19 marzo 2025

1905: la rivoluzione russa e l’immigrazione italiana

Si è soliti considerare la Rivoluzione russa del 1917 come se si fosse compiuta interamente in quell’anno. In realtà il vero inizio va anticipato di dodici anni, perché nel gennaio 1905 una massa di oltre centomila persone marciò pacificamente a Pietroburgo verso il Palazzo d’Inverno per chiedere allo zar Nicola II «giustizia e protezione» contro la miseria, l’ignoranza e la prepotenza delle autorità. Non giunsero a destinazione perché l’esercito ebbe ordine di sparare contro la massa inerme. Persero la vita mille persone e duemila furono ferite. Fu quell’eccidio a dare inizio alla rivoluzione, che si diffuse poi in tutta la Russia. Non decretò subito la fine dell’impero russo, ma l’accelerò. Il colpo mortale gli fu assestato nel 1917, quando Lenin prese la guida dei rivoltosi, travolse il regime zarista e impose un governo bolscevico guidato dai Soviet (consigli rivoluzionari composti da operai, contadini e soldati). L’Occidente, Svizzera compresa, cominciò a tremare, temendo che la furia rivoluzionaria travalicasse i confini russi, e cercò di stroncare sul nascere qualsiasi principio di disordine, ribellione o manifestazione non autorizzata. Per evitare infiltrazioni bolsceviche molti Stati e anche la Svizzera introdussero severi controlli alle frontiere, una misura che penalizzò anche l’immigrazione dall'Italia.

Inizio Novecento in fermento

Le rivendicazioni del 1905 avviarono la rivoluzione russa del 1917.

Per comprendere il difficile momento storico, nonostante la belle époque che si stava vivendo in Europa, bisogna ricordare che all'inizio del Novecento non solo la Russia era in fermento (contro il regime zarista, la servitù della gleba, l’oppressione degli operai nelle fabbriche, le prevaricazioni dei nobili), ma anche in altri Paesi, Svizzera compresa, erano diffusi malcontento e violenze (nelle campagne come nei centri urbani, nei rapporti di lavoro e nella società) e la richiesta di riforme.

La Svizzera non faceva eccezione, anche se i contrasti raramente sfociavano in scontri e tumulti. La costituzione liberale, la cura dei buoni rapporti di vicinato con gli Stati confinanti e una politica industriale e commerciale forte, la rendevano un Paese piuttosto tranquillo, quasi un’isola di pace in un mare in tempesta. Una delle poche preoccupazioni delle autorità federali e cantonali era la dipendenza, in alcuni settori, dalla numerosa popolazione straniera (specialmente tedesca e italiana) che sembrava creare un pericolo di Überfremdung, di «inforestierimento» (cfr. articolo del 19 febbraio 2025) non solo demografico ma anche economico e culturale.

Poiché la convivenza non era senza problemi, le autorità federali e cantonali divennero sempre più attente agli ingressi (ma senza poterli impedire o limitare a causa dei numerosi accordi bilaterali con molti Stati europei) e soprattutto ai fenomeni che avrebbero potuto provocare disordini, subbugli, scioperi. Erano osservati speciali soprattutto i rifugiati provenienti da Paesi in cui erano in atto rivoluzioni e forti repressioni perché spesso trovavano facile accoglienza nei partiti di sinistra. Ciò nonostante, si sa, poterono entrare ed essere (bene) accolti in Svizzera, rifugiati politici come Lenin, Trotskij, Angelica Balabanoff e altri. Riuscirono persino ad organizzare conferenze internazionali (Zimmerwald, Kiental, ecc.) e a pubblicare materiale di propaganda proibito.

Conseguenze per l’immigrazione dall'Italia

Nel timore che a causa della guerra e approfittando della politica liberale della Confederazione entrassero in Svizzera, oltre agli immigrati per motivi di lavoro, disertori, anarchici, bolscevichi, attivisti politici, sovversivi e persino delinquenti comuni provenienti da tutta l’Europa dopo il crollo degli imperi russo, austro-ungarico e tedesco, le autorità federali decisero di chiudere (quasi) ermeticamente le frontiere. Finita la guerra avrebbero dovuto essere riaperte, ma la Svizzera non le riaprì ufficialmente per lo stesso motivo, ma soprattutto per poter giustificare misure di controllo sulla popolazione straniera che stava per adottare.

Nel 1917, infatti, la Confederazione istituì l’Ufficio centrale di polizia degli stranieri, più noto come Polizia degli stranieri (1909-1998), col compito di esercitare un sistematico controllo (anche con schedature!) degli stranieri, ufficialmente per lottare contro l'inforestierimento, in realtà per il controllo politico e amministrativo della popolazione straniera. Il suo atteggiamento nei confronti degli immigrati per motivi di lavoro divenne sempre più restrittivo e da allora si cercò di limitare sistematicamente per via legislativa e amministrativa la libertà d’insediamento degli stranieri e la mobilità lavorativa.

Da allora cominciò a diffondersi in tutti gli strati della popolazione svizzera anche la paura della «peste rossa», ossia un anticomunismo che indurrà la polizia federale degli stranieri a seguire con particolare attenzione le principali attività della sinistra anarchica, comunista e socialista. A numerosi italiani costerà nei decenni successivi l’espulsione.

L’effetto di tutto ciò sulla popolazione italiana residente in Svizzera fu notevole: dalle oltre 200 mila unità del 1910 si toccherà nel 1941 il minimo storico di nemmeno 100 mila italiani residenti.

Giovanni Longu
Berna 19.03.2025

 

Contro l’inforestierimento e il pericolo “rosso”, un manifesto del 1919 proclamava: «Giù le grinfie! La Svizzera agli svizzeri».

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