In Italia il dibattito sulla cittadinanza degli stranieri di seconda generazione continua, purtroppo anche con toni ed espressioni esacerbati e incivili. La legittimità di manifestare liberamente le proprie idee è fuori discussione; ma un confronto civile e democratico non dovrebbe oltrepassare mai i limiti che impone il rispetto delle persone. Per un sano principio di realtà, bisognerebbe tuttavia anche evitare di insistere su temi troppo controversi, per di più senza usare l’accortezza di circoscriverli, definirli e spiegarli. Diversamente le interpretazioni possono trasformarsi facilmente in semplici rifiuti con o senza argomentazioni e in contrapposizioni inconciliabili.
Quanta confusione!
Cecile Kyenge, ministra dell'integrazione |
Proprio sulla vaghezza (vera o presunta) della proposta della ministra dell'integrazione Kyenge e sul suo facile fraintendimento (talvolta in malafede?) si fondano, a
mio parere, alcune affermazioni di esponenti della Lega Nord, secondo cui lo
«jus soli» potrebbe diventare «una potente calamita per l’immigrazione di ogni
sorta e indurre molti a credere di poter venire qui da noi per avere una
cittadinanza facile». Oppure: «La vera integrazione degli stranieri residenti
nel nostro Paese non si ottiene attribuendo la cittadinanza a tutti, svilendola
e svendendola, ma a conclusione di un percorso che impone la regolarizzazione,
l’accettazione delle nostre regole e leggi, la conoscenza della nostra realtà
civile, sociale e culturale, a partire dalla lingua. Va poi tenuto conto della
capacità del nostro territorio di accogliere nuovi arrivi».
Senza dire che alcuni esponenti leghisti ne approfittano per
introdurre nella discussione elementi che dovrebbero starne fuori, come i
motivi economici di cui parla il governatore del Piemonte Roberto Cota (secondo
cui «lo jus soli è sbagliato anche per motivi economici, visto che la crisi è
molto forte e dobbiamo tutelare la nostra gente») o motivi di ordine pubblico
(troppi stranieri).
Priorità all’informazione
Già da queste citazioni tratte da «La Padania» (organo della Lega Nord) si capisce
subito quanta confusione regna attorno al tema che si vorrebbe discutere senza conoscerne
nemmeno i termini essenziali. Ma anche nell'altro campo favorevole allo «jus soli» la chiarezza difetta,
come quando si parla (Piero Fassino, sindaco di Torino) di «cittadinanza
civica» (che significa?). Tanto varrebbe suggerire alla ministra
dell’integrazione Kyenge di non insistere tanto sulla necessità d’introdurre in
Italia lo «jus soli» per garantire la cittadinanza italiana agli stranieri di
seconda generazione, quanto piuttosto sulla necessità di porre mano decisamente
a una vera politica d’informazione e d’integrazione.
Andrebbe anzitutto precisato che il tema della cittadinanza
in discussione non riguarda genericamente gli immigrati stranieri, ma i loro
figli nati in Italia. Si deve dire anche chiaramente che la cittadinanza per
uno straniero entra in linea di conto solo in collegamento con l’integrazione e
non a prescindere da questa. Non avrebbe senso oggi in Italia parlare di
cittadinanza concessa agli stranieri senza un minimo di garanzie e anche senza
che essa venga esplicitamente richiesta dagli interessati o dai loro
genitori. La nascita in Italia potrebbe essere «una» condizione non «la»
condizione per l’ottenimento facilitato della cittadinanza.
La ministra Kyenge mi potrebbe obiettare che non intende
legare automaticamente la cittadinanza alla nascita in Italia, ma subordinarla
anche ad altre condizioni, quali l’integrazione, il rispetto delle leggi, la
conoscenza della lingua, ecc. Ma allora, obietterei a mia volta, non sarebbe
molto più semplice eliminare dalla discussione l’espressione «jus soli» (che
per altro non è univoca, visti i diversi usi che se ne fanno anche solo nei
Paesi europei) e concentrarsi maggiormente sulle condizioni richieste per facilitare
l’acquisizione della cittadinanza agli stranieri di seconda generazione,
escludendo ogni automatismo?
Nella sostanza non cambierebbe nulla, perché lo scopo resta
quello di riconoscere «cittadini italiani» gli stranieri nati in Italia da
persone straniere immigrate, residenti stabilmente (da un certo numero di anni)
e ben integrate nella società italiana. I vantaggi di un cambio di prospettiva
e di discorso sarebbero invece numerosi e ne beneficerebbe il clima sociale.
Politica d’integrazione efficace
In questo approccio è tuttavia anche evidente che l’intervento
principale dello Stato richiesto in questa prospettiva non è tanto la modifica
della legge sulla cittadinanza, ma una legge e strumenti giuridici vincolanti
per sviluppare in tutta Italia e non solo in alcune regioni una vera politica
d’integrazione degli stranieri.
Non so se la ministra Kyenge dia per scontata l’integrazione
degli stranieri di seconda generazione, come sostengono i suoi oppositori, ma
ritengo quanto meno giudizioso non dare nulla per scontato su questo terreno.
Ho già avuto occasione di ricordare in questa rubrica che Stati di lunga
esperienza di politica immigratoria come la Svizzera, da tempo si sono dotati
di leggi, ordinanze, linee guida e strumenti vari per realizzare una politica
capillare d’integrazione degli stranieri. E poiché la riuscita di una politica
si misura solo dai risultati che produce, questo Paese con una percentuale
molto alta di stranieri si è dotato anche di un sistema di monitoraggio di 67
«indicatori dell’integrazione della popolazione con passato migratorio».
A questo punto mi verrebbe da chiedere alla ministra
dell’integrazione: Signora ministra Kyenge, perché non (ri)comincia la sua
crociata dai dati concreti e verificati sugli stranieri e da una politica su
scala nazionale che favorisca il riconoscimento pieno della dignità di ogni
immigrato, la lotta a ogni forma di discriminazione sociale ed economica, la
piena integrazione soprattutto dei giovani della seconda generazione? Vedrà che
anche la conquista della cittadinanza facilitata agli stranieri integrati sarà
una logica conseguenza.
Giovanni Longu
Berna, 26.06.2013
Berna, 26.06.2013
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