiché il Governo italiano non voleva dare l’impressione di
lasciare il monopolio della difesa dei diritti degli emigrati «all'estrema
sinistra», l’Ambasciata interveniva spesso presso le competenti autorità
federali per manifestare preoccupazioni, richieste, proposte soprattutto nel
campo della scuola, della formazione professionale e delle assicurazioni
sociali. Agli inizi degli anni Settanta, l’ambasciatore Enrico Martino e il ministro plenipotenziario per
gli affari sociali e l’emigrazione presso l’Ambasciata Tullio Migneco erano persone note e stimate non solo tra
gli italiani ma anche tra le autorità federali svizzere. Il consigliere
federale Nello Celio considerava quest’ultimo
«un grande amico».
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Sandro Pertini e Kurt Furgler (Berna 1981) |
A ristabilire
i buoni rapporti tra la Svizzera e l’Italia provvidero i vertici della politica
italiana e svizzera, dapprima i ministri degli esteri dei due Paesi Pierre Aubert e Arnaldo Forlani nel corso di una visita a Roma nel luglio del 1978
e, nel 1981, soprattutto la visita di Stato in Svizzera del Presidente della
Repubblica Sandro Pertini. Se per Aubert l’Italia era non solo
un Paese confinante e un importante partner commerciale, ma anche un prezioso
partner politico, per Pertini la Svizzera era soprattutto un Paese amico.
Il
Presidente della Confederazione Kurt
Furgler, nel salutare l’illustre ospite aveva detto che i numerosi italiani
che risiedono in Svizzera «ormai fanno parte della comunità elvetica». A sua
volta, Pertini aggiunse che il contributo degli italiani al consolidamento
dell’economia svizzera era una garanzia che mai alcun pregiudizio avrebbe
potuto «indebolire o mettere in dubbio i vincoli di stima e sincera amicizia» tra
l’Italia e la Confederazione Svizzera.
Effettivamente
agli inizi degli anni Ottanta il clima generale nei confronti degli italiani
era già migliorato e non dava segnali di peggioramento. Ma gli italiani si
sentivano davvero «parte della comunità elvetica»? L’integrazione cominciava a
dare i suoi frutti? La seconda generazione poteva ben sperare in un futuro più
sereno e più sicuro? (Segue)
Giovanni
Longu
Berna, 27.10.2021