L’Accordo tra la Svizzera e l’Italia del 1964 doveva
risolvere numerosi problemi lasciati aperti dal precedente accordo del 1948 o
venutisi a creare nel frattempo. Si trattava in particolare di migliorare le modalità
del reclutamento, eliminare o mitigare le numerose limitazioni (per cambiare
professione, posto di lavoro, Cantone, ecc.) a cui erano sottoposti i
lavoratori immigrati, agevolare la trasformazione dei permessi stagionali in
permessi annuali, favorire la stabilizzazione dei residenti e i
ricongiungimenti familiari.
I risultati raggiunti dopo la lunga trattativa sono stati tutto
sommato modesti, soprattutto rispetto alle richieste italiane e alle attese
degli immigrati. Eppure sia l’Italia che la Svizzera hanno ritenuto
«difendibile» l’Accordo raggiunto, forse senza rendersi conto che molti
problemi rimanevano aperti (cfr. L’ECO del 5.11.2014).
Associazioni italiane impotenti e inascoltate
Se ne resero invece subito conto le organizzazioni degli
emigrati italiani che, pur riconoscendo alcuni miglioramenti ritenevano necessarie
ulteriori rivendicazioni, soprattutto in campo assicurativo, formativo,
abitativo e familiare. Tanto è vero che chiesero ben presto la revisione
dell’Accordo. Invano, sia per l’intransigenza della Svizzera (sotto la
pressione dei movimenti xenofobi), sia per la persistente debolezza negoziale
dell’Italia e sia anche per lo scarso peso politico dell’associazionismo italiano,
allora rappresentato principalmente dalla Federazione delle colonie libere
italiane in Svizzera (FCLIS) e dalle Associazioni
cristiane dei lavoratori italiani (ACLI).FCLIS, la più importante associazione italiana in Svizzera del dopoguerra |
In quei tempi (ormai in piena guerra fredda simboleggiata
dal muro di Berlino, costruito nel 1961), l’appartenenza e persino la vicinanza
al PCI (ossia al più importante partito comunista fuori dall’Unione Sovietica) rappresentavano
in Svizzera un pericolo e un ostacolo al dialogo. Per questo, com’è noto, in
quegli anni numerosi attivisti italiani (ma anche svizzeri e di altre
nazionalità) erano schedati perché sospettati di propaganda «illecita».
Purtroppo l’associazionismo moderato e impegnato nei
processi integrativi e formativi non era molto diffuso e non aveva ancora avuto
modo di esprimersi compiutamente. Solo sul finire degli anni Sessanta diventerà
urgente tra le diverse associazioni l’esigenza di organizzarsi meglio, di coordinarsi
maggiormente, di trovare nuove forme di rappresentanza, di avviare tentativi di
collaborazione con i sindacati svizzeri, con gli organismi scolastici ufficiali,
con nuove istituzioni delle Città e dei grandi Comuni svizzeri tese a favorire
il contatto tra svizzeri e stranieri, ecc.
Rallentamento voluto del processo integrativo
Da diversi documenti anche ufficiali prodotti nella prima
metà degli anni Sessanta risultava chiara e irreversibile la tendenza alla
stabilizzazione della manodopera estera. Il Consiglio federale avrebbe dovuto
tenerne conto, ma evidentemente non si sentiva pronto o non aveva la forza
sufficiente per dare un nuovo corso alla politica d’immigrazione.
L’esito della trattativa con l’Italia ne è una
dimostrazione. Di fronte alla richiesta italiana di ridurre da dieci a cinque
anni il periodo di attesa per l’ottenimento del permesso di domicilio a quanti
erano già a beneficio di un permesso di dimora annuale, la Svizzera oppose un netto
rifiuto. Riteneva che accogliere la richiesta italiana, avrebbe significato una specie di
capitolazione su una questione di «importanza capitale», che avrebbe avuto «conseguenze
molto gravi di carattere demografico, politico e sociale».
Si temeva che analoghe richieste sarebbero state avanzate prima
o poi dagli altri principali Paesi fornitori di manodopera (Germania, Francia,
Austria, Spagna, ecc.) e che la popolazione residente straniera sarebbe
cresciuta a dismisura. Era evidente la paura dell'inforestierimento, che
impegnava anche legalmente il governo federale a impedirlo, limitando non tanto
l’immigrazione (che poteva sempre contare sugli stagionali e sui frontalieri)
quanto l’aumento della quota di stranieri stabilmente residenti (annuali e
domiciliati).
Sta di fatto che
il processo d’integrazione (o assimilazione, come si diceva allora) fu molto ritardato, nell'illusione che l’immigrazione potesse continuare ad essere governata con i sistemi dei permessi, dei contingenti, della precarietà assoluta dei «Gastarbeiter». Una risposta positiva alla richiesta italiana avrebbe potuto anticipare di quasi un decennio quel processo integrativo che comincerà solo negli anni Settanta tra molti contrasti (si pensi alle numerose iniziative xenofobe degli anni Settanta e Ottanta e alla difficile convivenza tra stranieri e svizzeri). Agli italiani in particolare avrebbero potuto essere risparmiati innumerevoli difficoltà, discriminazioni, umiliazioni risultanti dall’odio xenofobo, ma anche da una politica poco coraggiosa e lungimirante.
il processo d’integrazione (o assimilazione, come si diceva allora) fu molto ritardato, nell'illusione che l’immigrazione potesse continuare ad essere governata con i sistemi dei permessi, dei contingenti, della precarietà assoluta dei «Gastarbeiter». Una risposta positiva alla richiesta italiana avrebbe potuto anticipare di quasi un decennio quel processo integrativo che comincerà solo negli anni Settanta tra molti contrasti (si pensi alle numerose iniziative xenofobe degli anni Settanta e Ottanta e alla difficile convivenza tra stranieri e svizzeri). Agli italiani in particolare avrebbero potuto essere risparmiati innumerevoli difficoltà, discriminazioni, umiliazioni risultanti dall’odio xenofobo, ma anche da una politica poco coraggiosa e lungimirante.
Ostacoli ai ricongiungimenti familiari, compromesso insufficiente
Con lo stesso atteggiamento di paura e di difesa ad oltranza
della situazione, la Svizzera si dimostrò poco aperta nella ricerca di
soluzioni praticabili e umane al problema dei ricongiungimenti familiari. Apparve
ben presto chiaro che il compromesso raggiunto nell'Accordo con l’Italia di una
riduzione dei tempi d’attesa per i titolari di un permesso annuale da tre anni
a 18 mesi (e in certi casi meno) era insufficiente.
Non credo che, alla luce delle condizioni generali di allora,
la Svizzera avrebbe potuto accogliere in pieno la richiesta iniziale italiana
di eliminare le restrizioni e i termini di attesa allora in vigore (tre anni dopo
l’ottenimento del permesso di dimora annuale). Mancavano, ad esempio, le
abitazioni «adeguate» che avrebbero dovuto accogliere le famiglie ricongiunte, mancava
soprattutto la disponibilità della popolazione indigena ad accogliere una
crescita pressoché incontrollata di altri stranieri.
Tuttavia, il Consiglio federale - è convinzione molto
diffusa tra gli studiosi di quel periodo - avrebbe potuto essere più
accondiscendente nei confronti della richiesta italiana. Del resto erano note
le critiche che gli venivano mosse sul tema dei ricongiungimenti familiari da
vari ambienti della politica e della società. Esse nascevano non solo da
considerazioni di ordine umano, morale e cristiano, ma anche da preoccupazioni
di carattere sociale. Erano noti i problemi, i rischi e i disagi che comportava
una prolungata separazione forzata delle persone sposate e magari con figli, si
parlava apertamente di «vedove bianche» e di figli extramatrimoniali in aumento,
di famiglie ufficiali e famiglie di fatto, di figli affidati a nonni e parenti
e di figli parcheggiati in collegi e istituti sorti allo scopo in Italia lungo
la fascia di confine con la Svizzera, ecc.
Eppure il Consiglio federale non venne incontro alla
richiesta italiana sui ricongiungimenti familiari, sebbene si rendesse conto dell’insostenibilità
alla lunga di una politica antifamiliare, che pretendeva una sorta di celibato forzato
da tutti gli stagionali e da una parte abbondante di annuali. Avrebbe potuto accondiscendere
almeno all’unità familiare dei coniugi entrambi stagionali o titolari di un
permesso annuale, anche se da meno di 18 mesi, pur pretendendo quali condizioni
indispensabili, per le famiglie con bambini, la disponibilità di alloggi
adeguati, l’assistenza costante dei figli in età prescolastica e la
scolarizzazione di quelli in età scolastica.
Figli «clandestini»
Si sa che molti italiani non si rassegnarono a questa
separazione forzata della famiglia né a soluzioni provvisorie come l’affidamento
dei figli a parenti o il loro ricovero in istituti. Dalla fine degli anni
Sessanta in poi molti preferirono quella che uno studioso ha chiamato «la
soluzione più istintiva, che è quella di portare comunque i bambini in Svizzera
e mantenerli in maniera clandestina» (Calvaruso), sfidando i divieti della
burocrazia svizzera e forse senza rendersi sufficientemente conto dei rischi e
dei pericoli che correvano essi stessi e soprattutto i loro figli.
Manifestazione in favore dei ricongiungimenti familiari |
La storia di questi bambini (che abbraccia alcuni decenni),
considerata in senso generale, è triste perché getta una luce oscura sulla
storia dell’immigrazione italiana (ma non solo italiana) degli anni Settanta e
Ottanta. E’ stato detto e ripetuto che la politica migratoria svizzera e
italiana è stata la principale responsabile di questo fenomeno, ma non va
dimenticata nemmeno la responsabilità degli stessi genitori italiani, vittime a
loro volta ma coscienti di molta ignoranza, di pregiudizi, di scelte sbagliate,
di priorità sconvolte (si pensi all’assillo del risparmio, del gruzzolo, della
casa in Italia, ecc.). Essi sapevano che non potevano trattenere illegalmente i
loro figli in Svizzera non avendo (ancora) i titoli per tenerli in condizioni
normali, forse sapevano anche che non stavano facendo il loro bene. O forse
credettero, in buona fede, di non avere altre alternative. Purtroppo a «pagare»
furono soprattutto bambini innocenti.
Nessuno, credo, è risalito nella catena delle responsabilità
all’Accordo italo-svizzero del 1964. Eppure nelle mancate risposte o nelle
soluzioni a metà di quell’Accordo è possibile trovare molte spiegazioni di quel
che è avvenuto nei decenni seguenti. Anche per questo l’Accordo del 1964 è
fondamentale nella storia dell’immigrazione italiana in Svizzera del
dopoguerra.
(Il primo articolo di questa serie è apparso il 24 settembre
2014).
Giovanni Longu
Berna, 19.11.2014
Berna, 19.11.2014
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