Con la nascita dello Stato federale (1848) ogni Cantone era chiamato a fornire il proprio contributo per il benessere di tutti secondo la massima: «tutti per uno – uno per tutti». Il Ticino era disposto a dare il suo, ma senza rinunciare alla proprie caratteristiche peculiari e alla sua «missione». Così l’aveva indicata nell'agosto
La missione del Ticino «italiano» sembrava pienamente
rispettata dalla nuova Costituzione federale, che considerava l’italiano come
una delle tre lingue nazionali, e dall’Assemblea federale, che il 16 novembre 1848
eleggeva nel primo Consiglio federale anche il ticinese Stefano
Franscini. E questi, quasi volesse sottolineare la parità linguistica e
culturale delle principali etnie, il giorno del giuramento pronunciò davanti
all’Assemblea federale un breve discorso in italiano, ringraziando per
l’elezione in Consiglio anche di un rappresentante della Svizzera italiana.
Qualche anno più tardi, all’inaugurazione (15 ottobre 1855) del Politecnico
federale di Zurigo che aveva contribuito a fondare, pronuncerà ancora un
discorso in italiano, «auspicando che anche la terza lingua nazionale trovi un
adeguato riconoscimento in seno al nuovo istituto».
Parità più formale che sostanziale
In realtà la parità e i riconoscimenti erano più formali che
sostanziali. L’italiano era stato inserito come lingua nazionale un po’
casualmente nella Costituzione, in uno degli ultimi articoli (109) sotto il
titolo V «Disposizioni diverse». Franscini venne eletto al terzo turno di
scrutinio con un solo voto oltre il minimo richiesto (68 voti su 132 votanti).
Nella sua instancabile attività di governo incontrò non pochi ostacoli in seno
al Consiglio federale (non solo a causa della sua scarsa padronanza del
tedesco) e finì per essere poco a poco isolato. Deluso, pensava di ritirarsi
dal governo per la fine del 1857 sperando di ottenere una cattedra di
statistica al Politecnico federale di Zurigo, ma dalla Direzione dello stesso
non venne nemmeno considerato proponibile. Morì a Berna prima del suo ritiro il
19 luglio 1857.
Il principale «difetto» di Franscini, almeno agli occhi di
molti confederati e di alcuni colleghi di governo, era probabilmente quello di
provenire da un Cantone ch’egli considerava una «particella d’Italia libera»,
che aveva votato contro la nuova Costituzione federale e visibilmente troppo
filoitaliano nella questione dei rifugiati (che secondo molti confederati e
consiglieri federali andavano espulsi e basta).
Non si trattava solo di divergenze d’opinione, ma di
mentalità. In una lettera all’amico e confidente Giovan Battista Pioda del 6
novembre 1848, ossia pochi giorni prima della sua elezione in Consiglio
federale, Franscini scriveva a proposito del contrasto tra il Ticino e gli
svizzeri tedeschi sulla questione degli esuli italiani: «Facevo conto di
scriverti un po’ a lungo (…) per non lasciar chiacchierar troppo da soli tanti
chiacchieroni di tedeschi, che non finiscono di menar la lingua sul nostro
conto, e di tagliarci i panni addosso».
Nella sua posizione di consigliere federale sapeva di
svolgere una funzione delicata di mediatore al di sopra delle parti, ma i suoi
tentativi di mediazione erano spesso fraintesi sia dai ticinesi che dai
confederati. Per i primi, Franscini appariva talvolta come un «supino portavoce
dell’indisponibilità bernese, se non quasi un traditore» e forse per questo non
venne rieletto in Consiglio nazionale nel 1854 e dovette essere «ripescato» dal
Cantone di Sciaffusa. Per molti confederati, e persino per qualche collega di
governo, era ritenuto un interlocutore inaffidabile e partigiano. Eppure era assolutamente convinto della
bontà del federalismo e della coesione nazionale, e non perdonava certo agli
italiani il «difetto di liberalismo» o rinunciava a dire «semplici verità» ai
corregionali perché «cosi reputo di amare la patria quanto più ardisco parlarle
in ogni cosa la verità».
I successi di Giovan Battista Pioda, successore di
Franscini
Giovan Battista Pioda (1808-1882) |
Alla morte improvvisa di Franscini (19 luglio 1857) venne
chiamato a succedergli per continuarne l’opera (censimenti, statistica,
politecnico federale, ecc.) un altro ticinese, l’amico Giovan Battista Pioda,
che resterà in Consiglio federale fino agli inizi del 1863. Fu indubbiamente
più apprezzato e sostenuto del predecessore, ma resosi vacante il posto di
rappresentante della Svizzera presso il Regno d’Italia, preferì dimissionare
(gennaio 1863) da consigliere federale e trasferirsi in Italia come ministro
plenipotenziario nelle varie capitali del Regno, dapprima a Torino (1864), poi
a Firenze e a Roma. Del resto, come in molti intellettuali dell’epoca, anche in
lui, uomo di legge e fine diplomatico, ma anche grande umanista, l’Italia delle
grandi città d’arte esercitava una forte attrazione.
Nella nuova funzione di ministro plenipotenziario della
Confederazione, Pioda sperava di mettere al servizio del suo Paese le sue doti
diplomatiche e di contribuire a rafforzare i rapporti italo-svizzeri, in un
periodo in cui si stavano gettando le basi di una grande collaborazione tra i
due Paesi confinanti soprattutto in materia di collegamenti ferroviari
transalpini. In effetti, sostenuto anche dall’illustre esule Carlo Cattaneo,
Pioda riuscì non solo a convincere il governo italiano a scegliere la variante
del San Gottardo, ma anche a far concludere tra la Svizzera e l’Italia la
convenzione per la sua realizzazione (15 ottobre 1869).
Un altro importante accordo italo-svizzero venne stipulato
in materia di emigrazione: il «Trattato di domicilio e consolare tra la
Svizzera e l’Italia» del 22 luglio 1868, tuttora valido. Esso, oltre alla
dichiarazione di «amicizia perpetua e libertà reciproca di domicilio e
commercio» tra i due Paesi, prevedeva che in ogni Cantone della Confederazione
Svizzera, «gli Italiani saranno ricevuti e trattati riguardo alle persone e
proprietà loro sul medesimo piede e nella medesima maniera come lo sono o
potranno esserlo in avvenire gli attinenti degli altri Cantoni. E reciprocamente
gli Svizzeri saranno in Italia ricevuti e trattati riguardo alle persone e
proprietà loro sul medesimo piede e nella medesima maniera come i nazionali. Di
conseguenza, i cittadini di ciascuno dei due stati, non meno che le loro
famiglie, quando si uniformino alle leggi del paese, potranno liberamente
entrare, viaggiare, soggiornare e stabilirsi in qualsivoglia parte dei
territorio, senza che pei passaporti e pei permessi di dimora e per l’esercizio
di loro professione siano sottoposti a tassa alcuna, onere o condizione fuor di
quelle cui sottostanno i nazionali».
Ticinesi e italiani: storie parallele
La facilità dell’ingresso e del soggiorno degli italiani in
Svizzera e degli svizzeri in Italia segnava l’avvio di una collaborazione tra i
due Paesi che non si sarebbe mai più interrotta. Per la Svizzera, l’afflusso di
tanti italiani, soprattutto a partire dalla costruzione della ferrovia del San
Gottardo, avrebbe potuto significare anche il rafforzamento della sua
componente «italiana», ma non lo è stato, se non in misura molto modesta.
Ticinesi e italiani, fuori del Ticino, seguirono di fatto storie parallele e
come espressioni separate dell’italianità non riuscirono mai a sommarsi e a
raggiungere insieme una massa critica sufficiente per ottenere la piena
parificazione delle tre lingue e culture a tutti i livelli di rappresentanza
nella politica e nella società.
E’ pur vero che nonostante queste storie parallele, i legami
del Ticino con la sua madre «naturale», l’Italia, non sono mai stati interrotti,
nemmeno quando, «dagli anni sessanta dell’Ottocento (…) il solo parlare
dell’italianità del Ticino veniva interpretato dagli svizzeri come un segno
della volontà del Cantone di tornare a far parte politicamente delle terre
italiane» (Crespi Reghizzo). A questa insinuazione i ticinesi rispondevano
sdegnati chiamando «matrigna» la madre «adottiva», la Confederazione, che non
si occupava dei loro problemi, ma si guardavano bene dall’accettare le
profferte di aiuto provenienti dalla madre «naturale». Nei suoi confronti erano
divenuti sempre più diffidenti e verso gli italiani si consideravano «svizzeri».
«Italia e Svizzera», scultura alla stazione ferroviaria di Chiasso, dell’artista Margherita Osswald Toppi (1933) |
In realtà i ticinesi si sentivano fortemente penalizzati sia
come «italiani» e sia come «svizzeri», ossia «figli di due madri». Ciononostante, con tenacia,
specialmente quando i rapporti con Berna erano più tesi, il Ticino continuava a rivendicare con vigore il suo diritto all’italianità. Purtroppo inutilmente.
Tanto è vero, ad esempio, che dopo le dimissioni di Pioda, la rappresentanza
ticinese in Consiglio federale s’interruppe per quasi mezzo secolo, dal 1864 al
1911.
Pioda morì a Roma il 3 novembre 1882, lo stesso anno
dell’inaugurazione della ferrovia del San Gottardo, la prima grandiosa impresa
della collaborazione italo-svizzera. Molto malato, non poté partecipare al
viaggio inaugurale, ma solo al pranzo ufficiale organizzato a Milano. Narrano
le cronache che nei discorsi ufficiali furono elogiati un po’ tutti, ma non
lui, che pure era stato uno dei principali sostenitori del progetto.
Giovanni Longu
Berna 24.10.2012
Berna 24.10.2012
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