La migrazione è da decenni uno dei temi principali del dibattito politico, non solo in Svizzera, ma in tutti i Paesi industrializzati. I toni variano secondo le circostanze, ma soprattutto in funzione della congiuntura economica. Spesso basta qualche avvisaglia di crisi, un calo produttivo in un settore economico importante o l’accentuarsi di tensioni internazionali per inquietare l’opinione pubblica e usare gli immigrati come capri espiatori. Non è sempre stata questa l’origine della dinamica della xenofobia. La storia travagliata dell’immigrazione italiana in Svizzera sta a dimostrarlo. Si era nel 1900, dunque 125 anni fa, e l’economia svizzera andava a gonfie vele, il tenore di vita migliorava in tutti i ceti sociali, le prospettive erano rosee (era la belle époque). Eppure, proprio quell'anno fu introdotto nel discorso politico un neologismo nefasto: «inforestierimento» (Überfremdung), che ha turbato per decenni i rapporti tra italiani e svizzeri.
Lavoratori sì, poveri no
Il «Trattato di domicilio e consolare» tra la Svizzera e l’Italia del 1868 aveva sancito una sorta di libera circolazione dei propri cittadini in entrambi i Paesi, ovviamente nel rispetto delle leggi e della prassi vigenti, ma non indusse subito un flusso consistente di persone nell'una o nell'altra direzione. Esso fu invece avviato pochi anni dopo per la costruzione della ferrovia del Gottardo e altri impieghi, e non si interromperà più fino allo scoppio della prima guerra mondiale. La presunta facilità di trovare un lavoro l’attrattiva di un buon salario incentivarono gli arrivi dall'Italia.
Non tutti gli arrivati, però,
trovavano subito lavoro e denaro e per loro la permanenza in Svizzera diventava
molto problematica. Di solito non avevano altra alternativa che ritornarsene in
Italia o, se rimasti completamente privi di mezzi anche per rimpatriare,
affidarsi all'assistenza pubblica comunale. Questa era allora l’unica forma
di welfare pubblico, perché la
Confederazione non riconosceva né il diritto al lavoro né il diritto a
un’indennità di disoccupazione o ad altre forme di assistenza. Quando però il numero degli assistiti diventava
ingestibile e le casse erano vuote, i Comuni si vedevano costretti a non
accettare più nessuno. Per gli esclusi - e molti erano italiani - la vita
diventava drammatica.
Soprattutto nelle grandi città della Svizzera tedesca dove questa situazione si verificava più spesso, i responsabili dell’assistenza all'inizio del secolo cominciarono ad essere seriamente preoccupati e ad interrogarsi sul senso e sulla pericolosità di una massa di stranieri in una società che cresceva anche grazie a loro. Fu il responsabile dell’assistenza sociale (Armensekretär) di Zurigo che in uno scritto coniò il neologismo Überfremdung (inforestierimento) per inquadrare il problema.
Neologismo nefasto!
Quel neologismo, nato a Zurigo, nella Svizzera tedesca (dove la percentuale di stranieri era molto alta) dilagherà più tardi in tutta la Svizzera. E' giusto però osservare che in quella regione gli italiani allora erano ancora pochi, un'esigua minoranza rispetto soprattutto ai tedeschi, ed è quindi probabile che almeno inizialmente il termine «Überfremdung» riguardasse soprattutto questi e non gli italiani, sebbene in seguito, nell'opinione pubblica e nei dibattiti politici, ci si riferisse sempre di più soprattutto agli italiani, probabilmente perché più «diversi», meno integrati e integrabili nella società, anche se ancora per decenni molto utili, in certe attività economiche addirittura indispensabili e insostituibili.
L’idea che soggiaceva all'analisi dell'assistente sociale di Zurigo e dei sostenitori della Überfremdung era che il sistema
economico non poteva garantire lavoro, salari e benessere a tutti perché gli
stranieri erano troppi rispetto agli impieghi disponibili. Inizialmente nei
dibattiti pubblici (tra intellettuali, politici e amministratori) si parlava
perciò della «questione degli stranieri» (die Fremdfrage, die Ausländerfrage)
in generale, senza specificare a quali nazionalità appartenevano e senza
proporre soluzioni. Infatti sarebbe stato difficile considerare alla stessa
stregua tedeschi (la collettività di gran lunga più numerosa e più integrata),
italiani, austriaci e altri perché non tutte le nazionalità erano coinvolte
nella stessa misura.
Via gli indigenti!
Il dibattito rischiava però di essere inconcludente perché
nel frattempo i lavoratori italiani erano diventati indispensabili non meno dei
tedeschi, dei francesi e degli austriaci, anzi in certe attività (per esempio
nella realizzazione delle grandi gallerie ferroviarie) non se ne poteva più
fare a meno. Si deve poi aggiungere che sarebbe stato impossibile
(giuridicamente) limitare l’ingresso in Svizzera agli italiani perché il
Trattato del 1868 ne garantiva il libero accesso. Non mancarono tuttavia i
disappunti nei confronti della Confederazione, accusata da qualche politico di fare troppi accordi con alcuni Paesi
stranieri, concedendo a tutti la libertà di commercio, d’industria e di
domicilio… degli svizzeri, e di negare ai residenti (anche agli svizzeri)
il diritto al lavoro e ai sussidi di disoccupazione.
Per gli
stranieri indigenti, tuttavia, una soluzione fu trovata, perché nel 1909 il
Consiglio federale si dichiarò disponibile ad assumersi le spese dei rimpatri! L'importante era che non gravassero sul bilancio pubblico dell'assistenza.
Per tutti,
stranieri e italiani, la soluzione (quasi) definitiva venne invece trovata con
lo scoppio della prima guerra mondiale, perché oltre alla chiusura delle
frontiere provocò anche la fine della libertà di domicilio. Il dibattito sulla
«questione degli stranieri» e sulla «questione degli italiani» lascerà comunque
a lungo tracce indelebili e dolorose nei rapporti tra stranieri e svizzeri e
tra italiani e svizzeri, compromettendo in molti di essi la realizzazione di
molti sogni e la tranquillità della vita per sé e per intere famiglie.
Giovanni
Longu
Berna 19.02.2025
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