Osservatori nazionali e internazionali sembrano non avere dubbi sul rischio d’ingovernabilità dell’Italia. In molta stampa, compresa quella svizzera, il rischio è anzi certezza e c’è chi vede addirittura il Bel Paese sull'orlo del burrone, vicino al precipizio, in procinto di affondare e quanto meno nel caos della confusione totale. In effetti, a voler leggere gli esiti dello scrutinio alla luce dei criteri interpretativi tradizionali, queste elezioni non hanno fornito indicazioni chiare sulla composizione del prossimo governo. Dalle urne non è emersa una maggioranza netta (tranne che nella Camera dei deputati, ma solo grazie a una legge elettorale pasticciata, contestata da ogni parte) per cui è difficilmente immaginabile un governo solido e stabile di tipo tradizionale.
I risultati elettorali, per quanto di difficile interpretazione, hanno comunque fornito, a mio parere, molte indicazioni preziose sulla futura politica italiana. Per cogliere appieno il senso di queste indicazioni bisognerebbe tuttavia modificare la chiave di lettura tradizionale. Finora le elezioni servivano essenzialmente a determinare una maggioranza e una minoranza in funzione della governabilità. Chi vinceva definiva un programma ed esprimeva il futuro governo (inteso essenzialmente come «potere»), chi perdeva era relegato al ruolo dell’opposizione. La campagna elettorale si svolgeva in questa ottica e, soprattutto nella visione bipolare degli ultimi decenni, serviva anche a mettere in luce le diversità (ideologiche più che programmatiche) e persino l’inconciliabilità delle diverse posizioni. L’esito delle ultime elezioni dimostra invece che può esistere un’altra visione e una prospettiva di governo diversa.
L’antipolitica e la sofferenza diffusa
Forse mai come in queste votazioni gli italiani si sono così
poco preoccupati della governabilità del Paese (non dando ascolto ai fautori
del voto «utile», sia Berlusconi che Bersani). Di fatto essi hanno preferito
dare altre indicazioni alla politica e non è vero che non sono chiare.
Un primo segnale è sicuramente quello che comunemente
viene chiamato l'antipolitica, ossia il disgusto dell’opinione pubblica nei
confronti di una classe politica ritenuta una «casta» usurpatrice di privilegi ingiustificati,
talvolta corrotta, e soprattutto incapace di risolvere i problemi del Paese e
quindi inutile. Emblematico, in questo senso, il grido istrionico di Beppe
Grillo, leader del Movimento 5 Stelle: «Arrendetevi, siete circondati, siete
sconnessi dalla realtà. Chiedete scusa e andatevene». Che non si tratti di un
grido isolato, ma interpreti un sentimento molto diffuso nel Paese lo dimostra
la valanga di voti che ha raccolto questo Movimento con velleità
rivoluzionarie.
Il secondo segnale inviato dagli elettori alla classe
politica è la sofferenza diffusa in una fascia sempre più ampia della
popolazione, per l’esasperazione delle criticità presenti nel Paese, aggravate
anche dalla politica di austerità e di rigore del governo Monti: disoccupazione
in aumento, soprattutto quella giovanile, crisi delle piccole e medie imprese,
pressione fiscale sempre più pesante, rischio crescente di povertà, ecc.
Governabilità e senso dello Stato
A questo punto il problema della governabilità acquista nell'opinione
pubblica un significato assai diverso da come lo s’intendeva finora. Non è
tanto importante per gli elettori e quindi per il Paese chi governa e quale
maggioranza lo sostiene, ma conta solo che qualunque sia il governo che si
appresti a governare sia in grado di favorire l’occupazione, di creare
prospettive ai giovani, di operare sgravi fiscali alle famiglie e alle piccole
e medie imprese, di diminuire vistosamente i costi della politica, di migliore
i servizi ai cittadini, di saper stare in Europa con responsabilità e dignità ma
anche esigendo rispetto.
In questo senso credo che gli elettori abbiano parlato
chiaro. A chi lamenta che il quadro politico emerso è piuttosto confuso,
bisognerebbe rispondere che non sta agli elettori indicare le soluzioni, ma sta
agli eletti cogliere le aspettative degli elettori, senza nascondersi nelle
difficoltà oggettive delle soluzioni da trovare. Ed è a questo punto che
dovrebbe scattare, soprattutto nei vertici dei maggiori partiti rappresentati
nel nuovo Parlamento, il senso dello Stato e il senso di responsabilità.
«Concorso» dei partiti
E’ auspicabile che nessuna forza politica si sottragga alle
proprie responsabilità. Al riguardo mi sembra utile ricordare che la
Costituzione all’articolo 49 dice espressamente che i partiti «concorrono» a
determinare la politica nazionale. Nel linguaggio giuridico il modo
indicativo (concorrono) indica sovente un obbligo, un dovere. Lo è certamente
in questo caso. Del resto, non appartiene né alla lettera né tantomeno allo
spirito della Costituzione l’auspicio che a governare sia sempre un partito che
detenga la maggioranza assoluta in entrambe le Camere.
Di quale governo ha bisogno il Paese? |
Ritengo pertanto che, soprattutto in una situazione di
oggettiva difficoltà come quella attuale, tutti i partiti, nessuno
escluso, sentano l’obbligo costituzionale e morale di «concorrere» alla
governabilità del Paese. Sarebbe anche un’opportunità unica per farsi perdonare
le innumerevoli violazioni dello spirito della Costituzione, quando i partiti
si comportavano come avversari incompatibili e intenti soprattutto a
distruggersi a vicenda. Dichiarare a priori, oggi, l’esclusione o
l'autoesclusione di qualche partito dal diritto-dovere di «concorrere» alla
presa delle decisioni utili al Paese mi pare francamente un atteggiamento irresponsabile
e persino anticostituzionale.
Trovare le soluzioni in Parlamento
Non credo che per superare l’apparente frammentazione si
debba auspicare una sorta di «governicchio» giusto il tempo necessario per fare
una legge elettorale dignitosa e rispettosa della volontà popolare e poi andare
nuovamente alle elezioni.
Mi auguro che il Presidente Napolitano abbia
la forza e la saggezza di conferire l’incarico di formare il governo solo a una
personalità prestigiosa e intenzionata a costituire un governo stabile, in
grado di elaborare un programma di governo di massima non dettagliato con
l’impegno di discutere in Parlamento per l’approvazione tutte le proposte per
la soluzione dei problemi del Paese.
Il Presidente Giorgio Napolitano |
Il voto di fiducia richiesto dalla Costituzione per
governare dovrebbe riguardare non tanto le soluzioni che il governo
intenderebbe adottare, quanto piuttosto la sua volontà di cercare e trovare
insieme in Parlamento le soluzioni più idonee e più condivise. A differenza del
governo «tecnico» a guida Monti, che si fondava di fatto su una costrizione
morale dei vecchi partiti a concedere la fiducia ogniqualvolta fosse stata
richiesta, il prossimo governo dovrebbe essere un vero e proprio «esecutivo»
che propone, prepara e mette in esecuzione i provvedimenti approvati «a
maggioranza» dal Parlamento.
Soluzione praticabile e vantaggiosa
Questa soluzione, a mio parere praticabile (tanto è vero che
in Paesi come la Svizzera, dove manca il voto di fiducia, è praticata), non
dovrebbe rappresentare in Italia una specie di rivoluzione, ma la logica
conseguenza di fronte alla gravità dei problemi da affrontare e il rischio
dell’ingovernabilità.
Oltre tutto corrisponderebbe alla volontà popolare che ha fatto capire chiaramente che la contrapposizione partitica violenta e intransigente dev'essere considerata finita. I partiti conservano la loro ragion d’essere unicamente nello spirito della Costituzione e pertanto unicamente se disposti a «concorrere» democraticamente alla politica nazionale.
Oltre tutto corrisponderebbe alla volontà popolare che ha fatto capire chiaramente che la contrapposizione partitica violenta e intransigente dev'essere considerata finita. I partiti conservano la loro ragion d’essere unicamente nello spirito della Costituzione e pertanto unicamente se disposti a «concorrere» democraticamente alla politica nazionale.
A favore di questa possibile soluzione (simile ma non uguale
al governo di «larghe intese» detestato soprattutto da Grillo e Bersani) andrebbe
anche ricordato che nel Parlamento i partiti non hanno di per sé alcun ruolo e
deputati e senatori nelle rispettive Camere si riuniscono in «gruppi
parlamentari» e non in «gruppi partitici». I partiti sono associazioni di
cittadini che rappresentano interessi politici particolari, ma non hanno alcuna
funzione legislativa, se non quella di preparare, selezionare e presentare
candidati alle elezioni. La sede propria dei partiti non è il Parlamento ma la
società civile.
Parlamentari responsabili
Ad avvalorare la possibilità di una tale soluzione
contribuisce anche l’articolo 67 della Costituzione, spesso dimenticato ma
fondamentale, che recita: «Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione
ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato». Ciò significa che i
parlamentari, una volta eletti, anche se restano nel partito sotto il cui
simbolo sono stati eletti, non hanno alcun obbligo di seguirne eventuali
indicazioni di voto. Ma questo Grillo lo sa? Ogni deputato e senatore vota
(dovrebbe votare) secondo scienza e coscienza, persino in opposizione ad altri
membri dello stesso partito e in disaccordo col capo, che magari dall'esterno pretende
di dirigere tutte le operazioni arrogandosi la funzione di «garante». Può
persino trasmigrare da un gruppo parlamentare all'altro perché in Parlamento ci
sono unicamente eletti dal popolo e non delegati dei partiti.
Mi auguro, per il bene dell’Italia, che questa sorta di
miracolo avvenga, almeno per un periodo sufficiente ad apportare fiducia e
tranquillità tra gli italiani e tra i partner europei, anche se l’ottimismo nei
media mi sembra scarsamente rappresentato. Il ringiovanimento del Parlamento e
la forte presenza femminile potrebbero contribuire ulteriormente a creare tra
tutti i parlamentari un maggior spirito di collaborazione e una buona dose di
fiducia.
Giovanni Longu
Berna, 6.3.2013
Berna, 6.3.2013
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