L’immigrazione dall’Italia verso la Svizzera, ridotta a poche centinaia di persone l’anno durante la guerra, riprese vigore al termine delle operazioni belliche, per la congiunzione di tre fattori fondamentali: la grave crisi occupazionale italiana, soprattutto al nord, la forte ripresa congiunturale dell’economia svizzera e la politica immigratoria liberale delle autorità federali.
Per far fronte alle crescenti esigenze dell’economia
svizzera, venivano reclutati ogni anno in Italia decine di migliaia di
lavoratori, praticamente senza restrizioni da parte delle autorità federali. I
permessi di lavoro e le autorizzazioni di soggiorno venivano rilasciati con
grande facilità. In meno di quindici anni, dal 1946 al 1960, sono espatriati in
Svizzera almeno una volta per motivi di lavoro oltre un milione e mezzo di italiani,
gran parte dei quali, tuttavia, successivamente rimpatriati (fonte ISTAT).
Nello stesso periodo, la popolazione italiana residente è passata da meno di
centomila a ben 346.223 persone, senza contare il numero di stagionali, oscillante
tra 100 e 200 mila persone l’anno, ininfluenti sulla statistica della popolazione
residente.
Fabbisogno crescente di manodopera
A distanza di oltre cinquant'anni, credo che sia difficile
per chiunque, anche per gli stessi protagonisti di allora, rendersi conto sia
del fabbisogno svizzero di manodopera estera nel dopoguerra fino agli inizi
degli anni ’60 e sia dei movimenti in entrata e in uscita dei lavoratori
immigrati. Per averne un’idea, bisogna anzitutto ricordare che dalla fine della
guerra tutte le industrie svizzere producevano pressoché al massimo delle loro
capacità e le prospettive di sviluppo, dopo alcune incertezze iniziali, erano
positive.
Per garantire anche in futuro i prodotti sempre più
richiesti dalla società dei consumi che si stava profilando, le industrie avevano
bisogno sia di grandi quantità di energia e sia di infrastrutture stradali efficienti,
in aggiunta a quelle ferroviarie già disponibili, per la distribuzione dei
prodotti. Inoltre, la popolazione crescente e sempre più benestante aveva
enorme bisogno di nuove infrastrutture residenziali (abitazioni), commerciali (fabbriche,
negozi, supermercati, ecc.) e pubbliche (scuole, asili, ospedali, alberghi, chiese,
uffici, ecc.).
Per far fronte a tutte queste esigenze, occorreva uno sforzo
enorme da parte di enti pubblici e privati, che si tradusse in un gigantesco
cantiere che si estendeva praticamente su tutto il territorio nazionale. In pratica
si lavorava e si costruiva ovunque. E’ facile comprendere, a questo punto,
l’esigenza di una quantità crescente di manodopera, che non poteva essere solo quella
locale, ma anche straniera. Soprattutto nei primi decenni del dopoguerra questa
proveniva soprattutto dall'Italia.
Italiani soprattutto e dappertutto
In quel periodo vennero costruite imponenti dighe per la
creazione di bacini di accumulazione in alta montagna in modo da sfruttare
l’acqua della fusione dei ghiacciai e fornire regolarmente l’energia necessaria
all'industria e ai trasporti. Era l’epopea delle grandi dighe e delle imponenti
centrali idroelettriche. In tutti i grandi cantieri gli italiani erano presenti
in gran numero.
Diga di Mauvoisin / Vallese |
Una buona parte delle oltre duecento grandi dighe presenti
in Svizzera sono state terminate o iniziate negli
anni ’50. A titolo di esempio si possono ricordare quelle di Cleuson/Vallese
(1946-1951), Salanfe/Vallese (1947-1952),
Räterischsboden/Berna (1948-1950), Palagnedra/Ticino (1950-1952),
Sambuco/Ticino (1951-1956), Mauvoisin/Vallese (1951-1958), che con
i suoi 237 m
di altezza, alla sua entrata in funzione, era la diga in cemento più alta del
mondo, un record che dovrà cedere pochi anni più tardi alla Grande Dixence/Vallese
(1951-1961), la diga più alta del mondo a gravità in cemento (285 metri ), Vieux-Emosson/Vallese
(1952-1955), Zeuzier/Vallese (1954-1957), Moiry/Vallese
(1954-1958), Albigna/Grigioni (1955-1959), Les Toulles/Vallese
(1958-1963), Luzzone/Ticino (1958-1963), ecc.
Altri lavoratori italiani erano adibiti alla costruzione di
nuove arterie di traffico e al miglioramento di quelle esistenti. Nel 1962
venne inaugurato nella zona di Grauholz, vicino a Berna, il primo tratto della
«Nazionale 1» (N1), destinata ad attraversare la Svizzera da Ginevra al Lago di
Costanza. Nel 1963 venne terminata la tratta Losanna – Ginevra, giusto in tempo
per accogliere i visitatori dell’esposizione nazionale di Losanna. Gli anni
Sessanta e Settanta hanno conosciuto una sorta di euforia per la costruzione di
strade, autostrade e tunnel (si pensi a quelli sotto il Gran San Bernardo tra
la Svizzera e l’Italia, al tunnel del Bernina e soprattutto a quello di ben 17 km sotto il San Gottardo).
Dovunque ci sono italiani all’opera.
Moltissimi italiani erano inoltre attivi nell’edilizia
residenziale, commerciale, industriale e pubblica. Tutte le grandi città
svizzere si rinnovavano e ingrandivano per far fronte alle nuove esigenze di
una popolazione in forte crescita, anche in seguito all’immigrazione e al
benessere, e costantemente bisognosa di nuove abitazioni.
Reazioni xenofobe
Per avere un’idea dei flussi di lavoratori stagionali che
arrivavano in primavera e rientravano all’inizio dell’inverno basti pensare che
per alcune settimane transitavano alla frontiera con l’Italia fino a cinque
mila stagionali al giorno. Benché l’Italia vivesse in quegli anni (1959-1963)
un boom economico mai conosciuto fino ad allora, con tassi d’incremento del
prodotto interno lordo eccezionali, nello stesso periodo la Svizzera richiamava
ancora decine di migliaia di lavoratori italiani.
Gli italiani costituivano nel 1960 circa il 60% degli
stranieri residenti e una percentuale ben più alta conteggiando gli stagionali
e i frontalieri. Si calcola che nel 1960 fossero presenti in Svizzera complessivamente
circa mezzo milione di italiani.
La Svizzera, tuttavia, non era allora un modello di
accoglienza e gli immigrati, soprattutto gli italiani, erano benvenuti solo per
il lavoro che svolgevano, praticamente rifiutato o comunque non ambito dagli
svizzeri. Già sul finire degli anni ’50 cominciarono a diffondersi soprattutto nella
regione di Zurigo, dove era più massiccia la presenza degli italiani immigrati,
i movimenti antistranieri, che si diffonderanno negli anni Sessanta e Settanta
in tutta la Svizzera
soprattutto di lingua tedesca.
Nel 1961 venne fondato a Winterthur il partito «Nationale
Aktion gegen die Überfremdung von Volk und Heimat» (Azione nazionale contro
l’inforestieramento del popolo e della patria), che produrrà in seguito le più
insidiose iniziative popolari antistranieri all’insegna «la Svizzera agli
Svizzeri» e «gli stranieri sono troppi». Vi aderivano soprattutto insegnanti di
scuola, operai, piccoli impiegati e contadini.
Nel 1963 si costituì a Zurigo il «Movimento indipendente
svizzero per il rafforzamento dei diritti del popolo e della democrazia diretta»,
chiamato abitualmente «Partito anti-italiano». Alcuni svizzeri cercarono di
scatenare, tramite volantini e lettere razziste, in maggioranza anonime, l'odio
contro gli stranieri e in particolare gli italiani del Sud. Fortunatamente non
ebbe molto seguito, ma contribuì a diffondere il veleno antistranieri.
Forti pressioni sul governo
Occorre anche ricordare, per completare il quadro ambientale
di quel periodo, che fin dalla metà degli anni ‘50 il sindacato svizzero chiedeva
alle autorità federali di porre un freno all’immigrazione perché, così
riteneva, minacciava una contrazione dei salari a danno dei lavoratori
(svizzeri) e un aggravamento della penuria degli alloggi. In realtà i sindacati
svizzeri erano anche preoccupati della perdita di iscritti. Infatti, con
l’arrivo degli stranieri per occupare i posti meno retribuiti della produzione,
molti svizzeri abbandonavano le attività di produzione per diventare impiegati
e uscire così dal sindacato operaio.
Nel 1963 si stava discutendo il nuovo accordo italo-svizzero
di emigrazione in sostituzione di quello superato del 1948. In esso si
prevedevano alcuni miglioramenti per i lavoratori italiani, che agli occhi dei
movimenti xenofobi sembravano così eccessivi da minacciare, in caso di ratifica
dell’accordo, una marcia su Berna.
Di fronte alle pressioni provenienti da ogni parte, esclusa
ovviamente quella interessata dell’economia, il Consiglio federale decise di
intervenire. Fino ad allora aveva adottato una politica d’immigrazione molto
liberale, atta a soddisfare in primo luogo le necessità dell'economia.
Ora si trattava di raffreddare il clima che rischiava di arroventarsi, venendo
incontro alle richieste sindacali e della maggioranza dei partiti svizzeri e
imporre misure volte a diminuire la dipendenza dell’economia dalla manodopera
estera, ridurre gradualmente la percentuale di stranieri in Svizzera, frenare le
tendenze inflazionistiche (aumento della domanda di alloggi e di beni di
consumo e quindi dei prezzi), ma anche dare un segnale di risposta ai movimenti
xenofobi, che cominciavano a creare malcontento nel Paese.
La svolta: il contingentamento
Così, il 1° marzo 1963, il Consiglio federale introdusse
per la prima volta il «contingentamento» della manodopera estera, per limitare
l’immigrazione incontrollata, che cresceva ad un ritmo fino all’11% annuo. Con
un’ordinanza venne determinato il numero massimo autorizzato di stranieri per
azienda. In questo modo intendeva anche venire incontro alle richieste sindacali
e della maggioranza dei partiti svizzeri.
La misura non si rivelerà molto efficace, ma segnò una
svolta nella politica federale d’immigrazione, determinando un intervento dello
Stato sempre più diretto in materia. Decretò, di fatto, la fine di un lungo
periodo d’immigrazione orientata quasi esclusivamente a soddisfare le esigenze
dell’economia elvetica. Purtroppo non segnò allo stesso tempo l’avvio di una nuova
politica orientata all'integrazione. Per questa si dovrà attendere ancora quasi
un decennio.
Giovanni Longu
Berna, 27.02.2013
Berna, 27.02.2013
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