La conclusione dell’Accordo tra l’Italia e la Svizzera
relativo all’immigrazione non pose fine alle polemiche che ne avevano
accompagnato la difficile gestazione, né tantomeno risolse tutti i problemi che
mirava a risolvere. E’ tuttavia singolare che, all’indomani della firma, a far
discutere maggiormente non siano stati i contenuti dell’Accordo, ma la data
della sua entrata in vigore, prevista a titolo provvisorio per il 1° novembre
1964, ma rinviata dal Consiglio federale per ragioni di politica interna. Solo
in un secondo momento si discussero, soprattutto in Svizzera, i contenuti e i
problemi che essi ponevano.
Debolezza negoziale italiana
Il fatto che le proteste del governo italiano sul rinvio
dell’entrata in vigore dell’Accordo non siano riuscite a far mutare
atteggiamento al governo elvetico rappresentavano l’ultimo segnale di debolezza
dell’Italia nell'intera trattativa.
Quanto fosse debole la posizione negoziale dell’Italia apparve
chiaramente dopo le esternazioni velleitarie del ministro Sullo quando
minacciò che «il governo di Roma, ove non si addivenisse ad un accordo
soddisfacente potrebbe anche decidere speciali provvedimenti, volti a limitare
l'emigrazione in Svizzera della mano d'opera italiana nuova». L’Italia infatti
non si trovava in regime di piena occupazione e sarebbe stato impossibile
frenare i flussi migratori, soprattutto quello verso la Svizzera, meta ambita
della maggioranza degli emigranti italiani di quel periodo per la forte
attrattiva di quel mercato del lavoro (salari elevati e grandi possibilità di
risparmio).
La debolezza del governo italiano era dovuta anche alla
forte opposizione del Partito comunista italiano. Il PCI, che dal
dopoguerra vantava un solido legame con alcune importanti organizzazioni
politico-sociali degli italiani in Svizzera, pretendeva d’interpretare meglio
di ogni altro partito le condizioni e le aspirazioni dei lavoratori emigrati.
Il governo di centrosinistra sperava di usare il nuovo accordo con la Svizzera anche
come arma politica anticomunista.
Inflessibilità della delegazione svizzera
La delegazione negoziale svizzera, al contrario, pur essendo
consapevole che dell’immigrazione italiana l’economia svizzera non avrebbe
potuto fare a meno almeno in tempi brevi, sapeva fin dall’inizio della
trattativa di non poter soddisfare pienamente le «rivendicazioni» italiane e di
godere di un forte sostegno politico al riguardo. Sapeva anche che se l’Italia
non avesse ridotto le sue richieste, la Svizzera avrebbe potuto cercare
manodopera altrove, ad esempio aumentando il contingente degli spagnoli e
aprendo le porte a turchi, greci, jugoslavi, ecc.
La linea della politica federale d’immigrazione cominciava a
delinearsi in modo chiaro. Sotto la pressione politica (estrema destra) e
sindacale, il Consiglio federale aveva avviato (marzo 1963) una politica
restrittiva dell’immigrazione con l’introduzione di limiti nelle nuove
assunzioni di stranieri. E’ probabile ch’esso intendesse dare un segnale delle
sue intenzioni (lotta all’«inforestierimento») non solo alle opposizioni
interne, ma anche all'Italia nel difficile negoziato.
Sta di fatto che l’Italia, per giungere a un accordo (che
avrebbe avuto ripercussioni importanti anche sulla sicurezza sociale), ha
dovuto recedere dalle rivendicazioni iniziali e accontentarsi di miglioramenti
parziali delle condizioni dei lavoratori italiani in parte già previsti
dall'Accordo del 1948.
Pochi miglioramenti effettivi
In effetti i miglioramenti ottenuti furono ben pochi. Uno di
essi, e forse il principale, fu la riduzione del periodo di attesa per il ricongiungimento
familiare per i residenti annuali (da tre anni a 18 mesi) e per gli
stagionali al momento della trasformazione del loro permesso da stagionale ad
annuale (possibilità del ricongiungimento immediato).
Ai lavoratori annuali residenti in Svizzera ininterrottamente
da almeno cinque anni venne concesso il rinnovo del permesso di dimora per due
anni e la possibilità di cambiare posto di lavoro e attività professionale. Non trovò invece soddisfazione la richiesta di ridurre
da dieci a cinque anni il periodo minimo di attesa per l’ottenimento del permesso
di domicilio. La paura dell’inforestierimento costituiva per la controparte
svizzera una barriera insormontabile.
I lavoratori stagionali ottennero la possibilità (ma
non la garanzia) di conseguire un permesso di dimora annuale qualora durante cinque anni consecutivi avessero soggiornato
regolarmente in Svizzera per almeno 45 mesi per motivi di lavoro, sia
pure «a condizione che trovino un'occupazione
annuale nella loro professione» (art.
12, cpv. 1 dell’Accordo).
Un altro miglioramento, modesto ma significativo, fu
l’umanizzazione del controllo sanitario all’ingresso in Svizzera che, «richiesto
per ragioni di sanità pubblica e nello stesso interesse dei lavoratori, sarà
limitato allo stretto necessario» (art. 14).
Almeno in linea di principio per i lavoratori italiani
rappresentò un miglioramento del loro statuto giuridico il riconoscimento
«degli stessi diritti e della stessa protezione dei nazionali per quanto
concerne l'applicazione delle leggi sul lavoro, sulla prevenzione degli
infortuni e sull'igiene, nonché in materia di alloggi» (art. 15, cpv. 2).
L’ultima parte del capoverso citato avrebbe dovuto quantomeno
limitare le discriminazioni e i disagi vissuti da molti italiani nella ricerca
dell’abitazione, tenendo presente che la disponibilità di un «alloggio
adeguato» era una condizione indispensabile per l’autorizzazione al
ricongiungimento familiare.
Nell’Accordo i lavoratori italiani ottennero anche alcune
garanzie circa il collocamento e l’assicurazione contro la disoccupazione,
le «stesse condizioni di lavoro e di retribuzione della manodopera
nazionale, nel quadro delle disposizioni di legge, degli usi professionali e
locali e, se del caso, dei contratti collettivi o dei contratti-tipo di lavoro»
(art. 15, cpv. 1), nonché qualche altro miglioramento nel campo delle
assicurazioni sociali.
A ben vedere, tuttavia, non si trattava di grandi
miglioramenti perché in parte erano stati già previsti nell’Accordo del 1948,
che garantiva, ad esempio, ai lavoratori italiani «lo stesso trattamento dei
nazionali per quanto concerne le condizioni di lavoro e di rimunerazione» come
pure l’applicazione delle «leggi e regolamenti relativi alle prevenzioni
degli infortuni, all’igiene (compresa la lotta contro la tubercolosi) e alla
protezione dei lavoratori» (art. 18 dell’Accordo del 1948).
Problemi aperti
Dato il clima piuttosto teso in cui si svolse il negoziato e
la rigidità delle posizioni iniziali da entrambe le parti, numerosi temi di
grande interesse non furono affrontati o vennero toccati solo marginalmente.
Si pensi solo a tutta la problematica legata alla seconda
generazione, che già agli inizi degli anni ’60 cominciava ad acquistare
vigore. Proprio nella prima metà degli anni Sessanta si stava registrando in
Svizzera il più forte incremento di nascite di bambini stranieri, che toccarono
il record di quasi 113 mila, in maggioranza di italiani, proprio nel 1964. Sarebbe
stati pertinenti almeno una riflessione e qualche impegno riguardo al loro
futuro, alla loro scolarizzazione, formazione professionale, integrazione.
C’erano poi problemi che andavano affrontati più
approfonditamente come quelli legati ai falsi stagionali, ai ricongiungimenti
familiari di molti lavoratori immigrati che non disponevano di un «alloggio
adeguato», alle difficoltà di reperire alloggi a buon mercato, alla partecipazione
degli immigrati alla vita sociale, ecc.
Il tema dei ricongiungimenti familiari era
indubbiamente uno dei più difficili da affrontare perché presupponeva politiche
molto controverse, soprattutto in Svizzera, riguardanti l’evoluzione e il
volume dell’immigrazione, lo statuto o gli statuti delle diverse categorie di
immigrati, lo sviluppo dell’economia e il fabbisogno di manodopera estera, la
convivenza tra indigeni e stranieri, la formazione scolastica e professionale,
i servizi sociali, ecc.
In assenza di politiche chiare e certe al riguardo era
inevitabile che il negoziato conducesse a un compromesso che, pur apportando
qualche miglioramento nell'immediato (almeno in linea di principio), non desse
alcuna garanzia di successo per il futuro. La clausola, ad esempio, della
disponibilità di un «alloggio adeguato» si prestava a valutazioni molto
soggettive. Anche la condizione del soggiorno e dell’impiego del capofamiglia
«sufficientemente stabili e durevoli», nonostante la precisazione della durata
di 18 mesi, non era affatto chiara, soprattutto in un contesto di grande
precarietà generale com'era quello migratorio. Per non parlare delle difficoltà
oggettive e personali di molte famiglie a rispettare i termini di attesa.
Si sa che queste incertezze e difficoltà si sono prestate a
molti abusi e sono in qualche modo alla base anche del fenomeno più volte
denunciato dei cosiddetti «bambini clandestini» o «bambini nascosti».
Poiché si tratta di situazioni molto complesse e delicate originate almeno in
parte dall'Accordo del 1964 e su cui si è scritto molto, ma in modo piuttosto
confuso, tornerò prossimamente sull'argomento nella speranza di apportare
qualche utile chiarimento.
Conseguenze politiche in Italia e in Svizzera
Naturalmente l’Accordo tra la Svizzera e l’Italia del 1964 ha avuto anche meriti
incontestabili. Mi riferisco in
particolare alla tematizzazione dei problemi migratori su scala nazionale sia
in Italia che in Svizzera (con conseguenze rilevanti sull'associazionismo
italiano) e l’avvio di un cambiamento radicale della politica migratoria
svizzera con l’abbandono del principio della rotazione della manodopera e
l’avvio di politiche di stabilizzazione e integrazione. (Continua)
Giovanni Longu
Berna, 5.11.2014
Berna, 5.11.2014
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