E’ noto che l’INCA-CGIL sede svizzera chiude le attività per fallimento. E’ sempre triste leggere simili notizie quando riguardano istituzioni nate per la difesa dei lavoratori, ma lo è ancor di più quando la notizia del fallimento si aggiunge a quella del malaffare e della truffa accertata proprio nei confronti di lavoratori che cercavano assistenza.
Evidentemente la sede
svizzera dell’INCA (Istituto Nazionale Confederale di Assistenza) non era nata
sotto una buona stella. In quanto emanazione del sindacato italiano CGIL, che
la Polizia federale svizzera riteneva «comunista e molto potente», il patronato
era considerato anch'esso comunista, anzi una sorta di centrale di propaganda. Allora,
il semplice sospetto che qualcuno e a maggior ragione un’associazione o un
gruppo organizzato fosse «comunista» o di estrema sinistra era sufficiente per
allertare la Polizia federale e avviare indagini.
L’INCA, consapevole che
sarebbe andato incontro a un netto rifiuto se avesse chiesto di aprire a Zurigo
un proprio ufficio con una struttura propria, nell'immediato dopoguerra agì attraverso
un cartello sindacale locale che si occupava anche dei lavoratori italiani. Bastò
tuttavia che un certo Regolini, delegato dell’Unione Sindacale Svizzera (USS), fosse
intervenuto nel 1948 a
un congresso organizzato a Milano dall’INCA-CGIL per insospettire la Legazione (ambasciata)
di Svizzera in Italia. L’Ufficio federale delle arti e mestieri e del lavoro
(UFIAML) chiese informazioni all’USS. Questa rispose affermando che il delegato
svizzero aveva in effetti rappresentato la posizione dei sindacati svizzeri che
consideravano la difesa dei lavoratori italiani nei confronti del padronato
come «uno dei loro compiti principali», anche nell'interesse dei lavoratori
svizzeri. Se infatti i sindacati, con il sostegno delle autorità, erano
riusciti ad ottenere che i lavoratori stranieri dovessero essere impiegati
«alle stesse condizioni salariali e di lavoro degli svizzeri», questo evitava
che i lavoratori stranieri potessero venir usati, come era avvenuto spesso in
passato, per comprimere i salari anche degli svizzeri.
Solo nella seconda metà degli
anni ’50 l’INCA poté aprire un proprio ufficio a Zurigo. Vi riuscì senza troppe
difficoltà perché a dirigerlo venne chiamato un avvocato svizzero, tale
Bernhard Weck, il quale si era cercato come collaboratore un altro svizzero, un
ticinese. Sebbene il Weck fosse noto per le sue «opinioni di estrema sinistra»,
non rischiava l’espulsione dalla Svizzera, come sarebbe stato il caso se si
fosse trattato di un cittadino italiano.
All'ufficio INCA di Zurigo
non riuscì invece, per diversi anni, di ottenere il permesso di far venire
funzionari direttamente dall'Italia né di aprire nuovi uffici in altre città
svizzere. La pregiudiziale anticomunista in quel periodo era molto forte, tanto
che nel 1962 il Ministero pubblico della Confederazione incaricò la polizia zurighese
d’indagare sulle reali attività del patronato. Ne risultò che i responsabili
dell’ufficio «non tentavano d’influenzare politicamente i lavoratori italiani e
si occupavano correttamente della difesa dei loro interessi». Dunque via libera
alle sue attività e ai suoi funzionari? Niente affatto.
Nel gennaio 1963 si tenne a
Berna un incontro riservato fra rappresentanti della Polizia federale, della
Polizia federale degli stranieri, dell’UFIAML e dell’Ufficio federale delle
assicurazioni sociali riguardante «attività dei sindacati italiani in Svizzera»
e in particolare del patronato INCA. Benché non risultasse «alcuna agitazione
comunista tra i lavoratori italiani», tutti i partecipanti concordarono che
«l’attività in Svizzera dell’INCA (come pure quella degli altri due sindacati
italiani) non era auspicabile» e che «la polizia federale dovesse continuare a
sorvegliare gli uffici dei sindacati italiani». Inoltre, il responsabile
dell’UFIAML fu incaricato di invitare «discretamente» le associazioni padronali
a non intrattenere alcun contatto con i sindacati italiani in Svizzera. Che
tempi!
Ciononostante, da allora
l’INCA-CGIL ha operato in Svizzera per cinquant'anni tutelando migliaia di
lavoratori, fino al recente «caso Giacchetta», il funzionario di Zurigo
accusato e condannato per aver truffato numerosi lavoratori italiani. E’ dunque
triste apprendere che il primo ente di patronato italiano insediatosi in
Svizzera nel dopoguerra sia costretto a chiudere definitivamente i battenti per
«fallimento», non solo sotto il peso dei debiti e della condanna dei tribunali,
ma anche della vergogna per il danno arrecato alle decine di famiglie dei
lavoratori truffati. E qui la cattiva stella non c’entra.
Giovanni Longu
Berna, 5.11.2013
Berna, 5.11.2013
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