14 settembre 2020

Statue, storia e compromessi*


La prima metà di quest’anno è stata agitata in molte parti del mondo da distruzioni o imbrattamenti di statue di personaggi «illustri». Si è trattato di episodi clamorosi perché sono state prese di mira statue di
Cristoforo Colombo, presidenti americani come George Washington e Theodore Roosevelt, statisti come Winston Churchill e altri. Ne è seguito un acceso dibattito non solo sui personaggi contestati, ma anche sul significato delle statue, sul genere di narrazione storico-celebrativa che i personaggi raffigurati spesso rappresentano e sull’opportunità che essi continuino a designare parchi e piazze.

Questione complessa 

Boston, statua decapitata di Cristoforo Colombo

Ad avviare l’abbattimento e l’imbrattamento delle statue negli Stati Uniti è stata la barbara uccisione di un afro-americano da parte di poliziotti bianchi. I personaggi raffigurati in quelle statue erano visti come espressione di un passato condannabile, ma attraverso la loro distruzione o deturpazione si voleva colpire e distruggere più che i personaggi il suprematismo bianco e più in generale ogni forma di oppressione e di razzismo. L’ondata contestatrice si è poi diffusa anche in alcuni Paesi ex coloniali d’Europa, con strascichi anche in Italia, in Svizzera e persino in Groenlandia.

Al di là della condanna quasi unanime degli atti di vandalismo indiscriminato, l’opinione pubblica si è divisa sulla rappresentatività di certe statue e sull’opportunità di mantenerle al loro posto o di trasferirle in luoghi più appartati. In effetti, è lecito chiedersi se sia opportuno ostentare ancora in luogo pubblico statue di personaggi controversi per presunti comportamenti oggi insostenibili. Non sarebbe più appropriato, si chiedono in molti, rimuoverle dai parchi e dalle piazze e collocarle nei musei? Inoltre, è possibile scindere i personaggi «incriminati» dalla cultura che secondo i contestatori rappresenterebbero?

Non è sicuramente facile rispondere a queste e a simili domande, trattandosi di questioni molto complesse. Basti pensare che tutte le civiltà antiche hanno cercato di tramandare un’immagine positiva di sé attraverso monumenti dedicati a miti, eroi, geni dell’arte e della conoscenza. Anche gli Stati moderni non rinunciano ai miti di fondazione, agli eroi che li hanno incarnati, ai patrioti e ai «figli illustri», dedicando loro piazze, vie, monumenti e statue a profusione. Sono state fatte scelte sbagliate? E’ possibile rimediare?

Statue, personaggi e contesto

Idealmente, per rispondere a queste e alle precedenti domande bisognerebbe conoscere bene non solo i personaggi «denunciati», ma anche il contesto storico, culturale e sociale delle loro azioni, delle loro intenzioni, dei metodi adottati, dei risultati ottenuti e non da ultimo della percezione che ne ebbero i contemporanei e le comunità che ne hanno chiesto o comunque accettato le statue. Impresa non facile anche per gli storici di professione, perché le statue non rappresentano soltanto personaggi, ma anche la mentalità politica, economica, sociale dell’epoca in cui sono state realizzate.

Del resto, già i personaggi costituiscono una difficoltà in sé perché figure generalmente molto complesse e controverse, sulle quali la ricerca storica non ha ancora pronunciato un giudizio definitivo e persino sui «tiranni» e sui «dittatori» la discussione resta aperta. Anch’essi, infatti, fin da quando erano ancora in vita, hanno avuto sostenitori (pure tra il popolo) e detrattori (per lo più ricchi e potenti) e non è raro che personaggi un tempo ritenuti negativi siano stati in seguito riabilitati. La difficoltà maggiore è data tuttavia dal contesto storico-culturale in cui hanno agito, talvolta molto diverso da quello attuale, e dal rischio di non saperlo valutare obiettivamente.

Forse per queste ragioni, nelle discussioni il parere degli storici (prevalentemente orientati ad «assolvere» dai capi d’accusa più gravi i personaggi «incriminati») non è stato determinante, mentre hanno contato molto le accuse rivolte a quei personaggi dai contestatori, benché li abbiano trattati come fossero contemporanei. Certamente un errore, che non giustificherebbe, tuttavia, una sottovalutazione dell’opinione pubblica o una negazione incondizionata delle loro richieste.

Rispetto delle sensibilità popolari

Nella questione che si sta esaminando, infatti, ciò che conta è l’opinione dei cittadini, ai quali una statua può piacere o dare fastidio per le idee che rappresenterebbe il personaggio raffigurato. Del resto, negli episodi evocati non si è trattato tanto di una vera e propria contestazione dei personaggi raffigurati e nemmeno di una pretesa di riscrivere la storia, ma semplicemente di una manifestazione clamorosa di molte persone che rifiutano idee e comportamenti oggi ritenuti insostenibili come lo schiavismo, il colonialismo, il razzismo, l’oppressione etnica, politica, economica e simili prevaricazioni.

Dal dibattito sull’argomento è anche emerso chiaramente che numerose persone (difficile da quantificare) oggi interpretano diversamente la storia patria e mal sopportano, per esempio, una narrazione trionfalistica dei fatti avvalendosi di personaggi «gloriosi» anche se nella loro vita hanno avuto, approvato o tollerato comportamenti oggi disapprovati da tutte le società democratiche. Sarebbe miope e inopportuno non tenerne conto nella rilettura e riscrittura delle storie nazionali o di singoli personaggi, anche se è sempre difficile fornire una narrazione dei fatti (per non parlare delle idee e delle intenzioni) obiettiva e imparziale, «sine ira et studio» (Tacito), dunque convincente.

Resta il problema della conservazione o della rimozione delle statue per ragioni di opportunità, ma anche al riguardo le opinioni sono contrastanti. Scartata da quasi tutti la soluzione estrema della distruzione, restano due opzioni principali, quella di lasciarle nel posto in cui si trovano e quella di rimuoverle per collocarle in un museo come testimonianze di personaggi rappresentativi di un’epoca e di una cultura storica ben definite. Perché la scelta sia il più possibile condivisa si dovrebbe avviare un confronto civile tra i sostenitori delle varie opzioni, tenendo conto che in situazioni simili il compromesso può essere una soluzione ragionevole.

Dialogo indispensabile

Per un confronto serio finalizzato al successo il punto di partenza potrebbe essere un sondaggio sui sostenitori e i contrari dell’una o dell’altra opzione. Da solo non basterebbe, ma stabilirebbe un minimo di proporzioni nell’opinione pubblica e aiuterebbe a desistere da posizioni radicali di tipo manicheo e aprirsi al compromesso, quasi sempre possibile.

L’opinione pubblica, anche quando fosse maggioritaria, non va necessariamente sempre seguita, ma va ascoltata. Ciò non significa che si debba accettare qualunque compromesso, perché anche nelle nostre società ci sono valori irrinunciabili. Significa che il dialogo va proseguito fino a quando si trova un compromesso soddisfacente per entrambe le parti. Persino nei riguardi della Croce il dialogo è spesso proficuo.

La Croce di Auschwitz

La Croce di Auschwitz

Forse nessuno ricorda più la clamorosa controversia degli anni 1986-1997 tra l’episcopato polacco e alcune potenti organizzazioni ebraiche, ma in questo contesto merita senz’altro un rapido cenno. Quando nel 1979 il papa polacco Giovanni Paolo II, da poco eletto, fece visita al campo di sterminio di Auschwitz, nella spianata adiacente al campo principale dove fu celebrata la messa era stata eretta una grande croce (8,6 metri), poi rimossa dopo le cerimonie. Sullo stesso luogo, qualche anno dopo, le suore carmelitane aprirono un convento e ripiantarono la croce, ormai nota come «croce del Papa».

La reazione degli ebrei di tutto il mondo fu immediata, ma i cattolici oltranzisti polacchi, sostenuti da politici (compreso Lech Walesa) ed ecclesiastici (anche il cardinale Jozef Glemp) si opposero alle richieste ebraiche di chiudere il convento e rimuovere la croce. Nella vicenda intervennero molte personalità di tutto il mondo e lo stesso Papa chiedendo tolleranza. La controversia durò a lungo, ma fu avviata a soluzione grazie al compromesso proposto dal gesuita Stanislaw Musial che convinse i connazionali a delocalizzare il convento carmelitano e gli «amici» ebrei a lasciare la croce al suo posto. Compromesso riuscito!

* Una versione ridotta di questo articolo è stata pubblicata su Insieme (MCLI, Berna) n. 9, Settembre 2020, p. 23.

Giovanni Longu
Berna, settembre 2020

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