17 dicembre 2020

Il CISAP nel periodo 1970-1990: 1. Inquadramento sociale, economico e politico

Chi ha conosciuto da vicino il CISAP nel periodo 1970-1990, ne ha avvertito sicuramente l'efficienza e la modernità, ma difficilmente ne ha potuto comprendere fino in fondo l’essenza, perché questa non è mai stata immediatamente definibile, statica, così da poter essere colta in ogni momento. Era talmente dinamica, caratterizzata da un continuo sforzo di modernità e di attualità, da renderla sempre diversa nelle sue manifestazioni.

Identità e dinamismo

Sede centrale del CISAP a Berna dal 1969.
Pur essendo rimasto sempre identico a sé stesso nei suoi principi e nei suoi valori, il CISAP era molto attento ai cambiamenti che si avvertivano o si annunciavano nell’economia e nella società e ha sempre cercato di armonizzare al meglio le sue attività con le esigenze del mondo che cambiava. La sua essenza va dunque ricercata nei principi che hanno guidato la sua azione e nella straordinaria capacità d’interpretare le esigenze allora attuali ma proiettandole nel futuro dell’economia, della società e degli immigrati.

Ora che il CISAP ha concluso definitivamente le sue attività (anche se alcune sono state riprese e reinterpretate dalla Fondazione ECAP) ed è finita come istituzione, è più facile coglierne i principi guida e il dinamismo che hanno caratterizzato i suoi 35 anni di vita.

In una serie di riflessioni basate su dati, documenti, esperienze e testimonianze, cercherò di mettere in luce ciò che il CISAP è stato e ha rappresentato per migliaia di stranieri della prima e seconda generazione nel periodo 1970-1990, quello in cui il CISAP ha scritto alcune delle pagine più belle e significative della sua storia e della storia dell’immigrazione italiana in Svizzera.

Inquadramento sociale, economico e politico

Per capire l’essenza e la modernità del CISAP è utile ricordare anzitutto ch’esso è stato costituito ufficialmente a Berna agli inizi del 1966, sotto forma di «associazione senza alcun scopo di lucro». Era il periodo di maggiore afflusso di immigrati dall’Italia (1960: 128.257 arrivi, 1961: 142.114, 1962: 143.054, 1963: 122.018, 1964: 111.863) e di una costante crescita della collettività italiana. Erano anche gli anni in cui si diffondevano specialmente nella Svizzera tedesca i primi movimenti xenofobi che chiedevano il freno all’immigrazione e la riduzione del numero di stranieri in Svizzera!

Nel decennio 1961-1970 emigrarono in Svizzera 1.021.033 italiani.
Era anche il periodo in cui la politica italiana cercava di sperimentare governi di centro-sinistra (a guida democristiana) e sperava di poter risolvere alla radice il problema drammatico dell’emigrazione soprattutto dal Mezzogiorno, offrendo agli italiani «crescenti opportunità di impiego in Patria, sì da dare sempre più al fenomeno emigratorio dignità di una libera, consapevole scelta tra differenti sbocchi, nell'interesse del lavoratore che aspiri ad utilizzare nel modo migliore le sue capacità» (Aldo Moro).

Intanto nel decennio 1960-1970 dall’Italia si continuava a emigrare: 2.646.990 espatri, di cui 1.021.033 in Svizzera, allora in pieno boom economico. Tra il 1961 e il 1962 gli immigrati italiani costituivano oltre il 70% della popolazione straniera. Per una loro maggiore tutela, fu negoziato un Accordo fra la Svizzera e l’Italia relativo all’emigrazione dei lavoratori italiani in Svizzera, giudicato molto favorevolmente dal governo di centro-sinistra italiano (2° Governo Moro), che lo usò, fra l’altro, come «arma politica nei confronti dell’opposizione comunista, che denunciava la situazione degli emigranti all’estero».

L’entrata in vigore (1965) dell’Accordo confermava in Svizzera la tendenza all’aumento della collettività italiana perché conteneva effettivamente alcuni aspetti positivi e soprattutto facilitazioni per i ricongiungimenti familiari, ma non lasciava intravvedere un attenuamento delle tensioni tra svizzeri e stranieri e un sostanziale miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro degli italiani.

Solidarietà tra immigrati

Va anche ricordato che a differenza dei primi immigrati, venuti in gran parte dal Nord Italia e dotati in generale di capacità lavorative notevoli perché molti di essi avevano lavorato nell’industria, i nuovi immigrati provenienti soprattutto dal Mezzogiorno non avevano «imparato» in maniera strutturata nessuno dei mestieri regolamentati e praticati in Svizzera e quindi non avrebbero potuto svolgere lavori qualificati.

Questa situazione sollevava non pochi problemi umani, sociali, professionali e anche politici, perché la manodopera italiana, occupata prevalentemente in due rami economici, costruzioni (edilizia e genio civile) e industria metalmeccanica, era coinvolta in un ampio processo di sostituzione dei lavoratori svizzeri passati ad altre attività specialmente nel terziario. Soprattutto nell’industria, in piena trasformazione e razionalizzazione, sarebbe stato grave e pericoloso se gli immigrati italiani avessero occupato solo i posti lasciati liberi ai livelli più bassi delle scale di qualifica e salariali. Ma c’erano possibilità per i nuovi arrivati di raggiungere gradi di competenza professionale più elevati? Chi e con quali strumenti si potevano aiutare per non lasciarli in balia della precarietà e dei rischi di disoccupazione?

Allievi CISAP dei primi corsi (1966).
Rispetto a questi interrogativi, il nuovo Accordo italo-svizzero, nonostante gli indubbi miglioramenti, lasciava ancora incertezze e preoccupazioni. Per esempio, mentre gettava le basi per l’integrazione scolastica dei figli degli italiani, non diceva una parola sulle esigenze di formazione professionale degli stessi immigrati. Per le autorità svizzere, ma anche per quelle italiane, evidentemente queste esigenze non rappresentavano una necessità né tantomeno una priorità.

Il CISAP, interpretando le incertezze e il disorientamento di molti immigrati, si propose d’intervenire efficacemente proprio in questo campo, ritenendolo di fondamentale importanza non solo per i diretti interessati, ma anche per le loro famiglie. I primi corsi di formazione professionale furono molto incoraggianti: 128 allievi nel 1966, 238 nel 1967, 360 nel 1968, 491 nel 1969, 713 nel 1970, 800 nel 1971, 820 nel 1972.

Tra le autorità italiane e svizzere, in alcuni ambienti sindacali, nella collettività italiana e nei media si cominciò a percepire quanto originale, intelligente, lungimirante, coraggiosa ed efficace fosse questa nuova organizzazione, non solo per gli effetti diretti che producevano i corsi sui partecipanti, ma anche per l’effetto stimolante che esercitavano nella collettività italiana immigrata nella regione di Berna. (Segue)
(gl 18.12.2020).




16 dicembre 2020

Immigrazione italiana 1970-1990: 33. Integrazione e identità

Il periodo della storia dell’immigrazione italiana in Svizzera che si sta esaminando (1970-1990) è stato fortemente caratterizzato, fra l’altro, da un’ampia e approfondita discussione sull’integrazione. Dalla seconda metà degli anni Sessanta appariva chiara la tendenza alla stabilizzazione degli immigrati italiani, ma erano molte le perplessità su ciò ch’essa poteva comportare in termini di identità personale, nazionalità, cultura, come pure nei rapporti con l’Italia, ma anche con gli svizzeri. Le domande erano tante, le risposte poche e incerte. Dipesero anche da questa incertezza e talvolta paura le difficoltà e la lunghezza del processo d’integrazione della seconda generazione.

Esigenze di chiarezza

Oggi la nozione d’«integrazione» è abbastanza chiara e probabilmente nessuno ha paura di essere «integrato». Fino a quarant’anni era predominante nell’uso comune il termine «assimilazione» rispetto a quello usato oggi d’«integrazione» e poteva fare paura. Sembrava infatti che la Svizzera pretendesse dagli stranieri che intendevano stabilizzarsi e magari naturalizzarsi una rinuncia al proprio passato, alla propria cultura, alle proprie tradizioni e un assorbimento totale della lingua, della cultura, degli usi locali. Un processo che appariva a molti immigrati italiani giustamente inaccettabile.

La richiesta di entrare a far parte della nuova società non poteva esigere un’assimilazione totale delle sue caratteristiche dominanti e la dimenticanza fino alla negazione delle proprie abitudini, del proprio modo di pensare, della propria lingua e cultura d’origine, lo sradicamento completo. Forse nessuno ha mai pensato seriamente di poter chiedere agli stranieri di rinunciare o addirittura negare le proprie origini, ma sicuramente erano moltissimi gli stranieri che temevano conseguenze del genere e per questo si ponevano in una posizione preventiva di rifiuto.

Per rendere accettabile e persino conveniente l’integrazione specialmente delle giovani generazioni di stranieri sono stati necessari decenni di discussioni, studi, modifiche legislative, azioni mirate di sensibilizzazione tra gli stranieri e nella società civile. Del resto, le discussioni non sono terminate e gli aggiustamenti del concetto d’integrazione sono costanti. Il motivo è semplice: l’integrazione è un processo complesso che varia nel tempo e nello spazio perché variano i protagonisti, non solo gli stranieri ma anche la società in cui sono chiamati a inserirsi.

Non dovrebbe pertanto suscitare meraviglia che in Svizzera si discuta d’integrazione, inizialmente nella forma primitiva dell’assimilazione, fin dall’inizio del secolo scorso, ossia da quando cominciò a porsi in maniera seria il problema del rapporto degli svizzeri con la massa crescente d’immigrati. Qualche considerazione al riguardo può aiutare a comprendere meglio le difficoltà oggettive che molti italiani hanno dovuto superare prima di potersi considerare integrati, senza sentirsi costretti a rinunce inaccettabili.

Considerazioni sull’integrazione

La prima considerazione riguarda il concetto stesso di integrazione. Sono occorsi decenni di studi e discussioni per giungere al primo «abbozzo per un concetto d’integrazione», elaborato dalla Commissione federale degli stranieri (CFS) nel 1996 nel contesto della revisione della legge federale sull’asilo e gli stranieri. Solo un decennio dopo è stato possibile leggere in testi normativi che «l’integrazione mira alla convivenza della popolazione residente indigena e di quella straniera, sulla base dei valori sanciti dalla Costituzione federale, nonché sulla base del rispetto reciproco e della tolleranza, […] è volta a garantire agli stranieri che risiedono legalmente e a lungo termine in Svizzera la possibilità di partecipare alla vita economica, sociale e culturale della società,[…] presuppone la volontà degli stranieri di integrarsi nella società e un atteggiamento di apertura da parte della popolazione svizzera. Occorre che gli stranieri si familiarizzino con la realtà sociale e le condizioni di vita in Svizzera, segnatamente imparando una lingua nazionale».

La seconda considerazione riguarda gli stranieri. Non erano sempre gli stessi i soggetti considerati, anzi erano sempre diversi, perché gli stranieri sono giunti (e continuano a venire) in Svizzera a ondate successive, dapprima dai Paesi vicini (Germania, Francia, Austria, Italia), poi anche da Paesi più lontani (Spagna, Portogallo, Grecia, Turchia, ecc.). Inoltre erano varie non solo le motivazioni che spingevano ad emigrare in Svizzera, ma anche le propensioni all’integrazione. Per esempio, per gli italiani questa disposizione è sempre stata debole non solo per la vicinanza all’Italia, ma anche per ragioni storiche, linguistiche, culturali ed economiche.

La terza considerazione riguarda gli svizzeri. Spesso li si considera come appartenenti a un popolo omogeneo, dimenticando che costituiscono in realtà una popolazione molto composita con origini, culture, lingue, confessioni religiose, governi, ecc. differenti. Tra loro sono tenuti uniti da più di un collante, ma soprattutto da un processo d’integrazione che dura tutt’ora. Questo fa sì che tutti si riconoscano in un’unica Confederazione ma nella diversità linguistica, culturale, confessionale, regionale, ecc. Purtroppo, però, quel che ogni svizzero comprende e giustifica nei connazionali in nome dell’unità nazionale non sempre lo ha saputo accettare negli stranieri, interessati a mantenere vive le loro tradizioni, la loro lingua e la loro cultura.

Gli italiani e l’integrazione

Come accennato, gli italiani non sono mai stati molto propensi all’integrazione in Svizzera (cfr. L’ECO del 25.11.2020, p. 10: Emigrazione e integrazione), tanto è vero che sono sempre stati relativamente pochi gli immigrati e le immigrate che hanno contratto matrimoni misti ed è rimasto sempre modesto fino ai primi anni Novanta il numero delle naturalizzazioni. Solo quando fu resa possibile la doppia cittadinanza (dal 1992) c’è stato un forte incremento (attualmente sono oltre 240.000 gli italo-svizzeri).

L’andamento del numero delle naturalizzazioni, che riguardano soprattutto gli italiani nati in Svizzera (oltre i due terzi del totale) indica bene che l’integrazione dei giovani italiani era già in atto in larga misura fin dagli anni Settanta e Ottanta, ma non raggiungeva il suo massimo naturale (naturalizzazione) per motivi non dipendenti da loro stessi: l’acquisto della cittadinanza svizzera comportava la rinuncia a quella italiana, l’obbligo del servizio militare e dei corsi di ripetizione per i maschi, ecc.

La situazione ha cominciato a cambiare dalla fine degli anni Settanta quando molti genitori si convinsero che i loro figli sarebbero rimasti probabilmente qui anche se loro fossero rientrati presto o tardi in Italia (cfr. articolo precedente) e tanto valeva agevolare loro la strada dell’integrazione. I benefici, purtroppo, tardarono ad arrivare, ma dagli anni Novanta, come si vedrà in un’altra serie di articoli, saranno sempre più evidenti.

Verso una nuova identità

Nel trattare del processo d’integrazione dei giovani italiani della seconda generazione nel periodo in esame ci si è spesso interrogati se esso non abbia pregiudicato addirittura la loro identità. Ad alcuni osservatori (forse un po’ superficiali) sembrava infatti che questi giovani figli di immigrati, con l’integrazione linguistica, scolastica, sociale e culturale in questo Paese, acquisissero più problemi che certezze e vivessero in una specie di stato confusionale perché, pur essendo nati e cresciuti qui non si sentivano né svizzeri né italiani. Per definire questa situazione si usò l’espressione «Weder-noch-Generation», come se un’intera generazione fosse definibile più in negativo che in positivo, come se a prevalere in quei giovani fosse la confusione e l’incertezza e non l’arricchimento derivante dall’incontro con nuove culture, nuove realtà, nuovi amici, nuove prospettive, capaci di rafforzare e persino elevare l’identità dei soggetti interessati.

In quell’epoca c’era, in effetti, molto turbamento tra i giovani, alcuni ne soffrirono a lungo, altri preferirono rientrare in Italia per eliminare alla radice il problema, tanto più che secondo un’opinione diffusa naturalizzarsi non era bello per un italiano e il passaporto italiano apriva in Europa più porte del passaporto rossocrociato!

In realtà, non era l’integrazione o la naturalizzazione che provocava disorientamento, ma l’incapacità degli adulti di vederne i vantaggi minimizzando gli eventuali svantaggi. Eppure bastava prendere in considerazione anche solo i profitti derivanti dalla conoscenza delle lingue, l’accesso a una formazione professionale con prospettive certe di un lavoro qualificato e rispettato, la possibilità di accedere a culture e mondi diversi… e tutto ciò senza alcuna perdita significativa d’identità o di dignità. Fortunatamente la maggioranza dei giovani è andata avanti…bene! (Segue)

Giovanni Longu
Berna, 17.12.2020