Mi riferisco al titolo del volume di Paolo Barcella: Venuti qui per cercare lavoro. Gli emigrati italiani nella Svizzera del secondo dopoguerra, pubblicato della Fondazione Pellegrini-Canevascini (cfr. CdT del 9.11.2012, p. 40). Non avendo letto il libro, non entro nel merito e prendo solo lo spunto dal titolo, che trovo a prima vista fuorviante e infondato. Esso infatti suggerisce l’idea che nel secondo dopoguerra gli italiani si siano precipitati in massa alle frontiere con la Svizzera in cerca di lavoro e addirittura che questa ricerca di un lavoro sia la caratteristica di tutti «gli emigrati italiani in Svizzera del secondo dopoguerra». Ritengo questa idea del tutto o in massima parte infondata.
Basterebbe infatti ricordare che durante la guerra le
frontiere della Svizzera erano chiuse e quando, alla fine del conflitto, furono
riaperte, i controlli erano strettissimi. Nemmeno gli italiani, nonostante il
trattato di libera circolazione tra l’Italia e la Svizzera del 1868, potevano
entrare liberamente. Si entrava solo con permessi regolari. Perché allora nel
secondo dopoguerra arrivarono in questo Paese decine di migliaia di immigrati
italiani? La risposta è semplice: perché chiamati! La Svizzera aveva allora un
disperato bisogno di manodopera estera, essendo quella indigena assolutamente
insufficiente. Non potendola ottenere dalla Germania e dall'Austria (perché
le potenze occupanti non concedevano permessi di emigrazione) e nemmeno dalla
Francia (perché non aveva esuberi da collocare all'estero), la Svizzera si
rivolse all'Italia, in cui la manodopera era disponibile.
Controllo alla frontiera |
Si potrebbe anche ricordare che già nel 1946 la Svizzera
mise a disposizione degli italiani diverse migliaia di autorizzazioni di cui poterono
beneficiare 48.808 lavoratori immigrati. Le autorizzazioni furono portate a oltre
126 mila nel 1947, ma solo 105.112 furono effettivamente sfruttate a causa
della lenta e farraginosa burocrazia italiana del dopoguerra. Oltre agli
immigrati che potremmo chiamare «regolari» ce ne furono sicuramente altri che
giunsero in Svizzera senza alcun permesso, ma non «clandestinamente». Anche a questi,
infatti, bastava un passaporto turistico per entrare legalmente in Svizzera e
cercare un posto di lavoro, evitando le lungaggini della burocrazia italiana.
Ottenuto il permesso di lavoro, generalmente tramite familiari o amici, era
facile ottenere anche le necessarie autorizzazioni svizzere.
Del resto lo stesso Ufficio federale del lavoro si lamentava
con le autorità diplomatiche italiane della lentezza con cui venivano assegnati
i permessi di emigrazione e del ritardo negli arrivi in Svizzera dei lavoratori
autorizzati. Fu anche per questa ragione che molti imprenditori svizzeri furono
indotti a cercarsi direttamente sul posto, tramite le Camere del lavoro e gli
Uffici del lavoro italiani o reclutatori propri, la manodopera di cui
abbisognavano e a provvedere direttamente ai relativi permessi.
Potrei infine ricordare che il grande scrittore svizzero Max
Frisch, nella sua celebre frase sugli immigrati non scrisse: «son venuti qui
per cercare lavoro…», ma «abbiamo chiamato …».
Giovanni Longu
(Corriere del Ticino, 14.11.2012)
(Corriere del Ticino, 14.11.2012)
Aggiunta. Purtroppo l'idea dei poveri disoccupati italiani
del dopoguerra che si accalcano alla frontiera svizzera in cerca di lavoro è
assai diffusa in molta letteratura sull'immigrazione in Svizzera. E' un'idea che non ha alcun fondamento.
E' vero infatti che
nel dopoguerra, soprattutto nell'Italia del nord c’era molta
disoccupazione, perché molte fabbriche non erano state ancora convertite da un’economia
di guerra a una produzione per usi civili; ma è anche vero che gran parte di
questi disoccupati erano lavoratori qualificati. E’ vero soprattutto che nell'immediato
dopoguerra, per le ragioni suesposte, all'economia svizzera faceva gola questa
manodopera qualificata e si è adoperata attraverso le autorità svizzere e
italiane, le organizzazioni professionali e propri emissari per accaparrarsela.
Di fatto le autorità svizzere misero a disposizione degli italiani un numero di
permessi di soggiorno ben superiore a quello realmente utilizzato. Soprattutto
nei primi anni del dopoguerra i lavoratori italiani erano ricercati, altro che «venuti
per cercare lavoro». La situazione mutò, sotto questo profilo, negli anni ’50,
quando cominciarono ad arrivare gli immigrati meridionali non qualificati e
poco scolarizzati, molti senza ancora un permesso di soggiorno e di lavoro. Ma pure loro, in qualche modo erano «chiamati», perché fino
agli anni ’70 l’economia svizzera aveva bisogno di molta manodopera anche generica.
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