Sarà capitato a tutti sentire o leggere
giudizi, per lo più negativi, generici e perentori, su un popolo o su una
nazione. Non sono quasi mai giustificati perché non tengono conto della
complessità e del contesto. Molto spesso nascondono gravi lacune conoscitive e
soprattutto l’incomprensione di quello che alcuni filosofi hanno chiamato «lo
spirito di un popolo», fatto di storia, ideali ed essere.
Qualche anno fa, in un articolo intitolato «La
Svizzera, questa sconosciuta», la giornalista ticinese Luciana Caglio sosteneva
che «si può visitare un paese, risiedervi per motivi di lavoro o di
convenienza, persino essere ufficialmente cittadini, senza però conoscerlo
veramente». Ne sono convinto anch’io, preferendo tuttavia all’espressione «conoscere
veramente» il verbo «capire».
Avvertenze preliminari
Con questo articolo inizio una serie di articoli
sulla Svizzera, con la pretesa non di svelare l’essenza di questo Paese e del
suo Popolo ma di offrire ai lettori alcuni elementi, soprattutto storici e
interpretativi, che ritengo utili per tentare almeno di capirne i tratti
essenziali e le motivazioni profonde.
Saranno prese in considerazione alcune
caratteristiche tipiche della Svizzera moderna, se ne seguirà l’evoluzione fino
alle espressioni attuali. Sarà interessante osservare, per esempio,
l’evoluzione di alcuni concetti emblematici come «libertà», «neutralità»,
«identità nazionale», «coesione nazionale», «democrazia diretta»,
«solidarietà», «integrazione», «sviluppo», ecc.
Di ognuno di questi concetti si cercherà di cogliere
il «significato» più comunemente inteso dalla maggioranza del popolo svizzero, oggi
e nel passato, con alcune avvertenze preliminari: la prima: «capire» è qualcosa
di più del semplice «conoscere»; la seconda: i concetti, per quanto
apparentemente sempre identici nella sostanza, in realtà assumono connotazioni
diverse nelle varie epoche; pertanto occorre stare molto attenti a «giudicare»
il passato in base a criteri e valori di oggi; la terza: diffidare dalle
«generalizzazioni».
Prima avvertenza: capire è più che conoscere
Conoscere e capire sono due verbi usati spesso
come sinonimi perché entrambi fanno riferimento all’intelligenza. In questi
articoli assumono invece due significati diversi, che emergeranno di seguito.
La differenza principale è anzitutto temporale: prima si conoscono e si
comprendono (nel significato originale di «prendere
e mettere insieme») in un sistema coerente i vari elementi e solo dopo si
forma nella mente il «concetto» (dal latino «cum capere»), ossia il
risultato del capire. In questo processo la conoscenza è dunque condizione
previa e indispensabile per capire, secondo il detto: «si può capire solo ciò
che si conosce».
Tra conoscere e capire, sempre nel contesto di
questi articoli, c’è anche una differenza qualitativa: mentre la conoscenza è
di per sé illimitata, per capire è spesso sufficiente una conoscenza limitata,
purché significativa. Talvolta per capire bastano pochi segnali. Per capire che
si tratta di un incendio non occorre sapere come è stato provocato, chi l’ha
provocato, che cosa sta andando in fumo, ma basta vedere anche di lontano il
fumo e le fiamme.
Questo modello di conoscenza non è sempre
facilmente applicabile, soprattutto quando l’oggetto del «capire» è una
Nazione, uno Stato, un Popolo. Anche una conoscenza approfondita della storia,
della geografia, delle istituzioni di un Paese non è di per sé sufficiente per «capire»
lo spirito del suo Popolo. Gli eventi si possono studiare e conoscere nella
loro origine e nelle loro conseguenze perché sono «determinati», lo spirito
invece è per sua natura indeterminato, libero, vivo, mutevole.
Trattandosi della Svizzera, un Paese
notoriamente complesso sotto molti punti di vista, l’intento potrebbe apparire
azzardato, ma non è impossibile. La storia della Confederazione moderna
presenta infatti tratti caratteristici piuttosto costanti, anche se continuano
a risentire dei condizionamenti dell’evoluzione interna e internazionale.
Seguire questa evoluzione faciliterà sicuramente il compito, anche se resta
difficile.
Seconda avvertenza: i concetti assumono nel
tempo connotazioni diverse
Osservando la storia svizzera si nota
facilmente come una serie di valori ritenuti generalmente «fondamentali» cambino
connotazioni col passare del tempo e il mutare del contesto nazionale e
internazionale. E’ ovvio, perché di generazione in generazione anche il corpo
sociale muta, si trasforma, evolve, si adatta alle mutate condizioni e
reinterpreta di volta in volta anche i valori ritenuti fondamentali. Si pensi nella
storia della Svizzera ai concetti di «libertà», di «patria», di «identità
nazionale» e, in generale, a tutti i concetti evocati sopra.
Terza avvertenza: diffidare delle generalizzazioni
La tentazione di generalizzare sulla base di
pochi casi disponibili è grande. Molti, anche esperti ricercatori, la praticano
con una certa disinvoltura non necessariamente perché vogliono evitare la
fatica di una ricerca più estesa e di un’analisi approfondita, ma magari perché
i casi esaminati appaiono sufficienti, anche se pochi.
In realtà, soprattutto in certi campi delle
scienze umane, la generalizzazione è un metodo di difficile utilizzazione. Per
applicarlo correttamente bisognerebbe disporre di un numero di casi
statisticamente significativi, di cui invece spesso non si dispone oppure di
una serie di casi talmente convergenti nel loro significato da rendere inutile l’ulteriore
ricerca. Occorre pertanto molta prudenza di fronte alla tentazione di
generalizzare.
A titolo di esempio
Per rendere meglio l’idea di quanto detto e dello
scopo di questi articoli, commenterò brevemente a titolo di esempio alcune
espressioni contenute in un lungo articolo sulla disgrazia di Mattmark del
1965, pubblicato sul settimanale ticinese Il
Caffè del 30 agosto 2015 a firma di tre ricercatori (Toni Ricciardi, Sandro Cattacin e Rémi Baudouï) che hanno a lungo indagato
sul quella catastrofe.
Nell’articolo, che si riferisce all’epoca dei
fatti, si legge fra l’altro (le sottolineature sono mie): «La Svizzera terra di ingiustizie? In un certo senso si può affermare
oggi che la politica nei confronti della migrazione, prevalentemente italiana
negli anni del secondo dopoguerra, introdusse un regime democratico di
facciata, umano e giusto per gli svizzeri, ma anche una specie di Apartheid.
Stagionali senza diritti di residenza, obbligati a nascondere la famiglia,
sicurezza sociale parziale […], nessuna cittadinanza politica, anzi
interdizione di organizzarsi politicamente in quanto stranieri, privilegio
degli svizzeri sul mercato del lavoro. Queste erano solo le discriminazioni
legali. A ciò si aggiunse un regime di sfruttamento fino all’esaurimento
dei lavoratori e delle lavoratrici nell’industria e nelle costruzioni […]. In
quel periodo, le italiane e gli italiani in Svizzera non furono solo discriminati
legalmente e sfruttati nel mercato del lavoro, ma furono anche vittime
della xenofobia quotidiana. Ad esempio, venne loro interdetta l’entrata
in certi ristoranti quasi a ricordare il tristemente famoso “Juden werden
nicht bedient” (gli ebrei non vengono serviti). Innumerevoli sono i racconti
del disprezzo vissuto dagli italiani in Svizzera e Mattmark fu
l’ennesimo schiaffo […]».
Questa citazione, ridotta per motivi di
spazio, illustra bene ciò che un buono storico non dovrebbe fare, ossia
utilizzare «concetti» attuali per giudicare una realtà del passato, in cui
verosimilmente vigevano altri concetti o quantomeno avevano connotazioni
diverse, e generalizzare casi poco omogenei o comunque non univoci, oltretutto
senza tener conto del contesto.
A parte i richiami dell’Apartheid o peggio degli
ebrei discriminati nei locali pubblici, che trovo del tutto fuori luogo e
fuorvianti in riferimento agli immigrati italiani, ritengo infondate e perciò
arbitrarie molte delle affermazioni riferite agli stagionali. Per sostenere che
lo statuto dello stagionale era discriminatorio bisognerebbe infatti provare
che violasse qualche legge svizzera o qualche accordo internazionale. Questo
però non risulta, visto che era sicuramente conforme al diritto svizzero e anche
al diritto internazionale. Del resto gli stessi stagionali, firmando liberamente
il contratto di lavoro, venivano a conoscenza e accettavano tutte le
limitazioni ch’esso comportava. Nessun immigrato era obbligato a
sottoscriverlo, a prescindere dal fatto che le autorità diplomatiche e
consolari, specialmente nel caso degli italiani, vigilavano sulla conformità
del contratto alle leggi e agli accordi bilaterali sottoscritti. Al riguardo,
le eccezioni che pure vi sono state, non fanno che confermare la regola.
Quanto poi alle affermazioni sulla presunta
privazione di alcuni diritti, basterebbe rileggersi le leggi e le ordinanze
dell’epoca per rendersi conto quanto siano infondate. Lo statuto dello
stagionale non dava infatti diritto alla residenza (se s’intende con questo
termine il domicilio), né al ricongiungimento familiare, né
alla cittadinanza
politica (che significa?), ecc. Perché dunque gli autori dell’articolo parlano
di «discriminazioni legali» al riguardo? Che dire poi quando essi affermano che
gli stagionali erano «obbligati a nascondere la famiglia», senza dire chi li
obbligava e senza ricordare che in punto di diritto nessuno straniero poteva
risiedere in Svizzera senza autorizzazione? Questo lo sapevano anche gli
stagionali. Che il fenomeno dei «bambini clandestini» sia stato molto triste
per chi l’ha subito è innegabile, addossarne la responsabilità a una sola
parte, in termini di discriminazione, mi pare demagogico.
Demagogico è anche parlare di «sfruttamento fino all’esaurimento»,
senza ricordare che molto spesso erano gli stessi lavoratori immigrati che si
autosfruttavano preferendo il lavoro a cottimo, chiedendo di fare gli
straordinari e persino praticando il doppio lavoro. La verità, quando si vuol
dirla, la si dovrebbe dire tutta.
Tali esempi mi servono, in questo contesto,
per dare l’idea di ciò che non intendo fare nei prossimi articoli, nella
convinzione che per il rispetto che si deve al lettore sia preferibile fornire
elementi utili per giudicare piuttosto che emettere giudizi azzardati e
contestabili. Meglio attenersi ai fatti. Oltretutto un po’ di modestia non
guasta mai! (Segue)
Giovanni Longu
Berna, 30.09.2015
Berna, 30.09.2015
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