Dal traforo del San Gottardo, che avevano contribuito a
finanziare con 4 milioni di franchi («un autentico dissanguamento finanziario»,
secondo lo storico R. Romano), i ticinesi si aspettavano una grande ricaduta
economica e un decisivo impulso allo sviluppo industriale del Cantone.
Dovettero invece ben presto ricredersi perché la nuova ferrovia trasportava
soprattutto prodotti provenienti dalla Svizzera interna e un numero crescente di
svizzeri tedeschi attratti dal clima mite e dalle bellezze naturali del Ticino.
L’invasione dei confederati
La calata dei confederati nella Sonnenstube der Schweiz,
il salotto soleggiato della Svizzera, contribuiva indubbiamente allo sviluppo
del turismo ticinese, ma a beneficiarne erano soprattutto loro, i confederati.
In tutto il Cantone si dovettero costruire nuove strutture ricettive,
soprattutto alberghi, ma la loro proprietà e gestione restava per lo più in
mano degli svizzero-tedeschi. A Lugano e Locarno i ticinesi detenevano meno dei
15% delle strutture alberghiere.
Per tutta una serie di fattori (clima, lavoro, accoglienza,
condizioni di vita), molti confederati finivano per trasferirsi stabilmente in
Ticino, ma pur restando un’esigua minoranza (ancora nel 1910 rappresentavano
appena il 3,4% della popolazione residente), inducevano nei ticinesi una
sensazione di invasione e d’«inforestierimento». Più che il loro numero
preoccupava la loro influenza crescente non solo nell’economica ma anche nella politica,
ben superiore a quella degli italiani, che costituivano oltre il 28% della
popolazione.
Una situazione particolarmente conflittuale si determinò
nella gestione della ferrovia del San Gottardo perché nelle assunzioni dei
dirigenti venivano sistematicamente preferiti gli svizzeri tedeschi. Secondo
gli impiegati ticinesi si trattava di una vera e propria discriminazione
razziale. Effettivamente, ha scritto lo storico Georg Kreis, «il pensiero di
quegli anni era fortemente impregnato di idee razziste, di preconcetti sulle
caratteristiche del tipo germanico e neolatino. In quest’ottica, gli
appartenenti alla razza germanica ritenevano di essere dotati delle migliori
qualità; i ticinesi erano considerati, nel migliore dei casi, dei primitivi con
gli zoccoli e i mandolini».
Il disagio crescente dei ticinesi
Per i confederati esisteva una «questione ticinese»: la
presunta ambiguità dei ticinesi tra italianità ed elvetismo e i sospetti
d’inaffidabilità e persino d’irredentismo (movimento politico tendente a riunire
alla madrepatria territori e popoli ad essa legati per lingua e cultura ma
appartenenti a uno stato straniero), quasi che, scontenti della madre
«adottiva» svizzera, i ticinesi volessero tornare dalla madre «naturale»
italiana. Non spiegavano altrimenti la forte presenza di italiani in Ticino con
cui si facevano affari e l’ostilità nei loro confronti.
Dal punto di vista ticinese, invece, esisteva soprattutto un
problema di «intedeschimento» del Cantone. Gli immigrati «regnicoli», infatti,
per quanto numerosi non sfioravano nemmeno l’influenza esercitata dagli svizzero-tedeschi,
proprietari di aziende industriali e strutture turistiche e a capo dei
principali servizi amministrativi federali. Inoltre, gli svizzeri tedeschi non
facevano nulla per assimilarsi, anzi se ne stavano isolati per conto loro,
nelle loro associazioni, con i loro giornali in tedesco, potevano mandare i
figli nelle loro scuole.
La penetrazione degli svizzero-tedeschi e con essi anche
della lingua tedesca, creava negli ambienti cantonali, scrive lo storico M.
Marcacci, un crescente disagio e insofferenza verso «l'imbastardimento
linguistico e culturale del Ticino, complice la Confederazione che mostrava
scarsissima attenzione alla lingua italiana nei servizi pubblici federali
dislocati in Ticino e nella corrispondenza con le autorità e l'amministrazione
cantonale».
Contro l’«intedeschimento»
Si schierarono apertamente contro l’«intedeschimento» e in
difesa dell’italianità del Cantone Ticino molte personalità ticinesi e italiane
quali Francesco Chiesa, Carlo Salvioni, Giuseppe Zoppi, Giuseppe Prezzolini, Teresa
Bontempi, Rosetta Colombi, ecc. I loro interventi riempivano intere pagine di
giornali e riviste provocando anche nella stampa confederata e negli ambienti
politici nazionali intensi dibattiti.
Un episodio emblematico dell’atmosfera che regnava agli
inizi del Novecento nei rapporti tra ticinesi e confederati fu quello del
tentativo di alcuni intellettuali di creare in Ticino una sezione della Società
Dante Alighieri. I promotori, allo scopo di evitare ogni fraintendimento, nel
manifesto presentato nel 1908 sottolinearono il carattere esclusivamente
«ticinese» dell’iniziativa: «Noi sottoscritti, cittadini ticinesi, ci siamo
proposti di costituire una sezione della “Dante Alighieri”, la quale si
componga di soli svizzeri italiani.…».
Ticino irredentodi Ferdinando Crespi, 2004 |
Il manifesto sollevò tanti entusiasmi, ma anche tante
contrarietà, perché alcuni ambienti cattolico-conservatori ritenevano la Dante
Alighieri in mano della massoneria, anticlericale e irredentista. Soprattutto
il Bund di Berna, quotidiano ritenuto organo ufficioso del
Consiglio federale, parlò della sezione ticinese della Dante come di una sorta
di cavallo di Troia dell’irredentismo italiano e accusò la «Estrema Sinistra»
ticinese di «aizzare gli spiriti contro gli svizzeri tedeschi» e di
«sciovinismo linguistico». Gran parte delle reazioni della stampa confederata
era sulla stessa lunghezza d’onda e temevano il rischio di «disvizzerizzazione
ed italianizzazione del Canton Ticino in senso nazionalistico-irredentista».
Viste le forti opposizioni, si dovette rinunciare a quel
progetto, ma si sperò di metter mano subito a un altro progetto, quello di
avere in Ticino un «Istituto ticinese di alta cultura», una «Università della
Svizzera Italiana», una «Università Ticinese». Le altre regioni linguistiche
del Paese si erano già dotate di università. Solo la Svizzera italiana non
aveva nemmeno un istituto superiore. Lo scopo era evidente: «la nostra
situazione di svizzeri italiani crea la necessità di una scuola superiore non
solo per salvaguardare i diritti della nostra cultura latina (...) ma anche per
permetterci di fare comodamente i nostri studi nel Cantone, senza dover
rivolgerci agli Atenei d'Italia o delle altre parti della Svizzera, ciò che
crea spesso delle difficoltà non lievi (...)». Così scriveva uno studente
ticinese da Ginevra sul Corriere del Ticino nel 1912.
Da parte sua, lo scrittore Francesco Chiesa ammoniva: «La
redenzione del Ticino non può essere fatta dalla Svizzera, non può essere
compiuta dall'Italia: essa deve venire dal Ticino stesso. Unico mezzo potente a
tale scopo: la fondazione di un istituto ticinese di alta coltura». Se ne
discusse molto, ma anche questa idea venne presto abbandonata per l’impotenza
del Cantone a realizzarla né da sola né in collaborazione con la
Confederazione.
Le «Rivendicazioni ticinesi»
Cons. fed. Giuseppe Motta |
Le reazioni contro l’«intedeschimento» intanto crescevano e
dopo la guerra ripreso vigore. A dare man forte ai concittadini intervenne
anche l’allora consigliere federale Giuseppe Motta, il quale sostenne
nel 1919 che «la forza e la ragione d’essere della Confederazione stanno nella
libera unione di stirpi diverse; quanto più moralmente forte sarà ognuna di
codeste stirpi, tanto più politicamente forte sarà la Confederazione stessa. La
differenza delle lingue è il nostro privilegio ed orgoglio; perciò,
nell’interesse comune, proteggiamole sforzandoci di mantenerle schiette e pure
il Ticino dev’essere fiero della sua alta missione internazionale: quella di
rappresentare al mondo intero l’elemento italiano della “piccola società delle
nazioni!”. La nostra funzione è nobile ed ha un valore profetico; mostriamocene
degni! La cura dell’italianità del Ticino è cura giusta e nello stesso tempo
patriottica: dalla floridezza del nostro Cantone non può che derivare maggiore
splendore della Confederazione tutta».
Il sentimento della duplice appartenenza all’Italia e alla
Svizzera era ormai molto diffuso e irrinunciabile in tutto il Cantone. E quando
i tempi sembrarono maturi, nel 1924, prima ancora che imperversasse in Ticino
la propaganda fascista, i ticinesi presentarono al Consiglio federale le famose
«Rivendicazioni».
Cominciavano col ricordare le «lacrime» e il «sangue»
costati ai ticinesi durante la plurisecolare dominazione elvetica che «ha lasciato
il Cantone spoglio degli elementi essenziali della civiltà». Si chiedeva poi, oltre
a una serie di rivendicazioni economico-finanziarie, la chiusura delle scuole
tedesche per i figli dei dipendenti delle ferrovie federali, un contributo
straordinario per le scuole ticinesi e la concessione di un sussidio per la
«difesa» della lingua e della cultura italiane. Forse per avvalorare le
richieste, si accennava anche al pericolo dell’irredentismo italiano, che
occorreva bloccare sul nascere. Si rivendicava in sostanza soprattutto il
diritto dei ticinesi di appartenere a un Cantone «rappresentante non degenere
della razza e della cultura italiana».
Nella Svizzera tedesca, evidentemente, non tutti
condividevano le rivendicazioni ticinesi e in un libello del 1926 imputavano
all’insipienza degli stessi ticinesi il loro sottosviluppo e a una gioventù
senza valori e senza ideali.
Sostegno federale per la lingua e cultura italiane
Di fronte al rischio che le «rivendicazioni» ticinesi
fornissero un pretesto a Benito Mussolini, da poco al potere in Italia, per
ingerirsi negli affari interni della Svizzera, il Consiglio federale si
affrettò a dare ampia soddisfazione al Ticino. Fu deciso ad esempio di versare
al Cantone un contributo non indifferente di 450.000 franchi l’anno per la
difesa della lingua e della cultura italiane. Sta di fatto che il fascismo in
Ticino, nonostante i cospicui aiuti finanziari inviati da Mussolini, ebbe uno
scarsissimo seguito.
La propaganda fascista e la corrente irredentista erano
serviti in un certo senso al Ticino come «un’arma di pressione sul governo
centrale». Con la caduta del fascismo essa venne meno, ma le rivendicazioni
ticinesi continuarono… praticamente fino ai nostri giorni, anche se ormai da
decenni l’italianità del Ticino, grazie anche al contributo italiano, come si
vedrà in seguito, è unanimemente dichiarata fuori pericolo, col conforto delle
statistiche ufficiali.
Giovanni Longu
Berna, 7.11.2012
Berna, 7.11.2012
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