25 gennaio 2023

Immigrazione italiana 1946-2000: 29. Considerazioni finali: 7. «Italiani all'estero»? (prima parte)

Qua e là si continua a parlare di emigrati o immigrati per indicare gli italiani, uomini e donne, che risiedono all'estero, anche se molti, come si vedrà, non sono mai «emigrati» nel senso tradizionale del termine, ossia espatriati per motivi di lavoro o, come si dice spesso oggi, «per motivi economici». La dizione più frequente è tuttavia da qualche decennio un’altra, certamente più corretta, quella di «italiani all'estero», ma anche questa espressione è discutibile. Poiché al momento non ne esiste un’altra più precisa, la seconda è senz'altro preferibile alla prima, ma merita qualche osservazione. Il chiarimento mi sembra opportuno, al termine di questa lunga trattazione sull'immigrazione italiana in Svizzera, perché la maggioranza della popolazione «italiana» presente oggi in Svizzera non è più costituita da «immigrati» in senso proprio. Le considerazioni che seguono riguardano principalmente la situazione svizzera, ma, come emergerà chiaramente, possono avere una valenza molto più ampia.

Un po’ di storia, per iniziare

Berna 29.11.2022: il Presidente Mattarella e l’ambasciatore Mignano (a s.)
Si diceva che oggi si preferisce parlare di «italiani all'estero» piuttosto che di «emigrati italiani», non perché l’emigrazione dall'Italia sia anacronistica (sono infatti ancora decine di migliaia gli italiani che ogni anno emigrano), ma perché non tutti gli italiani che si trovano all'estero sono realmente «espatriati» per motivi di lavoro. Infatti molti sono partiti per ricongiungersi a parenti emigrati e altri, forse la maggioranza, non sono mai «partiti» perché vi sono nati e non hanno mai messo piede in Italia.

Se si prescinde dal motivo o dai motivi per cui milioni di italiani risiedono all'estero e si considera unicamente la condizione che li accomuna tutti, quella di essere in possesso della cittadinanza italiana (passaporto), è giusto che si parli di «italiani all'estero» e non di «emigrati italiani». Ma basta questo cambio terminologico per caratterizzare l’attuale situazione? Che significa «italiani all'estero»?

Prima di rispondere a queste domande ritengo utile ricordare brevemente che il problema di come chiamare gli italiani partiti all'estero per motivi di lavoro si pose già nei primi decenni successivi all'unità d’Italia (1861), ossia da quando esiste il fenomeno migratorio italiano. Furono i nazionalisti dell’epoca a introdurre l’espressione «italiani all'estero» e piacque non solo ai liberali, ma anche, più tardi, ai fascisti di Mussolini, sebbene abbiano tentato invano di sostituirla con quella di «italiani nel mondo». A lungo si è continuato a parlare di «emigranti» ed «emigrati», ma oggi, non c’è dubbio, si preferisce «italiani all'estero».

Va pure ricordato che sebbene inizialmente emigrassero solo o prevalentemente adulti in età lavorativa, divenne presto indispensabile estendere l’espressione «italiani all'estero» anche ad altri parenti (soprattutto moglie e figli) degli emigrati che spesso li raggiungevano successivamente per ricomporre il nucleo familiare nel Paese di immigrazione.

Incertezze terminologiche

Poiché nell'Ottocento l’emigrazione era un fenomeno di massa, lo Stato unitario intervenne quasi subito per regolarlo (leggi sull'emigrazione e organismi di gestione) e quantificarlo (statistiche). Non dev'essere stata impresa facile sia perché qualsiasi normativa rischiava di intaccare una delle libertà fondamentali dei cittadini (la libertà di movimento e di residenza) e sia per la difficoltà di caratterizzare l’espatrio (soprattutto motivazioni e durata). Non tutto, però, poté essere regolamentato e chiarito, per cui risulta ancora oggi difficile ricostruire la storia completa dell’emigrazione italiana.

Per esempio, nelle statistiche italiane le persone interessate al fenomeno migratorio sono chiamate a seconda delle epoche espatriati, emigranti, emigrati, migranti, residenti all'estero, italiani all'estero, italiani nel mondo, ecc. magari considerando i vari termini come sinonimi, mentre non lo sono. Per evitare confusioni, alcune statistiche non prendevano in considerazione le persone ma i movimenti delle persone (espatri, uscite, rimpatri, rientri, ecc.), senza magari rendersi conto che oltre agli espatri «regolari» ce n’erano anche molti «clandestini» e che espatri e rimpatri potevano avvenire per una stessa persona più volte nell'arco di un anno. Spesso veniva trascurata la caratteristica della «durata» degli spostamenti (temporanei o definitivi), sebbene fosse di tutta evidenza la sua importanza.

La «durata» divenne importante soprattutto con l’intensificarsi dell’emigrazione verso i Paesi europei perché ci furono periodi in cui prevaleva l’emigrazione temporanea (soprattutto stagionale) e altri in cui era l’emigrazione pressoché definitiva (o almeno fino all'età della pensione) a prevalere, con inevitabili implicazioni. Si pensi, per esempio, alla perdita della cittadinanza delle donne italiane quando sposavano cittadini svizzeri, oppure al problema del servizio militare dei figli degli emigrati, quando tanto la Svizzera che l’Italia pretendevano che i naturalizzati prestassero il servizio militare nel Paese d’origine e non nel Paese dove avevano acquisito la cittadinanza. Se il problema del servizio militare poté essere (facilmente) risolto con accordi bilaterali, non altrettanto si può dire di altri problemi concernenti la seconda e terza generazione o i doppi cittadini.

Italiani per passaporto

Optando per l’espressione «italiani all’estero», applicata sia agli italiani emigrati che ai loro discendenti diretti (seconda generazione) e indiretti (terza generazione) e persino ai naturalizzati (cittadini italo-svizzeri), di fatto l’Italia considera la cittadinanza (passaporto) come l’unica caratteristica determinante comune degli italiani residenti in Svizzera. Sia chiaro, questa caratteristica è fondamentale per ogni Stato nell'ottica del diritto nazionale e internazionale, ma nella vita quotidiana, nella carriera professionale, nell'ambito del diritto privato e nelle relazioni sociali che implicazioni comporta? Non andrebbe fatta per lo meno qualche distinzione, per esempio tra emigrati e non emigrati, tra cittadini con la sola nazionalità italiana e doppi cittadini italo-svizzeri? Cosa dice o può dire l’AIRE (Anagrafe degli italiani residenti all'estero) sull'italianità dei cittadini di seconda e terza generazione e dei doppi cittadini?

Questa scelta, se fosse indirizzata unicamente a fini statistici, avrebbe sicuramente un senso perché per ogni Stato è importante sapere non solo quanti sono i propri cittadini residenti all’estero, ma anche i loro movimenti verso l’estero o dall’estero in modo da offrire elementi significativi per decidere adeguate politiche sociali, economiche, formative, migratorie, soprattutto in un Paese come l’Italia dove ci sono Regioni a forte tasso emigratorio e Regioni con evidenti carenze di personale.

Il fatto è che l’enfatizzazione della massa di «italiani all'estero» talvolta sembra fine a sé stessa. Sono rimasto un po’ stupito, quando nel novembre scorso, in occasione della visita di Stato in Svizzera del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, l’ambasciatore Silvio Mignano, rivolgendogli il saluto di benvenuto davanti a una rappresentanza della collettività italiana, lo ringraziò per aver scelto «la nostra comunità come primo gesto appena arrivato in Svizzera. 670 mila è il numero straordinario di italiani che vivono nei Cantoni e nelle Città della Svizzera. Essi costituiscono la terza comunità italiana all'estero e la più grande comunità straniera in Svizzera».

Interrogativi aperti

Nell’ascoltare queste parole mi sono sorti alcuni interrogativi, che mi spingono a ricercare il senso profondo della storia dell’immigrazione italiana in Svizzera. So che non è facile rispondere, ma al termine di questa lunga serie di articoli che le ho dedicato non mi sottraggo al compito, che evidenzierò nel prossimo articolo. In questo indico solo alcune delle domande a cui cercherò di rispondere:

Può essere un motivo di vanto, per l’Italia e per il suo ambasciatore, che ci siano in questo piccolo Paese così tanti italiani con un passato migratorio? E poi, queste 670 mila persone si sentono davvero tutte «italiane»? Soprattutto la prima generazione, gli emigrati del dopoguerra venuti spesso con la valigia di cartone, non hanno nulla da rimproverare all'Italia? Per loro è stata più materna o matrigna? E se in occasione della visita in Svizzera il Presidente Mattarella era sincero nel ringraziare gli italiani «per quello che fate, per come rappresentate l’Italia nei vari settori di attività in cui siete impegnati ed anche nella vita quotidiana», qualche rappresentante delle autorità si è mai chiesto se questa buona rappresentanza è dovuta più alle cure e ai servizi delle rappresentanze ufficiali dello Stato italiano o più ai sacrifici, alle rinunce e agli sforzi degli italiani?

Osservando più da vicino la situazione della collettività italiana in Svizzera alcuni interrogativi mi sembrano inevitabili riguardo, per esempio, ai cosiddetti organismi di rappresentanza (parlamentari eletti all'estero, CGIE, Comites) ma soprattutto riguardo alle giovani generazioni di italiani, con una particolare attenzione ai doppi cittadini. (segue)

Giovanni Longu
Berna, 25.1.2023

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